domenica 23 ottobre 2011

Strane rondini sulle primavere arabe

Svolazzano come avvoltoi e raggelano l’aria come certe mattine di fine autunno. E di avvoltoi e di iene ne stiamo osservando parecchi in questi giorni attratti dall’odore di sangue misto a petrolio. La cattura e il linciaggio di Gheddafi, il tiranno del popolo libico, occupa le prime pagine dei giornali altrimenti distratti dalla crisi finanziaria che incombe sul mondo occidentale. Quelle immagini crude, rese ancor più concitate dalle riprese malferme dei cellulari, vengono continuamente riproposte come la coazione a ripetere di un evento ove il sacro incontra il profano, ove banalizzando ciò che è solenne forse in qualche modo si cerca di esorcizzare quello che appare il destino non solo dell’uomo-Gheddafi ma dell’uomo in quanto uomo, del suo incerto futuro. E allora le risate concitate attorno alla preda turbano come il latrato delle iene nella notte, foriero di accadimenti tutt’altro che rassicuranti.

Si sta anche scrivendo di tutto sull’argomento. Tra le riflessioni che ho più apprezzato per la loro capacità di sintesi c’è il post di Massimo Gramellini dal titolo “Gloria Mundi”, pubblicato sulla Stampa di due giorni fa. Scrive Gramellini nel suo primo capoverso: “Non c’è mai nulla di glorioso nell’esecuzione di un tiranno. La vendetta resta una pulsione orribile anche quando si gonfia di ragioni. Ci vogliono Sofocle e Shakespeare, non gli scatti sfocati di un telefonino, per sublimarla in catarsi. Gli sputi, i calci e gli oltraggi a una vittima inerme - sia essa Gesù o Gheddafi - degradano chi li compie a un rango subumano”.

Gramellini poi prosegue magnificando la grandezza, la coerenza e la sensibilità dei nostri governanti che pocanzi baciavano la mano al beduino della Sirte e lo definivano “un grande alleato dell’Italia”, e adesso di fronte al suo corpo morente, trascinato sull’asfalto, ridotto in un cencio sporco di sangue, si complimentano con i vincitori e si abbandonano in esternazioni tipo: “Dobbiamo gioire” o “Una grande vittoria del popolo libico”.

Un sodalizio basato sui valori quello tra i nuovi padroni dei pozzi e i loro clienti, davvero incoraggiante per il nostro futuro. I commenti dei lettori, di fronte all’evento straordinario e solenne, colgono in qualche modo la condizione dell’uomo incastrato in mezzo al guado. Della bestia famelica che aspira alla condizione angelica ma l’unica evoluzione che riesce a compiere è quella tecnologica. Prima le sue battute di caccia le incideva sulle rupi, adesso le fissa con i telefonini ma la sua natura è rimasta quella dell’assassino e del predatore spietato e infingardo.

C’è chi si sforza di comprendere la reazione della folla (“Mi aiuto pensando a quello che hanno fatto loro, per anni e anni, ad altre persone uomini, donne, vecchi, bambini”). Ce persino chi giustifica pienamente il comportamento di un popolo che si libera del tiranno (“Beh io invece sono contenta per la fine che ha fatto. Anche se avrei preferito una morte peggiore, più atroce e lenta. perché sono una mamma anch'io e non posso non ricordare le vittime che ha mietuto senza pietà. Le sue parole, Gramellini, sono proprio penose. Si vergogni”).

