lunedì 28 aprile 2008

Un'alleanza inevitabile

Il recente viaggio del Papa negli Stati Uniti mi ha fatto venire in mente quello di tenore analogo effettuato da Nicolas Sarkozy nell’agosto dello scorso anno. Le due anime dell’Europa, quella religiosa e quella laica per antonomasia, il Vaticano e la Francia, che fanno visita ai cugini americani per rassicurarli sui sentimenti di stima e d’amicizia che il Vecchio Mondo nutre per loro. E vanno a farlo proprio tra le bianche mura di quella presidenza forse più controversa dell’intera storia dell’Unione, nelle mani di quel presidente che qualche anno prima era stato duramente criticato e osteggiato per la sua politica muscolare. Chi non ricorda il viaggio in Africa di Dominique de Villepin, l’allora ministro degli esteri francese, alla ricerca di alleati contro la politica americana in procinto d’invadere l’Iraq? E il suo discorso al Consiglio di Sicurezza dell’ONU quando aveva pronunciato parole sferzanti all’indirizzo del segretario di Stato americano Colin Powell? E chi non ricorda la ferma presa di posizione del Vaticano sempre contro la guerra in Iraq? Adesso il vento sembra tirare da un’altra direzione. Il viaggio del Papa è stato preceduto dal convegno, tenutosi a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana, dal titolo: “L’Europa e le Americhe insieme verso uno sviluppo integrale e solidale”. Convegno che il rettore della Libera Università Maria Ss. Assunta, Giuseppe Dalla Torre, ha sintetizzato così: “Il legame è molto importante perché in fondo l'America, sia l'America del nord sia l'America del Sud nascono dagli apostoli dell'Europa, sono come dire la nuova Europa e quindi questi legami sono legami linguistici, sono legami culturali, sono legami storici, di interessi artistici e naturalmente anche di carattere politico ed economico”. E adesso, al rientro da questo viaggio ritenuto un successo personale, il Papa ha definito gli Stati Uniti un "grande Paese" "che fin dagli albori è stato edificato sulla base di una felice coniugazione tra principi religiosi, etici e politici, e che tuttora costituisce un valido esempio di sana laicità, dove la dimensione religiosa, nella diversità delle sue espressioni, è non solo tollerata, ma valorizzata quale 'anima' della Nazione e garanzia fondamentale dei diritti e dei doveri dell'uomo". E ha concluso riservando in tale contesto positivo alla Chiesa il ruolo di “coscienza critica”. Sarkozy, a sua volta, confessa il suo imbarazzo per il discorso antiamericano di de Villepin all’ONU che bolla come arrogante. Sempre Sarkozy – considerato il presidente più filoamericano mai avuto dalla Francia – disse degli USA prima di candidarsi all’Eliseo: “Ecco un Paese che una parte della nostra élite detesta quasi per mestiere o quanto meno critica in modo caricaturale. Si dà il caso che sia una nazione con cui non siamo mai stati in guerra, cosa abbastanza rara; che nella storia recente è venuta ad aiutarci, difenderci, liberarci due volte; con la quale abbiamo in comune un sistema di valori democratici. Un Paese il cui stile di vita, le cui passioni sono quelli che i nostri figli sognano per loro stessi. Inoltre si tratta della prima potenza economica, monetaria e militare del mondo. Frequentiamo lo stesso oceano. Non ci vuole un grande stratega per capire che è nostro interesse avere con questo Paese le migliori relazioni possibili”. E in un suo discorso alla Columbia University affermò: “I francesi amano gli americani, il sogno delle famiglie francesi è che i figli vadano a studiare nelle università americane. Quando andiamo al cinema è per vedere film americani. Quando accendiamo la radio è per ascoltare musica americana. Noi amiamo gli Stati Uniti. Non dovete pensare che il mondo vi sia ostile. Il mondo vi ammira, il mondo vi rispetta”. Sembra lontana anni luce la visione atlantifuga che ha caratterizzato la presidenza Chirac.

