lunedì 15 settembre 2008

Giochiamo a chi è più Chiesa

Con il documento ufficiale pubblicato a luglio “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa” la Curia romana ha di fatto stilato una classifica di quelle che hanno più diritto di altre a definirsi vera Chiesa di Cristo. Ovviamente al primo posto, diciamo in serie A, ella pone se stessa. La ragione addotta è che solo la Chiesa cattolica presenta “perenne continuità storica” e “la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo”, pertanto solo lei può attribuirsi il nome di vera Chiesa e, di conseguenza, fuori di lei non c’è Chiesa di Cristo. Ci sono tuttavia diversi livelli di non esserlo. Così al secondo posto, in serie B, vengono collocate le chiese ortodosse che, grazie ad alcuni elementi quali la successione apostolica, il sacerdozio e l’eucaristia, possono ancora fregiarsi del titolo di chiesa. Esse tuttavia presentano delle “carenze” in quanto non riconoscono i dogmi successivi allo scisma e “il primato di Pietro”, ovvero il papa di Roma. Con queste chiese il dialogo è possibile ma perché “possa veramente essere costruttivo, oltre all'apertura agli interlocutori, è necessaria la fedeltà alla identità della fede cattolica". Infine, in serie C, vengono poste le confessioni protestanti nate dalla Riforma del XVI secolo, ancora più deficitarie della verità. Esse non possono considerarsi “chiese in senso proprio” in quanto non conservano la successione apostolica, né il sacerdozio, né il sacramento dell’Eucarestia in modo sostanziale.

Che dire? Chi la fa l’aspetti. Adesso i curiali del Vaticano dovranno subire le classifiche che le confessioni chiamate in causa stilano a loro volta, e la posizione in cui ritengono di dover collocare la Chiesa cattolica. Cominciamo dalla seconda posizione, cioè dagli ortodossi. Essi chiaramente non condividono il documento vaticano. Afferma anzi il metropolita Kirill, braccio destro di Alessio II, che “il principio dell’unicità rivendicato dalla Chiesa cattolica vale a pieno diritto anche per la Chiesa ortodossa, in quanto erede di diritto e per successione apostolica dell’antica Chiesa unita”. Quanto alle “carenze” essi le respingono al mittente. È la Chiesa di Roma – essi affermano – ad essersi staccata dalla comunità ortodossa, Chiesa Una, Santa, Cattolica ed Apostolica, con quello che essi chiamano lo Scisma dei Latini. E lo ha fatto dopo una serie di scelte teologiche unilaterali prese a prescindere dall’autorità dei concili, unica istituzione legittimata a decidere sulle dottrine. Tali dottrine unilaterali partono con la pretesa del “primato di Pietro”, cioè del papa di Roma; equivocando astutamente sul gioco di parole “Pietro/Pietra” si è fatto dell’Apostolo il capo della Chiesa quando egli stesso affermò che è Gesù la pietra fondante (cf. 1Pt 2,4-6). Così Cristo avrebbe affidato la guida della sua Chiesa ad un uomo fallibile e, chissà come, a tutti i suoi successori; suoi “vicari”; quando Egli aveva promesso che il suo posto sulla terra sarebbe stato preso dallo Spirito Santo. Egli si è inoltre compiaciuto di fare di tali “vicari” dei formidabili monarchi temporali, quando Egli stesso aveva dichiarato che il suo regno non è di questo mondo, e quando nel tentativo di farlo re prese la fuga. Così la tenda che Pietro voleva costruire sul Tabor per Colui che non abita in un luogo fatto da mani, come per incanto, trovò realizzazione sul Vaticano. E in che tenda abitano i “vicari” di Colui che disse: “Le volpi hanno una tana… ma il Figlio dell’uomo non ha un posto dove poter riposare”! Or dato che questo tipo di monarchi può affermare: “la Chiesa sono io, io la Tradizione” (Pio IX), può altresì decidere in piena autonomia cosa è giusto e cosa è vero. Così essi fecero. Proibirono ai preti di sposarsi, imposero ai fedeli il digiuno sabatico, ritoccarono il Credo Niceno aggiungendovi il “Filioque”, facendo cioè procedere lo Spirito Santo non solo dal Padre ma pure dal Figlio modificando così la relazione trinitaria al suo interno. Dato che quei bastian contrari dei vescovi ortodossi si rifiutavano di accogliere i dogmi romani, il vescovo di Roma pensò bene di scomunicarli e di procedere per conto suo. Da allora, cioè dal 1050, egli introdusse la dottrina del Purgatorio, delle indulgenze, dei “meriti eccedenti” dei santi, dell’Immacolata Concezione, dell’infallibilità papale. Tutte a maggior ragione disconosciute dalle “carenti” chiese orientali. Chiese a suo tempo disposte ad accettare un primato onorario del vescovo di Roma in quanto pastore della comunità posta nella Capitale dell’Impero, non però un suo primato normativo. In esse era molto forte il senso d’uguaglianza di tutti i vescovi, ed ancora oggi la Chiesa orientale non conosce alcun potere centrale, alcun capo supremo. Ogni decisione su questioni dogmatiche non rientra nella competenza dei patriarchi, ma in quella del Concilio. Niceta, arcivescovo di Nicomedia e scrittore del dodicesimo secolo, esprime in modo preciso la posizione degli Ortodossi nei confronti del Papa: “Caro fratello mio, non neghiamo alla Chiesa romana il primato fra i cinque Patriarcati e le riconosciamo anche il diritto di un posto d’onore in seno al Concilio Ecumenico. Questa Chiesa, però, si è separata da noi a causa delle sue stesse azioni, quando con tracotanza assunse quella sovranità che non si addice alla sua funzione… Come possiamo accettare le sue encicliche, quando nemmeno ci ha consultato, quando nemmeno sappiamo alcunché? Se il Pontefice romano, seduto sull’alto trono della sua gloria, desidera folgorarci e in qualche modo scagliarci dall’alto le sue direttive e se desidera giudicare e comandare noi e le nostre Chiese senza nemmeno consultarci, ma soltanto per un suo arbitrario piacimento, quale genere di fraternità, o meglio, quale genere di paternità sarebbe questo? Saremo allora gli schiavi e non i figli di una tale Chiesa”.