Ma un buon numero di lettori, invece, coglie il brutto segnale che lancia chi combatte la tirannia usando i suoi stessi metodi. Pur essendo doveroso ricordare le vittime del dittatore, e i parenti delle vittime che tanto dolore hanno provato sulla loro pelle, è ancor più doveroso per chi spera in un’umanità più “umana” distinguersi dal tiranno. Gheddafi non andava trucidato ma processato e messo in prigione a vita. “Noi dobbiamo essere DIVERSI controllando i nostri istinti più feroci. Come possiamo pretendere di essere autorevoli e dimostrare che esiste un altro modo di essere uomini, più alto e meno vicino alla bestialità, se non ci distinguiamo dai carnefici?”. “Come al solito manca quel sentimento per i vinti che si chiama pietas che dovrebbe differenziarci dalle bestie!”. “Non è mai vittoria la violenza che vince sulla violenza!”. “Chi uccide non è mai un vincitore ma una vittima egli stesso”. “Che moralità è quella di chi, per la ragione più giusta, pesta e ammazza un uomo inerte? Come si può esaltare la vittoria del bene sul male quando questa avviene per mezzo della violenza?”. “È agghiacciante il binomio festa/uccisione. Legittima il sospetto che un piccolo dittatore violento alberghi anche in noi”. “Alla fine non c'è differenza tra tiranni e tiranneggiati: la differenza la farebbe il diverso comportamento di chi è stato vessato e perseguitato… invece quando i ruoli si invertono il perseguitato si comporta come il peggiore dei tiranni. Forse siamo tutti uguali: non è la ragione che ci guida ma sono le circostanze”.

C’è persino chi per questa violenza generalizzata, che emerge sempre uguale a se stessa, s’interroga sul destino non solo del singolo, o anche d’un popolo, ma dell’intero genere umano. “La storia è fatta di cicli, anche il nostro sta per concludersi, non abbiamo imparato nulla e siamo rimasti le bestie di uomini che eravamo, altro che esportare la democrazia”. Qualcuno vede una luce solo in un remoto futuro. “La violenza è parte del patrimonio genetico dell'essere umano e ci vorranno secoli se non millenni per ridurla, tramite la cultura, a livelli bassi”. Come dire: se l’evoluzione è solo migliorativa, alla luce di un presente che sembra negare quest’evoluzione, non resta che spostare in un futuro sempre più lontano l’attesa di quest’ipotetico evento migliorativo. Ma altri temono che l’umanità non farà in tempo ad assistere all’improbabile accidente evolutivo che estirpi dal codice genetico i nostri istinti più bestiali. “Ormai tutto il mondo è in rivolta, una feroce ribellione senza fine, senza vinti e vincitori. Negli uomini del 21° secolo emerge l’istinto bestiale di uccidere e godere uccidendo, istinto che credevamo ormai domato dalla civiltà e dalla cultura. Invece no, purtroppo. Che sia questa la vera fine del mondo? Non terremoti, vulcani e altre calamità naturali, bensì l’uomo che uccide se stesso?”.

Non mancano poi quelli che la buttano in politica, che si soffermano sull’atteggiamento vile, opportunistico e cinico dei nostri governanti. “Mai articolo è stato così denso come questo. Bravissimo per aver dipinto uno stato, quello italiano, dalla morale incerta, dal senso di pudore di una sfatta baldracca e dalla civiltà perduta. Questa è l'ennesima dimostrazione che buona parte degli italiani, quelli che ora festeggiano la morte di Gheddafi, non solo è inaffidabile, ma dimostra il prezzo della sua codardia”. “Davvero ancora una volta questi politicanti dal mediocre profilo etico hanno perso una preziosa occasione per dimostrare di possedere un briciolo di umanità in più e un po’ di ipocrisia e di cinismo in meno. Ancor più alla luce delle loro recenti frequentazioni con il Rais. Che tristezza...”

Ma anche il giudizio sui governanti altrui non è meno critico. Costoro più attenti dei nostri a esternare ma nei fatti non meno cinici. “Ma tu guarda: questa guerra è stata combattuta per il petrolio! Meno male che me l’hanno detto…. Altrimenti avrei continuato a pensare che fosse per motivi umanitari, per esportare un po’ di democrazia. Tanto da noi se ne produce parecchia!”. La stessa eliminazione del rais insieme ai suoi scomodi segreti viene sospettata come pilotata dall’alto. “Troppo comodo ucciderlo, troppi segreti spazzati via con la sua morte”. “Il Rais alla sbarra sarebbe stato assai “imbarazzante” per europei e americani e viceversa molto illuminante per la Storia”. “Arrivati alla fine, i dittatori fanno più “comodo” morti che processati. A tanti conviene più Gheddafi morto con i suoi segreti, che non Gheddafi sotto processo pronto a parlare per aver clemenza: conviene a molti governi, con cui il Rais ha intrallazzato non sempre alla luce del sole”. “Non è proprio vero che all'estero siano così più "sensibili" di noi… e basta con questa esterofilia così italianeggiante… La primavera araba è cominciata e continua sotto i peggiori auspici”.

