venerdì 29 febbraio 2008

Schegge di tempo e sete d’infinito

Soprattutto da giovani tendiamo a considerare la vita come un evento tanto lungo da confondersi con l’infinito. A quest’errore percettivo sicuramente contribuiscono dei fattori biologici. Leggiamo in Ecclesiaste 3,11 che Dio “ha messo la nozione dell’eternità nel cuore” degli uomini. Di tutti gli uomini. Se consideriamo questa tensione bio-mentale verso l’eternità, non è il pensiero d’un futuro senza fine che ci fa difetto. Tant’è vero che siamo disposti a faticare pesantemente con gli studi, con il lavoro, con la costruzione di relazioni per assicurarci un domani decisamente migliore del presente, più ricco, più gioioso, più appagante. Un domani realizzato che ci prefiguriamo come stabile e definitivo, che pervada tutti gli aspetti della vita, affetti compresi. Non a caso ci promettiamo “eterno amore”, e usiamo espressioni come “per sempre”. Usiamo cioè le parole delle favole, ossia di storie a lieto fine che “finiscono” bene ma non terminano. Biancaneve e il Principe Azzurro, dopo essersi liberati della strega cattiva, vivono felici e contenti “per sempre”. Poi però aggirandoci tra le lapidi dei nostri cimiteri leggiamo troppi epitaffi di questo tenore: “… fu sposo devoto, padre affettuoso, lavoratore instancabile, (…) e non ebbe ricompense terrene. Lasciò questa vita prematuramente. Inconsolata la famiglia pose”. Evidentemente, sotto ognuna di queste iscrizioni giace un sogno incompiuto. Sotto una selva sterminata di lapidi altrettanti sogni incompiuti. E man mano che gli anni passano e “si fugge” la giovinezza si accentua pure il contrasto tra la mia storia e il mio sogno. Il nostro corpo si disfa e perde vigore, i nostri cari uno alla volta ci lasciano, e le frustrazioni si accumulano. Anche quando riusciamo ad ammucchiare beni e benemerenze sentiamo il senso della loro precarietà, della loro inadeguatezza, della loro incompleta fruibilità. Comunque non possiamo condividerli con le persone che non ci sono più. Così, pian piano, il nostro sguardo si distoglie dal domani ed anche dal presente, in cui ormai non ci riconosciamo, e si volge indietro dove abbiamo lasciato i nostri affetti e i nostri ricordi. Continuiamo a serbare il senso dell’eternità ma non lo associamo più alla fugace e deludente esperienza di questa vita. Che i nostri giorni non sono eterni, che esiste la morte, è una nozione che apprendiamo molto malvolentieri. Lo dimostrano tutte le tecniche di neutralizzazione che mettiamo in atto per vivere ignorando il fatto che moriamo. Parlare della morte è sconveniente, è argomento tabù, ne abbiamo paura: perché ci colpisce pesantemente, ferisce i nostri affetti e i nostri sogni e ci costringe ad affrontare il problema del senso della vita. Infatti, che senso ha concentrare tutte le nostre energie e tutte le nostre risorse, anche a costo di giocare sporco e di disseminare di cadaveri il nostro percorso di guerra, solo per costruirci un futuro comunque effimero, limitato ai pochi giorni di questa vita? Non è un correre dietro al vento? Eppure in quest’impresa sembra impegnata la maggior parte degli uomini… nonostante avvertiamo istintivamente che un futuro limitato a pochi lustri, cioè un futuro senza avvenire, è un nonsenso, una sorta di condanna a morte. Ed è proprio su questa incoerenza tra il fine e gli strumenti che preferiamo sorvolare: cioè tra la speranza in una vita piena e infinita e l’impegno a conseguire traguardi effimeri e sopravvalutati. Forse quel che ci manca è l’audacia di sganciare da subito tale sete d’infinito dalla scheggia di tempo in cui si consumano i nostri brevi giorni. Non per negare i bisogni contingenti, in una sorta di macerazione e di contemplazione passiva ed estatica delle cose ultime, o per far vita da cicala, senza alcuna pianificazione. Ma per dare il giusto posto e il ponderato valore alle cose. Dalla catechesi di Giovanni Paolo II leggiamo: «Sappiamo che in questa fase terrena tutto è sotto il segno del limite, tuttavia il pensiero delle realtà “ultime” ci aiuta a vivere bene le realtà “penultime”». Certo dobbiamo mettere in conto che questa vita è troppo breve e accidentata per poterla affastellare di traguardi sia pure legittimi ma non ugualmente prioritari. Essa non è che la mesta ma fondamentale overture di una sinfonia eterna che avremo tempo e occasione di riempire di contenuti. Di coloro che camminano in questa prospettiva è detto: “Nella fede morirono tutti questi uomini, senza ricevere i beni che Dio aveva promesso: li avevano visti e salutati solo da lontano. Essi hanno dichiarato di essere su questa terra come stranieri, in esilio. Chi parla così dimostra di essere alla ricerca di una patria: se avessero pensato a quel paese dal quale erano venuti, avrebbero avuto la possibilità di tornarvi; essi invece desideravano una patria migliore, quella del cielo. È per questo che Dio non si vergogna di essere chiamato il loro Dio” (Eb 11,13-16).