Gli ortodossi rimproverano a Roma d’avere adottato una ecclesiologia fondata sull’idea di Chiesa Universale, ovvero di una Chiesa intesa come unico organismo universale di cui le singole chiese locali sono una semplice emanazione priva d’ogni autonomia. Un organismo pertanto centralista e per sua natura portato ad essere polo d’aggregazione giurisdizionalmente monarchico. Gli ortodossi invece si riconoscono in una ecclesiologia “eucaristica”. Cioè in una Ecclesia (intesa come adunanza di fedeli) chiamata a riunirsi nel Corpo di Cristo. Ovunque vi sia un gruppo di fedeli e un vescovo che, in virtù della propria successione apostolica celebri l’Eucarestia ed integri gli uomini adunati in Corpo mistico di Cristo, quella è Chiesa. Ogni riunione locale che rispetti questi criteri possiede tutta la pienezza della Chiesa di Dio in Cristo. Pertanto la Chiesa romana con il suo centralismo monarchico, fondato sulla sua particolare lettura del ministero petrino, minerebbe la dignità ecclesiologica delle singole comunità locali. Tuttavia, nonostante questa importante distinzione, la Chiesa ortodossa condivide con Roma la concezione di magistero legittimato dall’ininterrotta linea di successione apostolica che la Chiesa latina avrebbe solo esasperato avocando a sé ogni potere, anche normativo, e svilendo di fatto la funzione dei concili. Secondo la visione delle Chiese orientali, non devono essere queste a confluire nella Chiesa di Roma ma dovrà essere Roma, per i suoi mille anni di esistenza scismatica e solitaria, a tornare nella grande casa ortodossa della Chiesa Una, Santa, Cattolica ed Apostolica “dopo una grande tempesta che sconvolgerà i suoi piani e i suoi programmi di trionfalismo”. Così come d’altronde dovranno fare tutti gli altri cristiani; perché “la Chiesa Ortodossa è la vera Chiesa di Cristo” e perché, come insegna S. Cipriano, “nessuno può avere Dio per Padre se non ha la Chiesa per Madre”.

La risposta delle denominazioni poste in serie C, cioè di quelle sorte dalla Riforma Protestante, alla pretesa di unicità ed esclusività della Chiesa cattolica romana, tranne poche eccezioni, parte radicalmente da un altro presupposto. Protestanti ed evangelici sostengono che la Chiesa cattolica cerca legittimazione dalla fonte sbagliata; l’autorità infatti non deriva alla Chiesa dal collegamento con gli apostoli, secondo una o più linee di successione, ma dalla Parola di Dio. Di conseguenza gli insegnamenti della Chiesa cattolica, come di qualunque altra denominazione, sono autorevoli e vincolanti soltanto se rappresentano il vero significato e il chiaro insegnamento delle Sacre Scritture. La Chiesa cattolica contesta questa tesi affermando che è grazie alla propria autorità e all’utilizzo della propria tradizione che è stato possibile formulare un Canone, cioè selezionare e dare autorità agli scritti che compongono la Bibbia. Solo una Chiesa cattolica autorevole poté dare autorevolezza al Nuovo Testamento. D’altronde non è grazie all’autorità della Chiesa che si amministrava la Parola prima che questa fosse messa per iscritto? Ciò dimostrerebbe inoltre che la tradizione orale, tanto bistrattata dai protestanti, avrebbe un primato quanto meno cronologico sulla Parola scritta. Gli evangelici non condividono questa lettura dei fatti e ne spiegano la ragione.

Per i primi credenti il metro di riferimento che stabiliva l’autenticità del messaggio cristiano non era la tradizione bensì la stessa autorità degli apostoli, i testimoni diretti dell’evento salvifico. Il “canone” erano i dodici. La tradizione orale che andava accumulandosi era autorevole finché coincideva con la predicazione degli stessi apostoli. I primi scritti che formeranno il Nuovo Testamento, le lettere di Paolo, non avevano la pretesa di sostituirsi alla predicazione orale o di far parte della Sacra Scrittura ma, più semplicemente, di ovviare in qualche modo ai limiti fisici degli apostoli che non potevano trovarsi in più luoghi contemporaneamente e che erano impediti dalle difficoltà del viaggio, dall’ostilità delle popolazioni e persino dalla detenzione. Erano insomma uno strumento complementare alla predicazione orale che, quando possibile, veniva privilegiata. Ma già in questa fase traspariva la preoccupazione degli apostoli per i falsi insegnamenti che fin d’allora circolavano e venivano spacciati per dottrine apostoliche, anche sotto forma di lettere a loro attribuite (cf 2Ts 2,2; 3,17). Per l’aumento di tali scritti fuorvianti, per l’attesa dell’apostasia che lo stesso Paolo aveva preannunciato e, soprattutto, per la graduale scomparsa degli apostoli dovuta a ragioni di testimonianza o semplicemente anagrafiche, le comunità cristiane individuarono molto presto nel “trascorrere del tempo” un minaccioso nemico della sana dottrina. Venendo a tacere le voci di quei testimoni autorevoli, non rimase che affidarsi ancor più agli scritti che essi avevano lasciato e distinguerli con la massima cura dalla produzione apocrifa e pseudoepigrafica in circolazione. La formazione del Canone neotestamentario non fu dovuta pertanto ad un atto autoritativo da parte di un potere centrale ecclesiastico, peraltro ancora inesistente, ma fu un evento logico e naturale posto in essere dalle comunità cristiane in cui gli apostoli avevano vissuto e insegnato e che potevano autorevolmente testimoniare sull’autenticità dei loro scritti. Autori del tempo, come Ireneo e Tertulliano, per confutare l’autenticità delle cosiddette “tradizioni segrete”, che le chiese gnostiche sostenevano aver ricevuto direttamente dalle mani degli apostoli, si appellavano alla testimonianza delle suddette comunità che serbavano il ricordo dell’insegnamento apostolico, potevano attestarne l’autenticità degli scritti e li utilizzavano regolarmente nelle loro riunioni di culto. Si può pertanto affermare che già sul finire del secondo secolo questo processo di certificazione dei testi apostolici e del loro riconoscimento da parte di tutte le chiese dell’ortodossia poteva considerarsi concluso. Rimanevano giusto pochi scritti controversi, come l’epistola agli Ebrei per le chiese occidentali e l’Apocalisse di Giovanni per quelle orientali, su cui persisteva qualche sospetto soprattutto perché molto utilizzati in ambiente eterodosso, e che dovettero attendere ancora del tempo per essere accettati da tutti. Così i primi concili che si occuparono del Canone biblico, quello di Ippona (393) e quelli di Cartagine (397 e 419), si limitarono a ratificare un fatto ormai compiuto.

Allora, nel momento in cui scompaiono gli apostoli ed anche i diretti uditori della loro predicazione, la tradizione orale rischia di farsi sempre più incontrollabile e sospetta, e s’impone l’esigenza d’affidarsi agli scritti apostolici che trasmettano fedelmente tale tradizione, avviene un vero e proprio passaggio delle consegne dalla tradizione alle Scritture. Una sostituzione piuttosto che un affiancamento. Gli scritti canonici costituiscono la norma, e la tradizione – sempre più incontrollabile e sospetta – diviene una fonte secondaria credibile nella misura in cui trova conferma esplicita negli scritti apostolici. In questo trasferimento di consegne, secondo un “criterio di apostolicità”, la Chiesa compie un atto di umiltà, riconosce un’autorità esterna ad essa e rinuncia ad esercitare un magistero indicando nella Bibbia il solo magistero. Per dirla con il teologo luterano Oscar Cullmann, “l'unica decisione infallibile presa dalla chiesa primitiva consiste nell'avere rinunciato a ogni pretesa di infallibilità ponendo la Bibbia al di sopra di sé stessa”. Nel momento in cui certifica l’apostolicità della Scrittura ella vi si sottomette. Non spetta più a lei giudicare la Scrittura, ma spetta alla Scrittura testimoniare se la Chiesa è ancora cristiana.