E qui, lasciati i governanti senza valori che implicano società senza valori solo superficialmente libere e democratiche, passiamo al timore molto diffuso che anche queste cosiddette primavere arabe di primavera abbiano ben poco. C’è chi osserva l’evento dalla prospettiva cinica (definita, con termine neutro, “realismo politico”) che è propria della cultura dominante. “Gheddafi era quello che era, ma in ogni caso fungeva da argine contro i fondamentalisti islamici. La stupidità di Obama, degli Inglesi e dei Francesi ha aiutato gli oppositori Tunisini ed Egiziani. Con la caduta di Ben Alì, di Mubarak e Gheddafi, si è regalato tre stati chiave ai fondamentalisti. Abbiamo perso degli alleati e guadagnato dei nemici. L'idiozia umana non ha limiti”. Ma, cinismo a parte, è comprensibile la preoccupazione di chi si chiede dove condurrà questo moto di ribellione contro le dittature laiche che hanno fatto comodo ai governi occidentali ma che hanno anche impedito che questi popoli cadessero sotto il giogo medievale di ancor più opprimenti dittature confessionali. Abbiamo guardato con simpatia a questi giovani “indignados” dell’altra sponda che usavano Twitter e Facebook per rivendicare il loro diritto alla libertà, ma quei popoli non son fatti solo di giovani e non tutti i giovani hanno ben presente che la libertà è tale quando include quella altrui. L’emancipazione delle donne, la libertà di pensarla diversamente, di professare un’altra fede (o di non professarne alcuna) e di farne propaganda sono proprio concetti ardui da afferrare presso le società islamiche. Nella “laica” Tunisia vigeva il reato di apostasia e chi andava in giro con una Bibbia in borsa rischiava l’arresto. Persino nella Turchia di Atatürk, non dico di Erdogan, era praticamente impossibile fare proselitismo. Il recente massacro di cristiani copti in Egitto è davvero un cattivo segnale. In Tunisia il partito che si appresta a vincere l’elezione dell’assemblea costituente è l’Ennahda islamico. I suoi esponenti dicono d’ispirarsi a quello moderato di Turchia, l’Akp, ma stando ad altre loro dichiarazioni c’è poco da essere ottimisti sulla nuova costituzione che uscirà da quell’assemblea. E tornando alla Libia, pensando al modo sbrigativo in cui si eliminano i nemici di oggi c’è da preoccuparsi sul trattamento che sarà riservato agli avversari di domani. “Che paese verrà fuori da inizi così selvaggi?”, si chiede un lettore. Un altro osserva: “Io prima di cantare vittoria, aspetterei di vedere come si svilupperà la futura Libia. Speriamo in bene. Ma attenzione al fondamentalismo, che ha impiegato molti uomini in questa guerra: chiederà la sua parte. A vedere le esecuzioni senza processo, qualche dubbio sul futuro democratico di quel paese è legittimo. Solo il tempo dirà chi era il Rais, e chi saranno i suoi successori”. Analogamente un altro afferma: “Fa impressione l'esultanza di un popolo che per 42 anni lo ha appoggiato ed osannato. C'è il conformismo, c'è la paura del momento, c'è il legittimo risentimento di alcuni per una oppressione durata troppo a lungo. Ma lo strèpito attuale non deve far dimenticare il silenzio dei molti che in Libia non festeggiano. La prospettiva di una Libia in mano a fanatici islamici non è irrealistica”. Poco rassicuranti a tal proposito sono le dichiarazioni di Mustafa Abdel Jalil, presidente del Consiglio Nazionale di Transizione libico, sulla volontà di fare della sharia la fonte del diritto della nazione che sta nascendo. “Ogni norma che contraddica i principi dell’islam non avrà più valore”, ha rincarato il medesimo. E questa seconda dichiarazione è ancora più inquietante, perché in qualche modo tutte le società musulmane si ispirano alla sharia (cioè alla Legge di Dio che ha come fonte il Corano e la Sunna) però non tutte le legislazioni nazionali accettano di farne una sorta di costituzione insindacabile. Quando ciò avviene abbiamo lo stato confessionale che per definizione è antidemocratico in quanto trae la sua legittimazione da "Dio" anziché dal popolo, con tutte le conseguenze possibili e immaginabili sul pluralismo e sul rispetto delle libertà individuali.