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 6 gennaio 2007)

giovedì 28 febbraio 2008

Un silenzio imbarazzato

Capodanno è tempo di consuntivi e di previsioni. Esperti in molti campi, ospitati sui giornali e nelle televisioni, si cimentano in pronostici su ciò che ci porterà il nuovo anno e commentano gli eventi dell’anno appena trascorso. Non solo politologi, diplomatici, strateghi, vaticanisti, sinologi, americanisti, islamisti, ecc., alimentano il dibattito, ma grande ascolto è prestato a maghi e astrologi. Anzi, atteso con trepidazione è il primo oroscopo dell’anno: sicuramente la pagina più letta in assoluto. Quanto poi si realizzi di ciò che è stato previsto è tutt’altro discorso. Ormai sappiamo per esperienza che gli avvenimenti futuri si prestano molto male non solo ad essere previsti ma persino ad essere immaginati. Certo l’uomo è inquieto, è insoddisfatto della propria condizione, soffre. I botti di Capodanno sono pistolettate simboliche indirizzate alla sorte per quel che gli ha riservato nell’anno appena trascorso, ed una specie di messa in guardia, una dichiarazione d’indisponibilità ad accettare passivamente quel che l’aspetta nel nuovo anno. Per questo stato d’ansia e di malessere egli non può evitare d’interrogarsi sul proprio futuro. Il cardinale Godfried Danneels rileva che l’uomo contemporaneo vive il paradosso di percepire con difficoltà l’invisibile e, al contempo, di nutrire “interesse per tutto ciò che si trova al di là dell’orizzonte, al di là del sensibile, del razionale… l’escatologia cristiana sembra dimenticata e persino ingannevole, ma non vi è mai stata una simile sete di un mondo migliore e un così grande bisogno di speranza”. Quello appena trascorso è stato il secolo delle utopie più promettenti. Gli uomini hanno creduto d’essere sul punto di darsi un governo giusto e, grazie alla rivoluzione scientifica e tecnologica, di risolvere tutti i loro problemi. In altri termini hanno pensato di costruirsi un paradiso senza Dio. Grazie alle conquiste della medicina, allungandosi l’aspettativa di vita, si è persino pensato di dare risposta al problema della morte. Alla prova dei fatti tutte queste aspettative sono andate deluse o, comunque, si sono molto ridimensionate. È come se, entrati nel nuovo millennio, ci si sia risvegliati da un sogno. D’improvviso la prospettiva atea, che riteneva l’attuale realtà sufficiente a dare gioia e senso alla vita, ha perso consistenza. La nostra società nel complesso continua ad essere scettica ed edonista, ma procede come per inerzia; ha perso ideali e prospettive. E questa indifendibilità delle cose “penultime” comincia a restituire interesse per le cose ultime. Così l’uomo del nostro tempo si ritrova stranamente religioso. Dico stranamente, perché soprattutto si rivolge a forme primitive di fede quali possono essere l’astrologia, la magia, l’esoterismo, i culti orientali o l’onnicomprensiva New Age. Per questo trend anche la Cristianità ha le sue responsabilità. Essa infatti, in un contesto materialista, ha rarefatto quasi con senso d’imbarazzo la predicazione delle realtà ultime. Eppure l’escatologia, cioè il tema sulla destinazione finale dell’uomo e della storia umana, è un aspetto insopprimibile del messaggio cristiano e biblico in generale. Ricordate il sogno della statua, di re Nabucodonosor? L’orgoglioso sovrano aveva fatto un sogno impressionante che aveva subito dimenticato. Diede allora ordine agli esperti di corte di rammentarglielo e di rivelargliene il significato, altrimenti sarebbero stati tutti giustiziati. Gli esperti furono costernati alla notizia ma la pretesa del re, a ben pensarci, non era poi così irragionevole. Questi presunti esperti erano onorati e