Tuttavia col tempo nella Chiesa avviene un cambiamento strutturale di portata inaudita. La conversione del centurione Cornelio, l’intolleranza dei giudei e la dirompente attività missionaria dell’apostolo Paolo, avevano costretto la Chiesa giudeo-cristiana a prendere atto che la sua era una vocazione cattolica, nell’accezione etimologica di “generale” o “universale”; non era una chiesa etnica rivolta ai soli ebrei ma aperta ad ogni razza, nazione e lingua. Non era più la religione del Tempio, perché Cristo morendo una volta per tutte aveva reso inutile la ripetizione dei sacrifici; non era più la religione della Casta sacerdotale, perché tutti i credenti erano adesso “un popolo di sacerdoti a lui consacrati, il popolo che Dio si è scelto, per annunziare a tutti le sue opere meravigliose” (1Pt 2,9); non riconosceva alcun sommo sacerdote all’infuori di Gesù, “sommo sacerdote della fede che professiamo” (Eb 3,1). Era però anche la Chiesa militante, che da subito ospitò grano e zizzanie, pecore e lupi in “vesti da pecore” (Mt 7,15), e che così sarebbe sempre rimasta fino al giorno del giudizio quando la zizzania sarebbe stata separata dal buon grano (cf Mt 13,24-30). Ma ecco che avviene il cambiamento inaudito: la Chiesa conosce il potere e la ricchezza: offerte e lasciti ne fanno una formidabile potenza immobiliare; comincia ad edificare templi, reintroduce la liturgia e la ripetizione del sacrificio, ricostituisce un ordine sacerdotale e l’ufficio del sommo sacerdote che accentra su di sé un potere immenso. Gl’imperatori, che cominciano a temerla, dapprima la combattono poi ne fanno un’alleata, e il suo potere continua a crescere. La metamorfosi si compie: la Chiesa è adesso cattolica sotto un’accezione del tutto diversa, non nel senso che è di tutti ma che è su tutti, è il regno di Dio in terra e al contempo il corpo mistico di Cristo, è la Chiesa trionfante che proietta la Parusia, la “beata speranza”, in un futuro lontano e indeterminato. Non è più solo l’espressione visibile del popolo di Dio, che ospita il grano e le zizzanie, anzi non è più solo popolo ma è anche la struttura di potere che lo governa; come recita il Catechismo di Pio X, “è la società o congregazione di tutti i battezzati che, vivendo sulla terra, professano la stessa fede e legge di Cristo, partecipano agli stessi sacramenti, e obbediscono ai legittimi Pastori, principalmente al Romano Pontefice”. Questo fraintendimento sulla natura della Chiesa visibile (quella seguita da un determinativo: copta, cattolica, ortodossa, luterana, di Corinto o della Galazia), che è umana, fallace, sempre bisognosa di pentimento e di conversione, e la invisibile, Sposa perfetta, composta dai salvati di tutti i tempi che Dio solo conosce e rivelerà con l'evento escatologico, avrebbe portato al concetto di Chiesa Una Santa Cattolica visibile, al di fuori della quale non c’è salvezza.

Un tale accentramento di potere non poteva che porsi in conflitto con l’autorità della Sacra Scrittura, che venne derubricata a semplice fonte di fede tra le altre, la cui autorità non deriverebbe neppure da Gesù. Scrive infatti mons. Bernard Bartmann nel suo Manuale di Teologia Dogmatica: “Il Giudaismo riconosceva a lato della Legge scritta (Thora) una tradizione orale (Massora) che ne costituiva l’interpretazione. Cristo la respinse come “istituzione umana” (Mt 15; Mc 7). Il Cristianesimo, invece, fin da principio poggiò unicamente sull’insegnamento orale; non era e non fu mai una religione “del libro”. È incontestabile che Gesù insegnò solo a viva voce e non lasciò alcuno scritto. Ai suoi discepoli Gesù diede il mandato di predicare, non di scrivere. Se più tardi, dopo trenta o quarant’anni, venne loro l’idea di porre in scritto gl’insegnamenti e le azioni del Signore, lo fecero certamente per provvidenziale disposizione, al fine di edificare i fedeli e di dimostrare la Divinità di Cristo e della sua Parola, ma non per ordine di Gesù. Inoltre con i loro scritti non intesero descrivere tutto l’insegnamento e tutta la vita del Signore, ma solo metterne in luce i punti principali”. Come dire che il Vangelo è inferiore alla Tradizione orale in quanto, sempre per la Chiesa di Roma, incompleto, posteriore e privo di mandato. Tollerato, insomma, finché non pone ostacoli alla Tradizione che venne rispolverata e ristabilita alla dignità di fonte principale. E con tradizione s’intese non solo quella apostolica, ma anche gli atti dei Concili ecumenici e provinciali, l’insegnamento dei Padri, i decreti dei Papi, i Catechismi, le formule di preghiere, i Breviari, la produzione apocrifa e le storie dei Santi, le iscrizioni, l’architettura, l’iconografia cristiane, e non ultime le consuetudini. Cioè di tutto. Ovviamente con un tale groviglio di documenti, spesso in aperta contraddizione tra loro e con l’insegnamento biblico, era necessario fare ordine e porre priorità, ecco allora giungere provvidenziale il magistero della Chiesa, l’unico autorizzato a interpretare, a prendere coscienza di nuove dottrine e a mandarne in soffitta altre ritenute superate o inopportune.