Quel che sta accadendo in Nordafrica e in Medio Oriente merita la massima attenzione perché si prospetta come un avvenimento epocale; una sorta di spartiacque con il passato così come fu la caduta del muro di Berlino. Porterà libertà o maggiore oppressione per quei popoli? In qualche modo hanno ragione coloro che sostengono che la democrazia non è un bene esportabile, tout court? Anche se spesso, come ben sappiamo, questa affermazione serve a giustificare il cinismo e la rapacità dei cosiddetti paesi sviluppati; o, al contrario, posizioni puramente ideologiche in funzione antioccidentale. D’altronde se consideriamo il disprezzo che noi stessi sembriamo riservare alle libertà democratiche, nonostante il prezzo con cui esse siano state conquistate, come non temere per la loro affermazione in contesti culturalmente a loro lontani? Eppure quel che accade lì ci riguarda molto da vicino. E purtroppo, per gli attriti che potrà sprigionare, riguarda anche gli interessi delle nuove potenze asiatiche emergenti. Si prospetta pertanto, sulla base dei prossimi sviluppi, un rimescolamento di accordi e alleanze, complicate dalla presenza dello stato d’Israele e del conflitto irrisolto con le popolazioni arabe confinanti. Affronteremo questo tema in una prossima riflessione.

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domenica 9 gennaio 2011

Concezione americana della decenza

Le gambette nella foto, tenute insieme da una catena per detenuti pericolosi e coperte da un paio di pantaloni abbondanti, sono quelle di Joseph McVay, un bambino di 10 anni che ha ucciso la madre con una fucilata alla testa. Per ragioni futili, a quanto pare: questa gli avrebbe chiesto di andare a raccogliere la legna da ardere. Joseph non è nuovo a scatti d’ira. Nel 2007 aveva colpito il direttore della scuola elementare con una paletta e per questo motivo era stato trasferito in un istituto per minori con problemi di comportamento. Anche se i vicini non lo descrivono come un bambino cattivo ci si chiede come sia possibile avergli lasciato la disponibilità di un’arma. Più d’una, in realtà. Nella sua cameretta, infatti, la polizia ha trovato, oltre all’arma del delitto, un fucile da caccia calibro 12 e, in una rastrelliera appesa alla parete, altre due carabine calibro 22. Peraltro la carabina con cui Joseph ha ucciso la madre gli era stata donata dal nonno, oggi defunto. Deborah, la madre, non era una persona eccentrica. Il figlio maggiore l’ha definita una donna molto affettuosa; come lavoro gestiva un centro d’assistenza sanitaria e insegnava a bambini disabili. E allora? Cosa non ha funzionato?