lautamente mantenuti dal tesoro reale perché affermavano di poter far luce sulle cose occulte e predire l’avvenire: che pertanto facessero il loro dovere! Ci pensò allora il profeta Daniele a fare chiarezza; l’unico saggio di corte in grado di soddisfare la richiesta del re. E gliene premise pure il motivo: “Maestà, nessun saggio, nessun mago, nessun indovino, nessun incantatore potrà svelarti il mistero del sogno. Ma c'è in cielo un Dio che svela i misteri. Ed è lui che fa conoscere a te, re Nabucodonosor, il futuro” (Dn 2,27-28). Quindi Daniele rammentò al monarca babilonese il sogno della statua e ne spiegò il significato attinente alla storia del governo umano sino alla fine dei tempi. Solo Dio può sollevare il velo che cela gli eventi futuri, e lo fa nella misura in cui sia utile a rafforzare la fede e la speranza dei suoi figli. Tali rivelazioni sono definite dall’apostolo Pietro opportune “come una lampada che brilla in un luogo oscuro”, cioè, come una luce sufficiente a illuminare il sentiero notturno percorso dalla Chiesa, fino al giorno vero, illuminato dal ritorno in gloria di Gesù. Per cui tali pillole di futuro non possono essere considerate un optional, “e voi farete bene a considerarle con attenzione” (2 Pt 1,19). Se lo studio e la predicazione delle realtà ultime vengono trascurati, poi non dobbiamo stupirci quando altri parlano, spesso a sproposito, approfittando del vuoto da noi lasciato. Mi riferisco ai ciarlatani dell’esoterismo che illudono la gente con pronostici suggestivi ma inconsistenti. Ci sono poi gli esperti veri in varie discipline serie che, interrogati sui problemi che affliggono l’umanità, dipingono un futuro a tinte fosche. I demografi ci ricordano che la popolazione mondiale ha raggiunto quota 6,6 miliardi. Eravamo 250 milioni quando fu scritta l’Apocalisse e ancora 625 milioni nel 1700. Saremo 8 miliardi nel 2025. Di contro le risorse della terra diminuiscono e, in certi casi, si avviano ad esaurirsi. I climatologi sono preoccupati per il riscaldamento dell’atmosfera dovuto all’effetto serra. Già adesso sono in atto eventi meteorologici e climatici estremi: maxicicloni, inondazioni, ondate di calore, desertificazione dei territori, e l’umanità è già oggi a rischio di malattie infettive, fame, colpi di calore. Gli stessi esperti affermano che un ulteriore aumento della temperatura di soli due gradi innescherebbe lo scioglimento generalizzato dei ghiacci, ciò farebbe da moltiplicatore al caldo e potrebbe causare il collasso di interi ecosistemi. I geopolitologi ci ricordano che quando l’uomo costruisce un’arma prima o poi la usa. La scoperta dell’arma nucleare rende solo più attenti ma non cambia la natura umana. E la preoccupazione corre soprattutto a quei regimi totalitari, instabili e fortemente ideologizzati, disposti a sfidare il mondo pur di dotarsi dell’arma. I suddetti esperti basano le loro previsioni su relazioni di causa-effetto, le loro sono stime e non vaticini. Le stime sono soggette ad errori ma indicano tendenze e scenari possibili. Se questi scenari non sono incoraggianti rischiano solo di spaventare la gente. È indispensabile perciò che il teologo biblista intervenga e dica quel che gli compete. E cioè che, pur prospettandosi tempi difficili per l’umanità, Dio guida gli eventi perché la fine della storia coincida con una grande e definitiva liberazione. In occasione del Sinodo sull’Eucaristia, tenutosi nell’ottobre dello scorso anno, il tema delle realtà ultime è emerso più volte. Nel corso del dibattito, con forza si è levata la voce: “La Chiesa torni a parlare dell’escatologia”.
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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 31 dicembre 2006)