Con tali premesse fu inevitabile l’introduzione di dottrine estranee e conflittuali non solo con l’insegnamento biblico ma pure con ogni presunta tradizione orale apostolica che non poteva evidentemente contraddire quanto gli apostoli avevano messo per iscritto. Dottrine che invece possono essere benissimo spiegate come prestiti dai culti pagani, profondamente radicati nelle credenze dei fedeli spesso "convertiti" a forza, in massa e senza preparazione. Dottrine che spesso s’insinuarono di soppiatto, si radicarono nell’uso e nel sentire comune e che, dopo molti secoli, entrate a far parte della tradizione ecclesiastica, furono adottate ufficialmente. Avvenne così con il culto di adorazione che fu trasferito dal sabato alla domenica, che si trasformò da momento libero, spontaneo e partecipato, di preghiera, di lettura biblica e di meditazione, in celebrazione rituale della Messa (394). Mentre la Messa intesa come sacrificio fu una dottrina che si sviluppò gradualmente e solo nel 1215 concluse il suo iter con il dogma della Transustanziazione. La chiesa ortodossa lo ufficializzò solo nel 1672. La storia della confessione auricolare ricalca quella della Messa: viene raccomandata, non senza resistenze, nel IV secolo. Giovanni Crisostomo, ad esempio, esorta a confessare i propri peccati solo a Dio. Bisognerà attendere anche in questo caso il 1215 perché essa sia resa obbligatoria. Il battesimo ancora nel secondo secolo veniva somministrato per immersione e ai soli adulti; ma nel terzo secolo era già comune la forma per aspersione e la somministrazione ai bambini. La rapidità di questo cambiamento si spiega con la praticità d’uso nelle conversioni di massa e con la fidelizzazione alla Chiesa. La liturgia cattolica del battesimo venne fissata nella forma attuale dopo il 1614. Nei primi tre secoli la Chiesa è ostile all’uso delle immagini, sia pure di Cristo. Il Concilio di Elvira (306) vieta la presenza di immagini nelle chiese. Lattanzio (fine IV secolo) scrive: “Laddove vi è un’immagine, non vi può essere la vera religione”. Eusebio consiglia di ricercare l’immagine di Cristo nella Sacra Scrittura e non altrove. Le cose cambiano con le conversioni forzate dei pagani, idolatri, nel quarto secolo. È però un percorso graduale. Ambrogio e Agostino ammettono le immagini nelle chiese ma solo a scopo didattico a favore dei bambini e degli “ignoranti”. Presto però si cade nel culto vero e proprio. Nell’VIII secolo l’Imperatore Leone Isaurico lancia una vera e propria campagna iconoclasta per liberare la Chiesa d’Oriente da questa pratica. Carlo Magno negli stessi anni consente la presenza delle immagini nelle chiese solo a scopo artistico e didattico. Ma il fermo appoggio della Chiesa cattolica al culto delle immagini fa fallire questo tentativo di riforma e nel X secolo la situazione è ovunque normalizzata a favore di questa forma di devozione. Ma il culto introdotto nella Chiesa, il più estraneo in assoluto alla religione della Bibbia, è quello reso alle creature, sia vive che defunte. E tra essi il più stupefacente per evoluzione e diffusione e quello di Maria, madre di Gesù. Il tutto consentito da un altro errore dottrinale, quasi subito penetrato nella Chiesa, quello della sopravvivenza cosciente delle anime dopo la morte. Lo stesso mons. Bartmann ammette che il culto di Maria s’è sviluppato tardi, nel quarto secolo. “Ci si occupò dapprima del culto degli apostoli e dei martiri, delle loro tombe e delle loro reliquie. Pare che si fosse persa ogni traccia della tomba di Maria e che fosse stato dimenticato il giorno della sua morte”. La prima festa a lei dedicata non è anteriore al 500. I primi Padri ignorano il culto ai santi e alla Madonna; ed è significativo il fatto che esso si sviluppi nel IV secolo, ovvero in concomitanza con la conversione forzata e di massa dei pagani e con la loro esigenza di sostituire (e spesso di camuffare) il culto degli eroi mitologici, degli dei patronali e settoriali e della dea madre con gli eroi cristiani e con l’unica possibile “dea madre” cristiana. Altro fatto significativo è che l’unico dogma lontano nel tempo su Maria è quello che la dichiara “Madre di Dio” (431) e in pratica apre al suo culto. Gli altri sono recenti e ratificano credenze sviluppatesi nel tempo e divenute tradizione. Tale è il dogma sulla sua immacolata concezione (1854) e quello sulla sua assunzione in cielo (1954). Sono ancora in attesa di proclamazione la sua “perpetua verginità” e la sua “opera mediatrice e corredentrice” su cui è in corso una raccolta di firme per accelerare il percorso. Nessuna di queste credenze, per quanto vecchie di secoli, è corroborata seriamente dall’insegnamento scritturale, e a proposito cadono le parole del vescovo Cipriano:”La consuetudine senza la verità è soltanto l'antichità dell'errore”.

Tutto questo è avvenuto per avere disprezzato il magistero esclusivo delle Sacre Scritture, l’unica regola affidabile in materia di fede. Altro che Deposito della Fede e chiarificazione progressiva della rivelazione di cui la Chiesa cattolica avrebbe l’esclusiva! “La fede cristiana in sé non può conoscere alcun progresso storico, perché il cristianesimo fu veramente e pienamente tale nel suo inizio, soltanto in Gesù Cristo, e di lì in poi si è svolto allontanandosi dalle perfette origini … Per grazia di Dio un recupero del senso originario è, almeno in qualche misura, possibile … Il deposito della fede non si sostiene se non su una Parola che, pronunciata duemila anni fa, le nostre orecchie hanno ancora udito”: è il pensiero del compianto Sergio Quinzio, scomodo teologo cattolico innamorato del Vangelo. La Rivelazione biblica non ammette concorrenti. Affiancarle tutori o integratori equivale a respingerla. Essa stessa proclama la sua autosufficienza, a cominciare da Gesù che mette in guardia contro le tradizioni degli uomini che annullano il comandamento di Dio. Per quanto abili possano essere i difensori della tradizione a camuffare la verità, il loro rimane un culto inutile (cf Mt 15,6-9; Mc 7,9). “Se non ascoltate la sua Parola non c’è speranza per voi”, leggiamo in Isaia 8,20. L’apostolo Paolo fa spesso riferimento all’autosufficienza delle Scritture; una raccomandazione su tutte: “Non andare al di là di ciò che è scritto” (1 Cor 4,6). E l’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, come a voler mettere in guardia contro gli abusi e le aberrazioni, che peraltro aveva previsto, chiude con quella che potremmo a tutti gli effetti definire una formula di esecrazione: “Io lo dichiaro a chiunque ode le parole della profezia di questo libro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio aggiungerà ai suoi mali i flagelli descritti in questo libro; se qualcuno toglie qualcosa dalle parole del libro di questa profezia, Dio gli toglierà la sua parte dell'albero della vita e della santa città che sono descritti in questo libro." (Apocalisse 22,18-19).