La sensazione è che sia proprio l’America che non funzioni. Essa fa dei suoi cittadini dei mostri e poi li distrugge. Con tutte le incongruenze di cui gli uomini sono capaci. Lì per farsi una birra ci vogliono 21 anni ma le armi si possono detenere liberamente. Ormai avviene così spesso che non fa più notizia; un ragazzino entra in classe e spara ai compagni e agli insegnanti. Subito viene mobilitata una squadra di psicologi per curare i traumi alle persone coinvolte ma a rivedere le leggi sul libero acquisto e la detenzione delle armi neanche a parlarne. C’è chi ci ha provato ma subito viene messo a tacere non solo dalle lobby delle armi ma dalla stessa opinione pubblica per la quale il Secondo Emendamento è intangibile e il possesso delle armi fa parte dei diritti individuali. Anzi la tendenza è quella di rafforzare ulteriormente questo diritto e quando, nel giugno del 2008, una sentenza della Corte Suprema ha compiuto un passo ulteriore in tale direzione, gli americani apprezzarono così tanto l’orientamento di quest’organo che d’un balzo la sua popolarità crebbe di sette punti. Quest’esercizio del diritto individuale alla violenza, sia pure per legittima difesa, è così radicato da non ritenersi in conflitto con l’insegnamento cristiano di cui gli americani si ritengono i migliori depositari. Ci sono chiese che giungono a organizzare l’Open carry celebration, una singolare manifestazione durante la quale tutti i fedeli sono invitati a venire alla funzione religiosa portando in tasca una pistola. Dopo il sermone segue il buffet e la lotteria che mette in palio pistole, fucili e videocorsi sull’uso delle armi. “Non vedo nessuna contraddizione fra possedere armi ed essere cristiano, – afferma Ken Pagano, pastore della New Betel Church di Louisville – Dio e le pistole sono parte della storia di questo paese… Il diritto a possedere armi non è vietato dalla Bibbia né è incostituzionale. Non tutti i cristiani devono essere per forza pacifisti”.

Quando poi il diritto alla violenza privata si trasforma in violenza agìta, soprattutto dalle persone più fragili per struttura mentale, per educazione o per età, allora non scatta la solidarietà collettiva, l’azione di recupero, bensì la pubblica vendetta. I minori sono le prime vittime di questo meccanismo perverso. La giustizia americana a malapena si accorge della loro peculiarità; le Family Court sono qualcosa di diverso dai tribunali minorili e ancor oggi negli U.S.A. in molti casi i minorenni vengono giudicati dai tribunali per gli adulti. Gli Stati Uniti, in buona compagnia della Somalia, sono l’unico paese a non aver ratificato la Convezione dei diritti del fanciullo approvata dall’ONU nel 1989. Anzi proprio in quell’anno la Corte Suprema stabiliva che era accettabile l’esecuzione di criminali di 16/17 anni, affermando che gli standard internazionali erano irrilevanti e che ciò che contava davvero era la “…concezione americana della decenza”. Lo stesso giorno sempre la medesima Corte stabiliva l’ammissibilità della pena di morte per gli imputati mentalmente ritardati. Da allora si è assistito ad un timido avvicinamento ai principi di diritto penale minorile portati avanti dagli “Stati industrializzati occidentali” per attenuare l’isolamento internazionale che vede gli Stati Uniti unica democrazia a consentire la “juvenile death penalty” per usare le parole di un giudice della Corte Suprema. Ma le distanze rimangono ancora abissali. Attualmente 24 Stati dell’Unione consentono l’esecuzione di minorenni all’epoca del reato. Il XXI secolo è cominciato con l’esecuzione di tre ragazzi 17enni al momento del crimine e tuttora sono detenuti un’ottantina di minorenni al momento del reato in attesa di esecuzione.

L’affermazione esasperata della libertà individuale e la giustizia muscolare sono in America le due facce di una stessa medaglia. L’uomo che si costruisce e che si difende da sé è anche l’uomo che disprezza chi fallisce nel realizzare questo progetto di autoaffermazione. Quella americana non è una società solidale e in ciò non trova contraddizione con la sua professione di cristianesimo. Perché in fondo l’etica degli americani è quella calvinista del successo come segno esteriore della predestinazione alla salvezza. Perciò chi fallisce non merita aiuto portando egli il disprezzo di Dio ancor prima di quello degli uomini. Poi va da sé che l’individualismo esasperato porta all’egoismo più sfrenato che si realizza pienamente nella più bieca economia di mercato. Nel nostro immaginario collettivo del dopoguerra gli americani sono quelli che si contrapponevano ai tedeschi delle razzie, sono quelli che lanciavano cioccolata ai ragazzini, sono quelli del piano Marshall, quelli che distribuivano farina, margarina, latte in polvere e indumenti. Perciò si fa fatica a credere all’anima profondamente egoista di questo popolo, ma è così (o, almeno, è sempre più così). Gli americani quando t’invitano al ristorante non offrono ma ognuno paga per sé. Gli americani sono quelli che hanno osteggiato ferocemente la riforma sanitaria voluta da Obama, approvata con mille compromessi, e che ora sono determinati ad abrogare.