mercoledì 27 febbraio 2008

Soli a Natale

Avvicinandosi le festività di fine d’anno, il mio pensiero va a coloro che si apprestano a trascorrerle in solitudine. Le solite statistiche danno un picco di suicidi in questo periodo tra le persone sole perché, ovviamente, questa condizione è particolarmente avvertita in un contesto dove si esalta il momento di aggregazione delle famiglie. Lo dice anche il proverbio: “Natale con i tuoi…”. Mi è capitato in passato, trovandomi per lavoro lontano dalla famiglia, di dover trascorrere il Natale da solo. Posso testimoniare che non è un’esperienza gradevole sapere che nelle case attorno la gente trascorre quelle ore insieme, mentre io non ho nessuno con cui comunicare e con cui scambiare attenzioni. Ricordo quando il figlio di certi conoscenti mi sporse un fragrante calzone farcito di broccoletti… una vera delizia. Apprezzai il gesto che, tuttavia, attenuò solo in parte quella sgradevole sensazione di solitudine. Certo non è tutt’oro quel che luccica. La gioia dello stare insieme dipende soprattutto dalla qualità delle relazioni o, se vogliamo, dalla qualità delle persone che intessono le relazioni. Mi diceva Francesco, un conoscente che passa spesso a salutarmi, che per lui il Natale è un giorno di tensione. “I miei fratelli ci tengono a riunire le famiglie per rispetto della tradizione e delle apparenze. Ma per me è una sofferenza. Con le loro battute al vetriolo mi rinfacciano l’incapacità di cercarmi un lavoro o di formarmi una famiglia, la figlia che ho avuto fuori dal matrimonio. A quel punto il mangiare mi va di traverso e non vedo l’ora di scappare via. Però, poi, chi va a trovare tutti i giorni nostra madre in casa di riposo: io, la pecora nera della famiglia. Mentre loro non vanno mai, con la scusa dei troppi impegni familiari”. La solitudine non obbliga ad estraniarsi dal mondo, può anche essere il male minore, una condizione che stimola la crescita interiore. Pure nostro Signore è stato una persona sola. Crebbe in famiglia, era circondato di discepoli, ma è stato poco compreso e i più, quando non gli erano ostili, l’avvicinavano per mero opportunismo. Nei primi anni della sua vita corse meno rischi in terra straniera che tra la propria gente. La sua famiglia lo comprese pienamente solo dopo la sua ascensione. Ai genitori dovette ricordare la sua missione e, quindi, implicitamente, la sua natura: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). Sia i discepoli che i familiari cercavano di convincerlo d’ingraziarsi il favore delle autorità e trovavano insensate le sue strategie. In Giovanni 7,5 leggiamo: “Neppure i suoi fratelli, evidentemente, credevano in lui”. Qualche commentatore suggerisce l’ipotesi che quella volta in cui la Madre e i fratelli andarono a trovarlo, lo scopo della visita era quello di riportarlo a casa, così come si fa con una persona cara che ha perduto il senno e che si vuol proteggere. Di conseguenza si spiegherebbe la ferma reazione di Gesù, che era anche un invito ad ascoltare con più attenzione il suo messaggio: “Mia madre e i miei fratelli sono quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica!” (Lc 8,21). Egli tentò più volte di preparare i discepoli agli eventi drammatici che si profilavano all’orizzonte, ma essi erano troppo condizionati dalle loro ben diverse aspettative e non riuscivano a capirlo. Una volta che fraintesero con superficialità le sue parole, Egli troncò sconsolato il discorso con un: “Basta!” (Lc 22,38). Come a dire: “Lasciamo perdere!”. Li considerava amici, e desiderava aprirsi con loro così come si fa con chi può capirci e raccogliere le nostre confidenze. Tuttavia poté quasi sempre essere solo Maestro che impartisce insegnamenti per gradi. “Ho ancora molte cose da dirvi, ma ora sarebbe troppo per voi” (Gv 16,12). Nel momento in cui tutti l’abbandonavano, giunse a dir loro: “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,68). Quando, nel Getsemani, confessò ai discepoli la terribile angoscia che l’opprimeva, chiese loro di fermarsi a pregare con lui sia perché fossero pronti a reggere la prova incombente, sia perché sentiva il bisogno della loro vicinanza affettiva, altrimenti perché avrebbe dovuto svelare il suo stato d’animo? Ma anche stavolta essi non furono in grado d’incontrare le sue aspettative. E stiamo parlando delle persone care, non dei nemici. Sì, Gesù fu una persona sostanzialmente sola. Sentì la solitudine sino alla fine, quando, sulla croce, ebbe la sensazione che persino il Padre l’avesse abbandonato. Ma era solo una sensazione, ovviamente. Questo vale per tutti: Dio può vegliare con discrezione sulle sue creature ma mai distrattamente. È raro che una madre, andando contro uno degli istinti più radicati, si disinteressi dei suoi figli. Ma “anche se ci fosse una tale donna, io non ti dimenticherò mai” (Is 49,15), rassicura il Signore. La nostra esperienza terrena può prevedere dei momenti più o meno lunghi di solitudine, persino lunghi quanto tutta una vita. Ma anche la vita è un momento. Sebbene anche gli uomini apparentemente più soli in realtà, come dicevamo, soli non siano, comunque il destino dei redenti nei giorni dell’eternità è quello d’intrecciare relazioni intense e appaganti. Nel paradiso di Dio non c’è posto per la solitudine. Isaia, riferendosi a quella realtà, afferma che “la famiglia più piccola sarà di mille persone” (60,22 Tilc). Il Natale, pertanto, ci ricorda che Gesù – il quale ha sperimentato personalmente la solitudine e l’incomprensione – è venuto per provvedere agli uomini “la vita, una vita vera e completa” (Gv 10,10).

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 22 dicembre 2006)

martedì 26 febbraio 2008

Voi chi dite che io sia?