Questo è l’argomento del contendere tra gli evangelici, il popolo del Libro, e la Chiesa cattolica che, come ammette candidamente mons. Bartmann, “non fu mai una religione del libro”. Per l’insanabilità di questo contrasto prese avvio la Riforma protestante. Dopo aver tentato di reprimerla, come sempre aveva fatto in passato e come in seguito continuò a fare, la Chiesa indisse il Concilio di Trento con l’atteggiamento, però, non di vagliare la fondatezza degli argomenti portati dai “ribelli”, bensì con l’animo di una fiera ferita nel corpo e nell’orgoglio. La Controriforma fu in realtà una controffensiva volta alla riconquista dei territori perduti e, comunque, al contenimento dei danni. Si mostrò attenta solo all’accusa d’immoralità e d’ignoranza del clero disponendo per una maggiore disciplina e per l’istruzione degli ecclesiastici. Ma sul piano della dottrina l’atteggiamento fu quello di una totale chiusura alle istanze dei riformati, con la riaffermazione rigida di tutta la dogmatica cattolica, anzi, con la sua cristallizzazione in formule perentorie che sott’intendevano l’inerranza della Chiesa e che non ammettevano ripensamenti né presenti né futuri. Tale atteggiamento di chiusura e di rivalsa era ulteriormente sottolineato nell’adozione delle nuove armi della Compagnia di Gesù, dell’Inquisizione e dell’Indice dei libri proibiti cominciando dalla Bibbia nelle lingue nazionali. In questo generale clima d’intolleranza si osservano due concezioni della fede che si riverberano sui modelli di vita delle rispettive comunità civili, da un lato il severo stile morale delle città calviniste, dall’altro il mondo cattolico della moltiplicazione dei santi e delle reliquie.

Il Concilio Vaticano II aveva costituito un vero momento di rottura con questo spirito di chiusura e di rivalsa. Da un punto di vista dottrinale la Chiesa non è indietreggiata su nulla però ha cercato di presentarsi alle confessioni riformate in una veste più accettabile, almeno sulla forma se non sui contenuti, in prospettiva di una loro confluenza. I documenti conciliari, dalle formule volutamente smussate, hanno illuso molti spiriti ecumenici sia esterni che interni alla Chiesa di poter ritrovarsi anche sui contenuti. I documenti della Congregazione per la dottrina della fede, “Dominus Iesus” nel 2000 e “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa” oggi, hanno se non altro il merito di fare chiarezza, di sgombrare il campo da quest’equivoco, su cui credeva una parte minoritaria della Chiesa. Certo, la sensazione è però quella del ritorno al clima cupo della Controriforma. Leggevo giorni fa un articolo a firma di Franco Bifani dal titolo Si ricomincia con la messa in latino e si torna all’inquisizione che si concludeva con la seguente preoccupazione: “Non vorrei che, di questo passo, per accontentare certi integralisti, tradizionalisti e fanatici cattolici, quella Chiesa che si autodefinisce Una, Santa, Cattolica, Apostolica e Romana, andasse a riesumare e ripescare, dai loro muffi e polverosi reconditi nascondigli - Dio non voglia! - rituali e tradizioni inquietanti, come l'Inquisizione, la ruota ed il cavalletto per gli erranti, magari pure qualche auto-da-fè, per illuminare le notti festive, o la pubblica gogna nelle piazze, per rallegrare gli astanti, durante le sagre dei Santi patroni locali, al posto delle giostre del luna park”.

Quest’atteggiamento da “unica della classe” richiama inevitabilmente l’atmosfera tridentina dell’Inquisizione e dell’ostinata difesa della Tradizione a dispetto della Parola. Infatti la Chiesa cattolica stila la sua classifica sulla base di elementi ignorati o persino condannati dalla Scrittura, come la successione apostolica, l’Ordine sacro, il magistero e persino l’infallibilità. È chiaramente un criterio soggettivo e lei è liberissima di applicarlo, come i Mormoni sono liberissimi di stilarne uno tutto loro sulla base degli insegnamenti contenuti nel libro di Mormon. Invece le Chiese della Riforma si rifanno al principio della Sola Scriptura riassunta magnificamente dalla recente dichiarazione di Cambridge: “Riaffermiamo che la Scrittura è inerrante ed è la sola fonte di rivelazione scritta da Dio e l’unica a poter vincolare la coscienza… neghiamo che un qualche credo, concilio o individuo possa vincolare la coscienza di un cristiano”. Gli evangelici non stilano classifiche perché non si ritengono inerranti, né l’unica Chiesa, né pretendono confluenze da parte di chicchessia. Però chiedono alla Chiesa cattolica, che li ha chiamati in causa, di pronunciarsi sul criterio della Sola Scriptura: è esso oggettivo o soggettivo? Se essa risponde che è un criterio oggettivo, allora deve trarne le conclusioni – lei che neppure si considera religione del libro – e sapere da sé in quale posizione della classifica andare a collocarsi. Se invece essa risponde che Sola Scriptura è un criterio soggettivo delle confessioni protestanti, come già fece in occasione del Concilio di Trento, allora ella legittimamente si pone al vertice delle confessioni paracristiane. A dispetto e a nocumento dei tanti cristiani che tuttora si riconoscono in lei.



Per approfondire:

La vera Chiesa unica e sola
Il sincretismo, nemico storico del Cristianesimo
Il sincretismo, nella dottrina dell'anima immortale

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domenica 7 settembre 2008

La vera Chiesa unica e sola

All’inizio di luglio dello scorso anno la Congregazione per la dottrina della fede ha pubblicato un documento dal titolo “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”. In essa il Vaticano ribadisce che l’unica Chiesa di Cristo, “comunità visibile e spirituale” continua e permane nella Chiesa cattolica. Le altre realtà ecclesiali non cattoliche, pur contenendo elementi “di santificazione e di verità”, sono portatrici in varia misura di “carenze” al punto da non potersi considerare, a parte gli ortodossi, “chiese in senso proprio”. Il documento afferma di voler sgombrare gli equivoci sorti da interpretazioni “infondate” del documento conciliare “Lumen Gentium”, del 1964, in cui i padri conciliari affermavano che “la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica”. Proprio in quel “sussiste” era stato visto l’implicito riconoscimento che la Chiesa di Cristo possa sussistere, con pari pienezza, anche in altre chiese cristiane. Tali interpretazioni, puntualizza il documento della Congregazione per la Fede, hanno frainteso l’insegnamento dottrinale del Concilio Vaticano II, in quanto la parola sussiste “può essere attribuita alla sola Chiesa cattolica”, che presenta “perenne continuità storica” e “la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo”. Tuttavia lo stesso Pontefice ha voluto chiarire che questa precisazione “lungi dall’impedire l’impegno ecumenico autentico, sarà di stimolo perché il confronto sulle questioni dottrinali avvenga sempre con realismo e piena consapevolezza degli aspetti che ancora separano le Confessioni cristiane”.

Ma l’affermazione di non potersi riconoscere nella Chiesa di Cristo, e persino di non potersi considerare chiesa, non è stata avvertita dalle altre confessioni cristiane propriamente come un’apertura all’ecumenismo. Ancor più in considerazione del riferimento che viene fatto nel documento alla Dichiarazione “Dominus Iesus”, emessa nel 2000 a firma dell’allora cardinale Ratzinger, ove si affermava che la salvezza era possibile solo all’interno della Chiesa cattolica; e in considerazione della precisazione, contenuta nel medesimo documento, secondo cui “perché il dialogo possa veramente essere costruttivo, oltre all’apertura agli interlocutori, è necessaria la fedeltà alla identità della fede cattolica”. I più sconcertati sono i cristiani della riforma, i più impegnati nel dialogo ecumenico con i cattolici, e i più bistrattati nel documento summenzionato.