Con ciò non intendo dire che quello americano sia il popolo più egoista e spietato al mondo. Dappertutto troviamo esempi che fanno rabbrividire. Se il modo in cui si trattano i bambini è la cartina di tornasole del senso morale di una società (per rifarci ad una constatazione del Bonhoeffer), allora ne troviamo di esempi ben più raccapriccianti. In Africa i bambini vengono scacciati ed anche uccisi se si pensa che portino sfortuna, vengono rapiti per farne milizie di assassini. In Pakistan gli scolari delle madrasse poco diligenti vengono bastonati a morte, in Iran il bambino che ruba un dolcetto si vede amputare la manina o stritolarla sotto le ruote di un camioncino. Però gli Stati Uniti sono quelli che si ritengono la prima democrazia al mondo e che ne fanno un modello d’esportazione. Tuttavia ancora mantengono la pena di morte, anche per i minori. E mentre vedono il welfare state come fumo negli occhi non si fanno problema a salvare con i soldi dei contribuenti quelle stesse banche che sbattono in strada chi non può più pagare il mutuo della casa.

Ma se Atene piange Sparta non ride. Noi europei troviamo rozzo il modello americano anche perché veniamo da un’evoluzione storica diversa. Gli stati Uniti, in senso stretto, non sono neppure la patria del capitalismo che è nato in Inghilterra, cioè in Europa. Un capitalismo spietato, senza alcuna tutela per i lavoratori, così ben descritto nei romanzi sociali di Dickens. Però l’Europa ha dovuto fare i conti con l’idea marxista, prima, e poi con una rivoluzione comunista davanti alla porta di casa. Il timore di finire travolti dall’onda rivoluzionaria fece reagire le classi dominanti prima con l’introduzione di timide riforme previdenziali rivolte a specifiche categorie e, nelle situazioni più esasperate, aprendo alla repressione dei vari nazionalfascismi. Poi, con il fallimento di questi regimi, introducendo lo stato sociale che mitigava le distorsioni dell’economia di mercato con politiche redistributive nell’ambito della previdenza, della salute e dell’educazione in senso universalistico, cioè non più diretto a determinate categorie ma come diritto di cittadinanza. Questo passaggio, che ha garantito in Europa una maggiore giustizia sociale, è avvenuto negli Stati Uniti in modo molto più attenuato anche perché meno esposti alle sirene delle teorie marxiste abbastanza lontane sia geograficamente che culturalmente dalla realtà americana. Ma sono anni ormai che la situazione sta mutando pure in Europa. Il crollo dei regimi comunisti, ben rappresentato dalla caduta del muro di Berlino, e le distorsioni in termini di sostenibilità dei sistemi di protezione sociale stanno portando a un ripensamento delle politiche di welfare, che di fatto si sta concretizzando in un loro graduale smantellamento. La parola d’ordine è privatizzazione: dei servizi pubblici e persino dei beni indisponibili come l’acqua. Affidando all’economia di mercato i servizi pubblici, i governi di centrosinistra e ancor più di centrodestra stanno introducendo una distorsione in senso contrario e ancor più grave di quella provocata dalle politiche di welfare. Infatti il processo di privatizzazione dei servizi non si limita a sottrarre questi a un ripianamento dei costi mediante i fondi pubblici ma introduce l’elemento del profitto, peraltro massimizzato grazie alle connivenze con la sfera politico amministrativa. Gradualmente i paesi occidentali stanno precipitando in un’economia di mercato senza regole e senza tutele per il cittadino e per il consumatore, con un allontanamento tra loro delle classi sociali e con un accentramento delle ricchezze in mano a pochi come non si verificava dal XIX secolo. Mala tempora currunt!