Alcuni giorni fa ho atteso fino a notte tarda per rivedere un vecchio film di Pasquale Festa Campanile: “Il Ladrone”. È la storia di Caleb, un furfantello galileo contemporaneo di Gesù che ammirava il Maestro non come Messia bensì per la sua capacità di compiere prodigi che egli considerava capolavori d’illusionismo. Finché… non assistette alla risurrezione di Lazzaro. Rispetto al romanzo dello stesso Festa Campanile, il film è stato accusato di perdere in sottigliezza per mirare al successo di cassetta. Condivido. Però bisogna ammettere che Enrico Montesano ce la mette tutta per rendere simpatico e familiare il personaggio di Caleb. Ma soprattutto mi affascina la figura di Cristo interpretato con grande misura dall’attore Claudio Cassinelli, scomparso purtroppo qualche anno più tardi. È solo un romanzo, Gesù non sprizza espressività, rimane sempre sullo sfondo. Eppure mi ha toccato ben più che in altri lavori volutamente più ambiziosi. Non so darmene piena ragione. Certo le musiche di Morricone aiutano, ma non bastano a spiegare. Forse nei film dove il Nazareno è stato personaggio principale, i realizzatori lo avrebbero regolarmente caricato di significati soggettivi, soffocando così l’immediatezza e la freschezza del racconto evangelico. È come se tali film fossero stati anzitutto concepiti per comporre in chiave “laica” le inquietudini di chi vi ha messo mano. Un dato di fatto è che la competenza da sola non basta. Si legge in 1 Corinzi 2,14: “Ma l'uomo che non ha ricevuto lo Spirito di Dio non è in grado di accogliere le verità che lo Spirito di Dio fa conoscere. Gli sembrano assurdità e non le può comprendere perché devono essere capite in modo spirituale”. Cosa c’è di più spirituale del mistero dell’incarnazione? Chi non può intenderlo sul piano spirituale può solo considerarlo una follia o un fraintendimento. “Ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia” (1, 23). Queste almeno sono le considerazioni che mi son salite alla mente alla fine di ogni proiezione. Ogni versione, a modo suo, avrebbe cercato di rispondere alla domanda posta da Gesù ai suoi discepoli: “Voi chi dite che io sia?”. E ognuno ha detto la sua: “Tu eri un giovane in lotta con la società e con te stesso. Non tanto Figlio di Dio quanto piuttosto un Messia essenzialmente umano, un possibile liberatore d’Israele dalla schiavitù di Roma” (“Il Re dei Re” di Nicholas Ray). “Eri una presenza grave e solenne, a tratti funerea, ma soprattutto un’ottima occasione per metter sù uno spettacolo suggestivo in cinemascope” (“La più grande storia mai raccontata” di George Stevens). “Sei stato un grande uomo che ha cominciato a fare la “superstar” definendosi Dio, che ha compiuto un grande sacrificio tuttavia inutile e incomprensibile dal momento che eri soltanto un uomo” (“Jesus Christ Superstar” di Norman Jewison). “Eri un uomo, convinto d’essere Dio, ma profondamente onesto. Il primo vero rivoluzionario, che voleva portare il bene ed è stato ucciso da quelli che vincono sempre” (“Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini). “Eri uno che scherza poco, perfetto, vero Dio, ma sostanzialmente astratto” (“Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli). “Ti ho raccontato da una prospettiva minimalista e laica. Un falegname, un uomo mite, praticamente un santone indiano” (“Il Messia” di Roberto Rossellini). “Nulla da ridire sulla tua natura divina, ma soprattutto ho voluto concentrarmi sul tuo essere uomo in carne e ossa. Ti ho raccontato da una prospettiva più che ecumenica; pur di non disturbare l’identità di altri come ebrei e musulmani ho preferito mettere in discussione la mia di cristiano e ho cercato un compromesso che vada bene per tutti” (“Jesus” di Roger Young). “Altri hanno parlato dell’amore. Io mi soffermo sulla giustizia. Ho visto in te l’agnello sacrificale che, prima d’impugnare la spada dell’Apocalisse, accetta la violenza inaudita che gli riserva questo mondo popolato da nemici e diviso nettamente tra fedeli e infedeli” (“La Passione di Cristo” di Mel Gibson). E così di seguito. Non voglio dire che in ognuno di questi film non vi abbia trovato scene suggestive o spunti di riflessione. No. Prendiamone uno per tutti: “Jesus” di Roger Young. La critica è stata poco tenera con questo prodotto d’alto budget, coprodotto dalla Rai. È stato definito, oltre che timoroso e autolesionista, didascalico, superficiale, noioso e persino senz’anima. Eppure quanta suggestione in quelle attualizzazioni che ricordano il Figlio come persona eterna e viva, oggi come ieri. La guerra moderna, Satana in doppiopetto (interpretato da un impagabile Jeroen Krabbé), il Risorto in jeans che gioca, ride e danza con i ragazzi d’oggi. Trovo infatti positiva anche la rappresentazione di un Gesù che sa ridere e scherzare. Che ama la vita e la convivialità. Forse qui si è calcata troppo la mano, probabilmente però per compensare il cliché ingiustificato di un Cristo “santino” oleografico, sempre austero o addolorato, “staccato dalla realtà, – come osservò quel giovane – uno che mette una certa soggezione, uno sempre molto serio, che scherza poco. Gesù lo immagino molto più umano, molto più umile, molto più simpatico ed accessibile, più spettinato anche…”. Non pochi spunti di riflessione per un film così criticato, vero? Eppure, tornando a Pasquale Festa Campanile, quanto maggiore fascino in quel Cristo di Cassinelli! In effetti poco espressivo, tutt’altro che invadente, ma vero uomo e vero Dio, che opera con discrezione e al contempo con autorevolezza. In un mondo secolarizzato e “distratto”, forse è proprio questa combinazione di potenza e di discrezione che lo rende così sobriamente ineluttabile. Presi dagli ozi e dai negozi che scandiscono la nostra giornata, Gesù sembra passarci a fianco di tanto in tanto, e abbiamo difficoltà a riconoscere per tali i suoi prodigi mai gridati, e come Caleb siamo pronti a interpretarli con le nostre categorie inadeguate e fuorvianti. Finché, ad un comando perentorio, Lazzaro non viene fuori…

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 16 dicembre 2006)