Il segretario generale dell’Alleanza riformata mondiale, pastore Setri Nyomi, in una lettera indirizzata al cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, scrive: “Siamo sconcertati dalla presentazione di tale documento in questo momento storico per la chiesa cristiana… In un’epoca di frammentazione sociale in tutto il mondo, l’unica chiesa di Gesù Cristo a cui tutti partecipiamo dovrebbe rafforzare la propria testimonianza comune e affermare la propria unità a Cristo. Il documento offre una interpretazione di Lumen Gentium che ci riporta al pensiero e all’atmosfera che c’erano prima del Concilio Vaticano II”.

“Un documento del genere manda segnali sbagliati”, ha dichiarato il pastore Thomas Wipf, presidente della Comunità delle Chiese protestanti in Europa. “Le sfide di questo mondo chiedono a gran voce che le chiese lavorino insieme. La comunione non è un obiettivo ideale, ma il nostro compito. Le vedute dottrinali sono molto importanti, ma non devono spaccare la Chiesa… Secondo la Riforma protestante gli elementi originali delle chiese sono la pura predicazione del vangelo e la corretta amministrazione dei sacramenti. Questo e nient’altro dev’essere visto come espressione autentica dell’unica Chiesa di Cristo. Tutto ciò che è esteriore è fallibile, incluse la Chiesa protestante e quella cattolica”.

Il pastore Domenico Maselli, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, ha definito “un vistoso passo indietro nei rapporti ecumenici il testo vaticano. Tuttavia il dialogo deve continuare. È vero che non fa altro che ripetere quanto già affermato nella Dominus Iesus del 2000, ma il concetto è ora ribadito con una chiarezza insolita. Una frase soprattutto colpisce il lettore ecumenico: è la frase in cui si definisce la chiesa cattolica come quella "nella quale concretamente si trova la Chiesa di Cristo su questa terra". Pare evidente che l'unico modo per cercare l'unità sarebbe quello di entrare nella Chiesa cattolica romana. Ciononostante il dialogo ecumenico deve continuare, e può continuare, mettendosi ognuno in discussione, per cercare di ascoltare la voce di Cristo che per tutti noi è la via, la verità, la vita. In questo spirito si deve continuare il cammino sia in Italia che nel resto del mondo, fidando nel rispetto reciproco ed anche nella laicità dello Stato che permette che la libertà di discussione, di ricerca e di religione sia mantenuta fino in fondo”.

“Il papa Benedetto XVI interpreta in senso restrittivo un concetto espresso dal Concilio Vaticano II. L'indicazione che ribadisce è questa: la frase del Concilio la Chiesa di Cristo sussiste nella chiesa cattolica va intesa così, che la vera chiesa coincide con quella cattolica romana. Fuori di lei non c'è Chiesa di Cristo. E aggiunge, ci sono tuttavia livelli diversi di non esserlo. C'è un livello di serie B per le chiese ortodosse e c'è un livello di serie C per le chiese protestanti, ancora più deficitarie della verità. Non è facile rispondere a un tale ragionamento dal sapore un po' offensivo. In primo luogo perché come valdesi e metodisti non vogliamo essere chiesa contro le altre. La strada del rafforzamento della propria identità non passa da quella del discredito e della caricatura dell'altro. I cristiani, indipendentemente dalla loro serie, devono trovare un approccio diverso dai diktat nel loro relazionarsi ad una società sempre più multiculturale, sebbene consapevoli dei forti limiti del relativismo imperante… È triste che i cristiani, anziché chiedersi ciò che Cristo si aspetta da loro, stiano a preoccuparsi delle delimitazioni. Dentro e fuori. Il problema non sono i confini. Tanto più che la Chiesa, lo sappiamo, è e sussiste in Cristo”, è la considerazione dei pastori Pons e Mercurio delle Chiese valdesi e metodiste di Genova .

Infine riportiamo il commento del teologo valdese Paolo Ricca: “Questa idea monopolistica del cristianesimo disturba ed è difficile da digerire. È un duro attacco all'identità altrui, anzi una vera e propria negazione… La mia reazione è piuttosto negativa perché il documento, affermando che la chiesa di Cristo esiste esclusivamente nella chiesa cattolica, chiude definitivamente quelle porte che il Concilio Vaticano II sembrava aver aperto quando diceva che la Chiesa di Cristo “sussiste in quella cattolica” e non più “è quella cattolica”. Una distinzione introdotta, quella tra subsistit ed est, che molti interpretarono come un segnale di apertura verso le altre chiese, non escludendo che Cristo potesse sussistere anche in altre comunità cristiane. Ora, con questo documento, si azzerano anni di storia ecumenica e si torna alla situazione pre-conciliare". Persino gli “elementi di salvezza” che si riconoscono alle realtà ecclesiali non cattoliche sarebbero efficaci “perché appartengono alla chiesa cattolica che li diffonde alle altre facendosene tramite. E dunque anche qui si riafferma il monopolio dei cattolici… La conseguenza - conclude Ricca - è che se così stanno le cose l'unità dei cristiani non può che avvenire nella chiesa cattolica romana. Significa riaffermare la dottrina del ritorno all'ovile romano, secondo cui tutte le chiese devono reintegrarsi nella chiesa cattolica così com'é, con questa struttura e con questo Papa. Ma questo - aggiunge - è negare ciò che uno è e negare che noi siamo una chiesa".

Reazioni legittime e del tutto prevedibili. Ci si chiede allora cos’abbia spinto il Vaticano a venir fuori, di punto in bianco, con affermazioni che sembrano produrre l’unico risultato di vanificare gli sforzi di quegli spiriti ecumenici che nell’unità dei cristiani ci credono; “contro ogni speranza”, talvolta essi affermano amaramente. Emblematico lo sfogo espresso da Anna Maffei, presidente dell’Unione battista italiana, alla vigilia della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani di cui quest’anno ricorre il centenario: “Mi chiedo se sia preghiera vera quella che ci vede uniti nella Settimana di gennaio o se non siamo diventati attori di un rituale stanco e privo di sbocchi. Anche Gesù denunciava l’atteggiamento di persone che pregavano solo per esibire la propria pietà. Proprio alla luce di testi evangelici come questi, mi pongo questo interrogativo cruciale, presa dallo scoramento di certi passi indietro nel cammino ecumenico, certe rigidità, certe dichiarazioni di autosufficienza che feriscono”.