Queste dichiarazioni sono un indicatore che l’Europa, e forse anche il mondo, stanno cambiando atteggiamento nei confronti degli Stati Uniti? Per quanto riguarda il mondo in generale sembrerebbe proprio di no. Il Center for American Progress e la rivista Foreign Policy hanno intervistato 108 esperti sull’argomento; da tale sondaggio è emersa la convinzione che il mondo è sempre meno sicuro per gli americani. Secondo gli esperti chiamati a pronunziarsi, entro dieci anni gli USA dovranno attendersi un altro attentato in stile 11 settembre e la maggiore minaccia, come c’era d’attendersi, proverrà dai paesi musulmani, ma non solo. In cima alla lista nera c’è il Pakistan che prima degli altri potrebbe consegnare tecnologia nucleare ai terroristi. Seguono nella lista la Corea del Nord, la Russia e l’Iran. Alla Russia spetta inoltre la palma di “alleato di Washington meno utile alla sicurezza americana”. Seguono in quest’elenco sinistro il Pakistan, l’Arabia Saudita, Israele, Messico ed Egitto. Prossimi baluardi di al Qaeda, in ordine di probabilità: il Pakistan, l’Iraq, la Somalia, il Sudan e l’Afganistan. Il Sudamerica, sempre più ostile agli USA, viene poco considerato forse per la sua scarsa incisività sulla scena politica internazionale. Convitato di pietra: la Cina, che al momento ha tutto l’interesse a tenere un profilo basso ma che, fra qualche anno, quando sarà meno dipendente dagli ordinativi e dal mercato americani, avrà modo di dire la sua, soprattutto quando occorrerà accaparrarsi gli ultimi barili di petrolio.

E l’Europa? Quanto è veramente amica e alleata affidabile degli Stati Uniti? Qui l’analisi si fa più complessa. Risuonano ancora nelle nostre orecchie gli slogan antiamericani e le scritte sui muri, ove America si scriveva con la “k”, di certa sinistra non solo marxista ed extraparlamentare. Questo antiamericanismo viscerale, che fa rima con antimperialismo, è tutt’altro che svaporato. Anche se quasi ovunque in Europa tira vento di destra. E gli stessi conservatori d’Europa sono tutt’altro che sintonizzati con i conservatori d’oltreoceano. Anche se gli Stati Uniti nascono dall’emigrazione europea, la loro storia è proceduta su altri percorsi. Noi abbiamo avuto la rivoluzione francese e, a due ore di fuso orario, la rivoluzione d’ottobre che a sua volta ha suscitato per reazione i vari fascismi e il nazionalsocialismo. Nei nostri parlamenti hanno dovuto imparare a convivere e a confrontarsi ideologie che altrove si annichilirebbero a vicenda. Talvolta come unico collante hanno avuto l’anticlericalismo. Invece la cosiddetta Rivoluzione Americana altro non è stato che una guerra per l’indipendenza dagli inglesi. Come ha osservato mons. Sergio Lanza della Pontificia Università Lateranense: “Si potrebbe dire sbrigativamente e approssimativamente, ma non senza verità, che le Americhe sono ancora certamente un continente religioso. L’Europa è un continente secolarizzato e questa è una grande differenza. Le Americhe interpretano il vissuto umano, relazionale, sociale, privato e pubblico, come grandezza religiosamente sensibile. L’Europa sta mostrando invece tendenze molto forti a sospingere sempre più la dimensione religiosa nel privato. E questo allora dà un’interpretazione nettamente differenziata del tema della laicità, che in Europa viene contrapposto alla religiosità. Nelle Americhe non succede e soprattutto, in questo caso, nell’America del Nord”.