La giustizia sociale è strettamente connessa alla giustizia dei tribunali. L’adeguamento dei codici e le sentenze dei giudici rispecchiano inevitabilmente il contesto sociale di riferimento. Il nostro sistema giudiziario ha già le sue contraddizioni storiche che lasciano convivere una scarsa repressione del crimine con un sistema carcerario medievale, per nulla volto al recupero del detenuto. Se a queste contraddizioni aggiungiamo quelle che si vanno affacciando nel corpo sociale in termini antisolidaristici e giustizialisti, dobbiamo aspettarci un incrudimento dei rapporti interpersonali e, a seguire, delle norme che li disciplinano. Forse da noi non vedremo mai un bambino incatenato mentre viene condotto davanti ai giudici, forse nemmeno un adulto, perché queste prassi sono troppo lontane dalla nostra sensibilità, dalla nostra “concezione della decenza”; anche se la sensibilità può cambiare quando cambiano le circostanze. Ma al di là delle forme è il mutamento dei contenuti che dobbiamo aspettarci e temere di vedere. Dopo due secoli di crescita, le società occidentali sono in evidente fase di declino rispetto alle economie emergenti dell’estremo oriente. Va anche male lo scontro di civiltà contro il mondo di cultura islamica. I popoli occidentali non accetteranno pacificamente questo inarrestabile declino e ognuno si difenderà a modo suo. Quella americana è una società violenta e lì una recrudescenza di violenza fisica dobbiamo attenderci ad ogni livello, anche istituzionale. Emblematico l’attentato di ieri contro la deputata democratica Gabrielle Giffords, gravemente ferita da un pistolero squilibrato e nella lista di proscrizione della leader dei Tea Party, Sarah Palin, distintasi per la violenza verbale con cui il suo gruppo ha condotto la recente campagna elettorale. Qui troviamo insieme i due elementi delle armi facili e dell’intolleranza esasperata che trasforma gli avversari in nemici. Odio e bigottismo spingono verso le leggi speciali e le rendono plausibili. Il maccartismo insegna. Quella europea è una civiltà più vincolata sotto questo aspetto. Alcuni fanno notare l’analogia che c’è tra il nostro tempo e quello che precedette l’avvento del fascismo: l’ingiustizia sociale, l’irrequietezza della classi impoverite, il desiderio di difendere a tutti i costi i privilegi acquisiti, l’inettitudine e la corruzione della classe politica, la voglia di mettere il bavaglio alla libera informazione. Questo non si può negare. Però è anche vero che allora si dava credito alle dottrine sulla razza, si vedeva nella guerra uno strumento legittimo per dirimere le controversie, per accrescere lo “spazio vitale”, per estendere la propria civiltà. Allora non c’era l’Unione Europea. Tutto questo comporta dei vincoli maggiori, sia culturali che giuridici. Pertanto ciò che io m’attendo è sì uno sviluppo della violenza, soprattutto in ambito interpersonale, che è inevitabile con l’aumento delle ingiustizie e con l’impoverimento del contesto sociale; ma in ambito istituzionale tale violenza, che pur produrrà i suoi effetti, si tradurrà in un imbarbarimento dei contenuti ancor più che delle forme, da noi più vincolate ai codici e ai trattati internazionali. Di recente è stato chiesto a Lucio Caracciolo, direttore di Limes, se ritenesse che la Russia di Putin, formalmente una democrazia, possa avvicinarsi col tempo, in tema di libertà e di diritti umani, agli standard delle democrazie occidentali. La sua risposta è stata: “Dato il vento che tira, temo purtroppo che saremo noi ad avvicinarci agli standard della Russia”.


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