In realtà già nel 2000 quando uscì “Dominus Iesus”, il cardinale Edward Cassidy, l’allora presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, aveva manifestato il suo dissenso quanto meno rispetto ai “tempi e ai modi” di simili esternazioni. Insomma, la diplomazia vaticana risaputamente esperta consumata nelle relazioni esterne d’ogni livello, come può scadere in quelli che tutto sommato sembrano dei grossolani errori di percorso? Probabilmente perché il target di tali esternazioni non è esterno ma molto interno alla Chiesa di Roma. Motivo del contendere è il Concilio Vaticano II, considerato come una pietra miliare da difendere e sviluppare dagli innovatori ma come una vera iattura da neutralizzare, reinterpretandolo in senso restrittivo, dai tradizionalisti. La battaglia è asperrima ma ufficialmente lo si ammette malvolentieri; in privato però gli sfoghi ci sono, come quello dell’arcivescovo Piero Marini quando ha affermato che “la riforma liturgica è stata affossata dalla Curia romana”. Mons. Marini è stato fino a novembre dello scorso anno Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie ed è stato rimosso dall’incarico evidentemente perché contrario alla reintroduzione della messa in latino. “La riforma liturgica – ha spiegato l’ex cerimoniere – non era intesa o applicata solo come riforma di alcuni riti, ma come base e ispirazione per raggiungere gli scopi che il Concilio si era proposti”, tra i quali “l’unità di tutti i credenti in Cristo”. Infatti, uno dei segni evidenti di questa contrapposizione tra le due anime della Chiesa è la forte resistenza che ha incontrato l’attuazione concreta nelle diocesi del Motu proprio sulla reintroduzione della vecchia messa.

La rivista progressista Confronti sottolinea la contemporanea pubblicazione delle Risposte (in cui si afferma la coincidenza della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica) e del “Motu proprio Summorum pontificum con il quale Benedetto XVI, liberalizzando la liturgia post-tridentina, e la soggiacente teologia, cara ai lefebvriani, - osserva esplicitamente la rivista – manomette il Vaticano II, e insidia la visione ecclesiologica del Concilio”.

Tutto sembra indicare che ci troviamo in un momento cruciale del confronto. Le Risposte vanno inquadrate in questo contesto. Esse si rivolgono soprattutto ai laici cattolici e ai chierici d’ogni livello con spiccata vocazione ecumenica. Questi ovviamente contestano che le Risposte siano una precisazione dottrinale delle affermazioni emesse dal Concilio, considerandole semmai un loro stravolgimento. “Sarà la chiesa di Roma l'unica vera chiesa di Cristo? – si chiede il domenicano Frei Betto, teologo della liberazione – Allora perché Roma ha soppresso dal Credo il passaggio per cui noi cattolici crediamo nella «chiesa cattolica, apostolica, romana», come io pregavo nell'infanzia? Adesso si dice solo «credo nella santa chiesa cattolica», ciò che implica il suo carattere universale e apostolico ma non romano. E rende ancor più difficile l'ecumenismo quell'altra affermazione di Benedetto XVI secondo cui riconoscere il vescovo di Roma, il papa, come guida di tutte le chiese è la condizione per l'unione delle comunità ecclesiali cristiane. Il Concilio vaticano II insiste nel rinnovamento e nella conversione di tutte le chiese, compresa quella di Roma, come requisito essenziale per l'unità perduta, prima con lo scisma fra Oriente e Occidente nel 1054, poi con la riforma di Lutero nel secolo XVI. Il Concilio raccomanda alla chiesa di Roma di riconoscere gli elementi di verità presenti nelle altre chiese. Di prestare attenzione in ciò che unisce e non in ciò che separa… L'unità dei cristiani non sarà mai raggiunta attraverso la via scoscesa dell'autorità, ma solo attraverso quella della carità, della tolleranza, della nostra umiltà nel riconoscere i propri errori ed essere capaci di trovare quel che c'è di positivo, di evangelico nelle altre chiese e denominazioni religiose. Il primato dell'amore è l'unico capace di garantire l'unità della fede nella diversità delle culture. Ora e sempre, Cristo è la guida della chiesa e noi, i fedeli, siamo le differenti membra del suo corpo”.

Certo, se vi sono espressioni talvolta velate nei documenti conciliari è perché già in quella sede si dibattevano le due anime della Chiesa e fu necessario trovare formule di compromesso. Anche l’espressione “Questa Chiesa… sussiste nella Chiesa Cattolica, governata dal successore di Pietro” è una di quelle soluzioni volutamente ambigue, formula compromissoria tra le posizioni dei due gruppi. Tant’è vero che nella prima stesura del ’63, in linea con la Mystici Corporis di Pio XII, il documento conciliare era espresso ancora con “è la Chiesa Cattolica” anziché con il “sussiste nella Chiesa Cattolica” della stesura finale dell’anno successivo. E chiaramente, se si apportò un cambiamento di quel tenore in un’enunciazione così importante è perché un messaggio si voleva comunicare. Affermare pertanto adesso che con “sussiste” si voleva semplicemente dire “è” e per giunta “soltanto” (“La Chiesa di Cristo... continua ad esistere pienamente soltanto nella Chiesa Cattolica”) vuol dire annullare un anno di dibattito conciliare e sa tanto di revisionismo storiografico. Si comprendono pertanto le reazioni di sorpresa e il dissenso che il documento vaticano suscita non solo nelle confessioni non cattoliche ma pure in molti vescovi e teologi cattolici, anche autorevolissimi, che muovendosi nella scia conciliare riflettono su un ecumenismo non più “romano-centrico”.

Invero si avvertivano fino allo scorso decennio alcuni importanti segnali che sembravano aprirsi verso quelli che Giovanni Paolo II aveva proposto di chiamare “cristiani di altre confessioni” o “fratelli ritrovati” e neppure più “fratelli separati” (separati da chi? dalla cattolica unica vera Chiesa e quindi da Cristo?). Dicevamo di alcuni importanti segnali, quali ammissioni di colpa, richieste di perdono, incontri ecumenici sia tra teologi che a livello di comunità locali, che lasciavano sperare in un abbandono della tradizionale pretesa della Chiesa di Roma di essere la detentrice piena ed esclusiva della verità e dell’ecclesialità. Ma ex abrupto è arrivato il 2000, l’anno del Giubileo, con le indulgenze, con l’accoglienza solenne in piazza S. Pietro della “Madonna di Fatima” e quindi con il risalto dato al culto mariano, con la beatificazione di Padre Pio e di papa Pio IX, autore dei dogmi della “immacolata concezione” e dell’infallibilità papale. Insomma con l’ostentazione di un cattolicesimo deciso a sottolineare le cose che lo dividono piuttosto che quelle che lo accomunano alle altre confessioni cristiane. Infine, nell’agosto dello stesso anno, la pubblicazione della ratzingeriana “Dominus Iesus”, di cui le odierne Risposte sono una ulteriore riaffermazione, ove si ribadisce in modo esplicito e inequivocabile la pretesa di Roma di rappresentare l’unica vera e autentica Chiesa di Cristo. Davvero un annus horribilis per il sogno ecumenico e per i cattolici che si riconoscono nella svolta conciliare.