lunedì 25 febbraio 2008

Predatori benemeriti

Non so se ci avete fatto caso, quasi sempre Piero Angela dai suoi programmi non perde occasione per rifilarci un documentario sulla predazione. In genere sono leoni che si fanno il loro bravo inseguimento, graffiano e azzannano la zebra o l’antilope di turno, la sventrano e banchettano voracemente. Poi, mentre sfumano le ultime scene del filmato, segue la chiacchierata in studio dove il nostro, in compagnia dell’etologo Danilo Mainardi, tesse le lodi del processo evolutivo, nel cui ambito la predazione avrebbe una funzione determinante e del tutto benemerita. Senza predazione non si sarebbero sviluppate le facoltà che hanno portato a quel capolavoro di complessità che è l’uomo. Per adoperare il binomio introdotto da Monod, la predazione sarebbe necessaria nella casualità dell’evoluzione. Nel febbraio del 2002 Alberto Angela (figlio di Piero) fu vittima d’una disavventura mentre, insieme alla troupe di “Ulisse”, girava materiale documentario sul Sahara. Appena passato il confine con il Niger, il gruppo fu raggiunto e bloccato da una camionetta di predoni. Dopo due ore di percosse e di finte fucilazioni venne derubato di tutto e abbandonato in pieno deserto. Ricordo allora un’intervista in cui il noto conduttore esprimeva tutta la propria irritazione per la disavventura occorsagli. Eppure, in fondo, in cos’era stato coinvolto se non in una magnifica vicenda di predazione? Proprio in quella terra d’Africa ove i documentaristi traggono infiniti spunti d’ispirazione sull’argomento! La variante sul tema è che stavolta il predatore è il sapiens sapiens. Ma la storia e la cronaca non ci suggeriscono forse che l’uomo sia il più terrificante dei predatori? Altro che leoni e tirannosauri. I predoni del deserto andrebbero ospitati a “Superquark”. Questi capolavori della selezione naturale sarebbero la prova lampante che in un determinato ambiente – nella fattispecie il Ténéré – sopravvive il più adatto. Per questo vorremmo fargliene una colpa? I leoni hanno colpa quando fanno fuori i cuccioli del branco appena sottomesso? Che c’entra la morale con la selezione naturale? Quella almeno regolata solo dal caso e dalla necessità. Perché, sia pure in un processo evolutivo, se invece vi scorgiamo un disegno intelligente allora il discorso può cambiare. Se infatti crediamo in un Dio creatore ispirato da principi morali, in tal caso ha senso ritenere che pure il creato si riferisca ai medesimi principi. A questo punto, però, può venirci il dubbio che la predazione non sia così necessaria alla causa dato che ne intuiamo, al di là delle rassicurazioni di Piero Angela, una scarsa compatibilità con l’idea di moralità. E mi riferisco alla predazione non solo degli umani ma pure a quella degli animali. Se il Creatore è infatti quello della Bibbia, allora vi troveremmo subito riferimenti inconciliabili. Qui si dice che Dio protegge e si prende cura degli animali (v. Salmo 84, 4). Tra l’altro la predazione non è neppure strumento inevitabile per il controllo della popolazione: sono già presenti in natura opzioni non violente. Pensiamo alla regolazione della fecondazione tra i rettili, o al prolungamento della gravidanza tra certi mammiferi, come risposta a condizioni ambientali meno favorevoli. Certo, sono solo vestigi di qualcosa che fu o che sarebbe potuto essere, ma ci ricordano che a Dio non manca certo l’ingegno per trovare soluzioni in armonia con i suoi principi. Ma allora, se la predazione non fa parte del progetto originale e ne è una distorsione, come spiegare questa ed altre distonie presenti in una creazione che si vuole ispirata a regole morali? Il Figlio in persona, l’Autore della creazione, ce lo ha spiegato nella parabola delle zizzanie. Alla domanda: “Da dove viene l’erba cattiva?”, Egli risponde: “È stato un nemico a far questo”, un nemico che “venne a seminare erba cattiva in mezzo al grano”. Poi precisa: “Il nemico… è il diavolo” (Mt 13, 24-39). Anche Paolo riflette su questa apparente incoerenza. Tutto il creato, che ora soffre e geme, “è stato condannato a non aver senso, non perché l'abbia voluto, ma a causa di chi ve lo ha trascinato” (Rm 8, 20-22). Cioè un altro disegno (disegnatore) intelligente ma antagonista ha perturbato il progetto originale. “Vi è però una speranza: anch'esso [il creato] sarà liberato dal potere della corruzione per partecipare alla libertà e alla gloria dei figli di Dio.” (v. 21). È questa la differenza tra la speranza cristiana e le dottrine umane. Generalmente in queste ciò che conta sono nella sostanza i privilegi di chi detiene il potere e nella forma il vantaggio della collettività, anche quando tale vantaggio va a discapito del benessere e della sopravvivenza del singolo. Ricordate la considerazione involontariamente profetica di Caiafa sull’utilità di eliminare Gesù: “È meglio che un solo uomo muoia invece di tutto il popolo”? (Gv 18, 14). Ecco perché il concetto di predazione è così caro al cuore naturale dell’uomo. Al contrario Gesù si spogliò dei suoi privilegi e venne volentieri a morire per tutta l’umanità. Lo avrebbe fatto per salvare anche un solo uomo, anche il meno adatto darwinianamente parlando. Ad Alberto Angela, ovviamente, anche se non condividiamo la visione del mondo sua e del papà, vada tutta la nostra solidarietà.