Per dare un’idea di questa distonia può essere illuminante citare il contenuto d’una conversazione che George W. Bush ebbe con Jaques Chirac alla vigilia dell’invasione dell’Iraq. Chirac dall’omologo americano si sarebbe aspettato motivazioni d’ordine economico, politico o strategico a giustificazione dell’imminente intervento militare; e invece Bush lo stupì tirando in ballo motivazioni analoghe a quelle utilizzate dalla propaganda di Bin Laden, ovvero motivazioni religiose. L’invasione era necessaria perché Gog e Magog, due personaggi d’un’oscura profezia del libro di Ezechiele, erano all’opera. In questi personaggi negativi il presidente americano ravvisava anche le potenze mediorientali nemiche dei popoli cristiani; potenze già all’opera a cui bisognava rispondere essendo già evidente che quella profezia escatologica stava per compiersi. È facile immaginare lo sconcerto del presidente di quella Francia campione dell’eredità razionalista, fiera della sua laicità, capofila degli stati europei a “democrazia avanzata” che danno per scontato che la sfera religiosa sia stata definitivamente bandita dalla gestione della cosa pubblica. Neppure il Vaticano, stato confessionale per antonomasia, si sognerebbe di utilizzare tali argomenti nelle sue attività diplomatiche. La suddetta conversazione dimostra chiaramente quanto poco America ed Europa conoscano l’anima profonda l’una dell’altra.

Finché perdurerà questo stato di reciproca ignoranza continueranno ad esserci incomprensioni e fraintendimenti tra le due sponde dell’Atlantico. L’ideale sarebbe che nell’apprendere l’uno dell’altro ci si modificasse pure reciprocamente. Che gli europei apprendessero dagli americani a non svilire le proprie radici cristiane; a non identificare la laicità con il laicismo; pur tenendo distinti gli ambiti delle chiese e dello Stato, a non relegare la religione individuale in un angolo così recondito da escluderla a priori quale strumento d’interpretazione della realtà e d’incisione su di essa. Analogamente gli americani dovrebbero apprendere dagli europei a ragionare in maniera meno monolitica e monoculturale. In America hanno trovato rifugio le minoranze perseguitate in Europa; ma l’America è anche la patria di Salem, della segregazione razziale, del linciaggio, del primo maggio 1886, del processo sommario a Sacco e Vanzetti, del maccartismo, delle armerie, dei bracci della morte, del welfare incompiuto. È proprio nell’America tollerante che di tanto in tanto si scatena una persecuzione, una caccia alle streghe. Per questa reciproca sintonia giunge a proposito il titolo dell’incontro: “Europa e Americhe insieme per costruire la civiltà dell’amore”.

Purtroppo non vedo segnali che lascino supporre dei movimenti in tale direzione. Gli Stati Uniti continuano a muoversi in politica estera con la leggiadria d’uno spaccalegna mentre leggono gli eventi in una chiave profetica piegata a loro uso e consumo. Al contempo agli europei, che hanno da lungo tempo perduto il rapporto con i testi biblici, questa lettura americana degli eventi sfugge completamente. Le due sponde dell’Atlantico ancora si fraintendono abbondantemente. Come può esserci, allora, amicizia e alleanza senza una base comune di comprensione?

In realtà una base comune si sta costruendo, ma d’altro tipo. Il mondo si sta schierando e distingue sempre meno tra Europa ed America. L’una e l’altra producono merci sempre più difficili da smerciare ma hanno ancora parecchi quattrini e vivono di rendita. Sono entrambe vacche grasse da mungere; potenze in declino che hanno disperato bisogno l’una dell’altra per puntellarsi a vicenda in un estremo tentativo d’uscire dall’angolo per riacquistare il prestigio appannato e per tornare a dettare le regole del gioco nel consesso internazionale. In questo quadro, per il momento solo abbozzato, la religione c’entra ancora ma non più per i valori etico-morali che esprime bensì in chiave identitaria e culturale. Il cristianesimo viene richiamato non per costruire la civiltà dell’amore ma per compattare la società e per rimarcare le differenze e contrastare l’aggressione in atto da parte dei non cristiani. In quest’uso strumentale della religione i simboli assumono una grande importanza: il crocifisso nelle aule o l’osservanza della domenica quale giorno comune di riposo divengono lo strumento per chiamare alla conta i membri della comunità e per isolare ed espellere i corpi estranei, veri responsabili della perdita dei valori, della crisi dei costumi e dell’impoverimento della nazione. In questa prospettiva (anche in risposta alle provocazioni del fondamentalismo islamico) vedrei una convergenza delle due anime – laica e religiosa – dell’Europa, e al contempo un avvicinamento tra le due sponde dell’Atlantico.