L’anno 2000 è quindi quello in cui viene allo scoperto la fazione più “reazionaria” della Chiesa, quella dell’ecumenismo a senso unico, della riconduzione all’ovile delle pecore disperse delle altre entità cristiane (per grazia di Roma). Ed ecco quindi emergere il livore per i progressisti che, mentre il “Papa volante” girava il mondo e riempiva le piazze, hanno silenziosamente occupato i posti che contano e giorno dopo giorno, con i minimi implacabili aggiornamenti della loro cancrena modernista, hanno contaminato il dogma della fede. Sono i catto-modernisti-conciliaristi, teologicamente leninisti, che contano al loro interno eminenti porporati gerosolimitani (leggi card. Martini), vescovi prudentemente dissidenti, la maggioranza dei teologi e un gran numero d’intellettuali. Sono una consorteria velenosa che ha trafficato con ogni forma ereticale antica e moderna, che si sente investita dallo spirito e dalla storia del compito maieutico di liberare i credenti in Cristo dal dogma e di costruire una Chiesa autenticamente cattolica, affrancata dalle proprie “scorie oscurantiste” e depurata dalle superstizioni della propria tradizione storica. Sono i figli delle antiche eresie che hanno usato il Concilio Vaticano II come grimaldello per scardinare il “depositum fidei” e insozzarlo con i propri irrimediabili errori.

Ecco, questo è lo stato d’animo dei tradizionalisti che vivono l’azione di riforma dei conciliaristi come un attentato all’integrità della Chiesa che essi, appunto, considerano l’unica e perfetta Chiesa di Cristo. Da quando Ratzinger è salito al soglio, essi si sono ulteriormente rafforzati; ed è prevedibile che questo trend non subisca modifiche di rilievo. Anche perché è una linea che riscuote consensi e suscita attenzione nel mondo cattolico. I pellegrini affluiscono numerosi a San Pietro, i libri del papa si vendono bene e le offerte a lui destinate dai fedeli sono passate dai 59 milioni di dollari del 2005 ai 102 milioni dello scorso anno. Evidentemente è un segno della sicurezza che l’attuale pontefice sembra dare soprattutto agli ambienti più conservatori e spesso più agiati della Chiesa. Tempi duri quindi si prospettano per i riformisti interni alla Chiesa cattolica? Certamente, come d’altronde è sempre stato. E il movimento ecumenico, che fine farà? Logicamente il ritorno ad una posizione pre-conciliare non faciliterà il processo di convergenza ma può servire a chiarirsi. Come ha affermato recentemente il cardinale Walter Kasper, l’attuale presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, “è finito l’ecumenismo delle coccole”. D’altra parte se non ci si vuol più sentire “attori di un rituale stanco e privo di sbocchi” i salamelecchi dovevano pur finire e doveva altresì cessare l’ormai inconcludente insistenza su “ciò che unisce” nascondendosi il davvero tanto che continua a dividere. È ormai giunto il tempo di dirsi le cose senza inutili giri di frasi.

A quel punto si tratterà di capire cosa intenderanno fare le chiese e i singoli fedeli. Potrebbero esservi gruppi cristiani che accettino di unirsi alla Chiesa di Roma alle sue attuali condizioni, cioè semplicemente confluendovi. La Chiesa presbiteriana americana sembra indirizzata in tal senso, come d’altronde hanno già fatto in passato diverse comunità ortodosse d’Oriente. Oltre a ciò, potrebbero verificarsi degli eventi congiunturali di tale entità nel mondo che suggeriscano una riunificazione non nel segno dell’amore ma della reciproca convenienza, un compattamento della cristianità occidentale in chiave identitaria e in risposta all’aggressione portata d’altri integralismi. Un’unione, pertanto, non per unire le persone ma contro altre persone. Che sinistro ecumenismo quello che chiama a raccolta “fedeli” risentiti, astiosi e assetati di rivalsa! “Quando l’uomo pretende di farsi difensore di Dio, diventa demonio. Spinto dalla frenesia del suo zelo religioso, perde ogni sentimento di amore, dimentica i precetti più sacri della sua fede, diventa feroce e implacabile”, leggevo citato in un libro di Adelio Pellegrini (Quando la Profezia diventa Storia, p. 614).

Tuttavia a nostro conforto, noi abbiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: “Padre santo, conserva uniti a te quelli che mi hai affidati, perché siano una cosa sola come noi… Come tu, Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi… Così potranno essere perfetti nell’unità” (cf. Gv 17,11-23). Man mano che gli uomini vengono attratti dall’amore del Padre e del Figlio, si attraggono tra di loro. L’indifferenza non attira. L’odio divide, e quando unisce lo fa sempre contro qualcuno. Solo l’amore unisce per unire. Il discrimine è pertanto l’amore. I cristiani disamorati “discutono per stabilire chi tra essi deve essere considerato il più importante” (Lc 22,24), ma il destino dei cristiani perfetti nell’amore è quello di ritrovarsi. È forse questo il limite delle discussioni ecumeniche, che non avvengono tra uomini innamorati ma tra fredde istituzioni, radicate in questo mondo, capaci al massimo di unirsi “contro”. Di fronte a tale prospettiva la frammentazione è forse il male minore. Così come il popolo ebraico fu diviso nei due regni di Giuda e d’Israele per volontà di Dio (cf. 1 Re 12,24), altrettanto è evidentemente avvenuto per il popolo del nuovo patto. Prendere atto “che storicamente la Chiesa esisterebbe di fatto in molteplici configurazioni ecclesiali, riconciliabili soltanto in prospettiva escatologica”, come ormai pensano in tanti all’interno della Chiesa cattolica, non è affatto un’eresia. Avversata dalle istituzioni non lo è da molti fedeli. Perché, anche se in molti vorrebbero rinnegarlo e stramaledirlo, il Concilio Vaticano II è avvenuto ed ha prodotto un effetto dirompente all’interno della Chiesa come mai era accaduto neppure lontanamente in passato. Sono avvenute cose impensabili: la Bibbia è stata messa in mano alla gente, quando un tempo chi era trovato a leggerla veniva “combusto”. I teologi cattolici sono stati incoraggiati a dialogare con i loro colleghi protestanti, ad apprezzarne il pensiero. Papa Paolo VI giunse ad affermare che una delle prime persone che avrebbe desiderato incontrare in paradiso era Karl Barth, ritenuto il massimo teologo protestante. Queste son cose che fanno inorridire i custodi del dogma, ma in esse i cristiani senza etichette scorgono invece la mano di Dio. Egli sta preparando il suo popolo all’interno della Chiesa cattolica, come all’interno di ogni altra chiesa, per riunirlo nell’imminenza del ritorno di Cristo; perché “Padre, voglio che dove sono io siano anche quelli che tu mi hai dato” (Gv 17,24).


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