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 9 dicembre 2006)

domenica 24 febbraio 2008

Le lacrime di Serena

Nel suo libro “Io, vescovo esorcista” mons. Andrea Gemma narra un episodio singolare capitatogli mentre esorcizzava Serena, una bambina minuta e dolcissima che si sospettava essere posseduta. Nel corso del rito finalmente il demone si manifestò con un pianto irrefrenabile e convulso. Era la prima volta, confessò mons. Gemma, che vedeva piangere il demonio: egli che ama fare lo spavaldo, atteggiarsi a vittorioso. Sì, stavolta piangeva a dirotto, “servendosi degli occhi bellissimi di Serena e irrorando le sue gote smunte di lacrime cocenti”.
– Perché piangi? – chiese stupito il prelato.
– Perché a voi sì e a noi no? – rispose il demone con voce rotta dai singhiozzi.
– Cosa vuoi dire? – lo rincalzò il presule esorcista.
– Perché a voi uomini è stato concesso di poter pentirvi e salvarvi e a noi no…! – chiarì, alla fine, l’ospite di Serena.
Sempre nel medesimo libro si riporta un altro dialogo tra l’esorcista e un demone:
– È vero che eravate angeli bellissimi?.
– Certo!.
– E perché vi siete ridotti così male?.
– Perché siamo stati stupidi ad andare dietro al capo…
E già, il capo. Cioè Lucifero. La stella del mattino. Il cherubino più potente, molto amato dalle creature del cielo, che esercitava un influsso trascinante. Ma tanto omaggio lo rese orgoglioso e superbo. Così entrò in competizione con il Figlio di Dio e trovò umiliante sentirsi escluso dal supremo consiglio riservato alle tre Persone divine. Da qui la sua ribellione. Ritenendo insufficiente la dignità di primo tra gli esseri creati, e non riuscendo a farsi cooptare nel consiglio divino, egli scelse l’assoluta autonomia e divenne Satana. Da qui inizia il suo percorso di peccato, suggerisce S. Anselmo d’Aosta. Irretire gli angeli non fu difficile per questa creatura estremamente intelligente e seduttiva. D’altra parte la ribellione era un fatto nuovo e non v’era esperienza delle sue conseguenze. Per amore della libertà delle sue creature Dio non avrebbe mai imposto le sue ragioni, poteva solo raccomandarle: altro vantaggio iniziale di Satana, oltre a quello di poter mentire e irretire con l’inganno. Il danno apparve incalcolabile. Quando il ribelle fu allontanato dal cielo, “anche i suoi angeli furono gettati giù” (Ap 12, 9). In numero smisurato: la terza parte (vers. 4) di miriadi di miriadi (5, 11), cioè a miliardi. Ed ora che il piano di Dio ha svelato l’inganno di Satana, gli angeli ribelli hanno ben chiaro quanto hanno perso. Le lacrime di “Serena” non dovrebbero stupirci. Certo, non sono lacrime di ravvedimento. Anzi, la visione comune presumerebbe che mai abbiano avuto la possibilità di pentirsi della loro scelta sciagurata, per via della lucida intelligenza che renderebbe irreversibili le loro scelte. Ma queste sono speculazioni. È più logico pensare che, all’inizio della ribellione, fosse loro stata data la possibilità di tornare sui propri passi. Per cui immagino la sollecitudine degli angeli rimasti fedeli che fanno opera di convincimento tra i dubbiosi, ma anche tra chi sul momento s’è lasciato irretire. E grazie a questo lavoro, molti dei dissidenti, pentiti, cercano la riconciliazione con Dio e con suo Figlio. Chissà, magari il mio o il tuo angelo custode è uno di questi pentiti che ringraziano Dio per la sua misericordia e si trovano a contrastare l’azione malvagia dei colleghi rimasti ostinati sull’adesione alle lusinghe del “capo”. Così ostinati che dal giorno della “battaglia in cielo” non c’è davvero più speranza per un loro ravvedimento. Le rivelazioni dei demoni, per definizione bugiardi, sono sempre da prendersi con le pinze; però le lacrime di “Serena” sono credibili o, quanto meno, offrono spunto alla riflessione. Pensiamo a questa falange irreggimentata di cattivi, fortemente gerarchizzata, ove anziché l’amore domina la paura. Pensiamo ai ricatti e all’oppressione che subisce la truppa di quest’esercito di esseri solo malvagi, pur coesa in una sciagurata impresa comune. Mons. Gemma riferisce che spesso, durante gli esorcismi, quando ordinava nel nome di Cristo allo spirito possessore di allontanarsi, esso veniva a trovarsi letteralmente tra due fuochi e gridava terrorizzato: “Mandatemi via, mandatemi via!”. E ad un nuovo comando, affermava di non potersi allontanare per un ordine ricevuto dai capi della gerarchia satanica. Sì, quanto stupidi sono stati ad andare dietro al capo! Quanto diverso sarebbe stato il loro destino se si fossero fidati del loro Creatore! In fondo avverto un moto di pietà per questi poveri esseri malvagi. Dio li ama ancora, nonostante il loro odio per lui e per l’umanità. Perché, non dimentichiamolo, Egli disprezza il peccato mai il peccatore.

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 2 dicembre 2006)

Né creduloni né scettici

Nel 1989, per iniziativa del noto giornalista televisivo Piero Angela, veniva fondato il CICAP, un comitato che si proponeva di verificare le affermazioni sul paranormale. Ne facevano parte nomi illustri del mondo scientifico, perlopiù dichiaratamente atei, quali Rita Levi Montalcini, Margherita Hack, Tullio Regge. La cosa nasceva sull’onda lunga della fortunata trasmissione “Indagine sulla Parapsicologia” diffusa nel 1978 e del libro che ne seguì “Viaggio nel mondo del Paranormale”. Lo scopo dichiarato e meritorio di tutte queste iniziative era quello di promuovere l’educazione alla razionalità, con la diffusione del metodo scientifico e dello spirito critico. Dato che il mondo del paranormale e dell’occultismo è in gran parte costituito da truffatori e ciarlatani, fu facile svelare molti “trucchi del mestiere”, grazie anche alla consulenza di prestigiatori e illusionisti. Tuttavia, soprattutto a chi ha visto le puntate della trasmissione, non sarà sfuggita la sensazione di essere condotti verso una conclusione preconfezionata, quella che nega per partito preso che possano esistere fenomeni incompatibili con le leggi ordinarie della scienza. Di fatto il CICAP spiega ogni fenomeno che non rientra nelle suddette leggi come frutto dell’inganno o, al massimo, con la suggestione o l’illusione dei sensi. Piero Angela si è anche occupato del cosiddetto paranormale religioso (lacrimazioni, sanguinamenti, guarigioni, ecc.) sempre per negarne la spiegazione soprannaturale. Esistono tuttavia fenomeni eclatanti di fronte ai quali tale approccio, ancorché comprensibile per chi si colloca su posizioni di scetticismo religioso, non è onestamente giustificabile. V’è un’ampia documentazione in letteratura di fatti impressionanti, e inspiegabili con le leggi di natura, avvenuti soprattutto nell’ambito del mondo dei medium e dello spiritismo. Ma non è su questi che voglio soffermarmi quanto piuttosto sui fatti analoghi e, ad avviso di molti, della stessa identica natura testimoniati da osservatori che dovrebbero godere della fiducia e della stima della Chiesa che ne raccomanda la presenza in ogni diocesi. Mi riferisco agli oltre 300 preti esorcisti di nomina vescovile che in Italia operano per liberare le persone, che a loro si rivolgono, vittime delle azioni straordinarie del maligno. Spesso l’esorcista viene interpellato su casi che sarebbero di competenza dello psichiatra o del neurologo e a questi vengono a loro volta indirizzati. Ma capitano anche persone, quasi sempre provenienti da esperienze con il mondo dell’occulto, che presentano i caratteri tipici delle infestazioni, vessazioni, ossessioni e possessioni diaboliche. Gli esorcisti con molti anni di attività ne hanno cose da raccontare, di cui sono stati testimoni diretti. Hanno visto sgorgare da normali rubinetti di casa litri e litri di sangue rivelatosi umano. Hanno visto persone staccarsi da terra e salire, salire fino a toccare il soffitto della chiesa. Hanno visto povera gente, spesso analfabeta, esprimersi forbitamente e rispondere a tono in lingue europee, esotiche e persino estinte e che evidentemente non potevano mai avere imparato. Hanno visto rivelati segreti intimi che nessuno tranne gl’interessati poteva conoscere. Hanno visto scaturire da fuscelli di persone una forza tale che neppure molti uomini robusti erano in grado di contenere. Hanno visto povere vittime malmenate e ferite da mani invisibili. Si possono onestamente spiegare questi fenomeni con la suggestione o l’illusione dei sensi? Si possono seriamente attribuire a non ben definiti, e ancora ignoti, poteri inconsci degli interessati? Pertanto non restano che due ipotesi: O che i signori esorcisti c’ingannano senza pudore, e allora cosa aspettiamo a congedarli tutti con disonore? Oppure che dicono il vero. In tal caso questi fenomeni possono essere spiegati solo con l’azione di esseri terzi non umani che hanno mente, volontà, libertà, intraprendenza e poteri che sfuggono alla nostra comprensione. Esseri che prendono possesso di persone in qualche modo consenzienti, che parlano e agiscono servendosi dei loro corpi, ma valendosi delle cognizioni e della forza loro proprie. Per cui possono rivelare cose occulte; possono esprimersi in tutte le lingue che vogliono; possono manifestare una forza sovrumana. Parliamo dei demoni, quelli di cui dice la Bibbia, che Gesù e gli apostoli scacciavano. Al Demonio fa comodo lasciar credere di non esistere perché così può compiere più liberamente la sua attività di perdizione. Come affermò Boudelaire: “La più grande astuzia del Diavolo è di farci credere che non esiste”. Tutti quelli che lo considerano una metafora, un’idea astratta del male, ci pensino: sia pure senza volerlo, non si stanno prestando al suo gioco? Certo, in passato la Chiesa ha compiuto delle intemperanze, vedeva streghe dappertutto, ha acceso molti roghi. Ma non si ovvia ad un eccesso passando a quello opposto, per sentirsi più moderni, per compiacere confraternite come il CICAP che agiscono spinte da altri presupposti inconciliabili con la fede.

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 26 novembre 2006)

I tre rischi dell’occulto

Si stima che in Italia gli operatori dell’occulto siano oltre 150 mila. È come se in una città grande quanto Rieti tutti i suoi abitanti, compresi i bebè nelle culle e i vecchi nelle case di riposo, esercitassero l’attività. Come si spiega tutta questa offerta di prestazioni esoteriche? Semplicemente con la dimensione della domanda. Secondo un dato prudente, quello fornito dall’Eurispes, sono dieci milioni gli italiani che ogni anno si rivolgono a maghi, imbonitori, astrologi e occultisti. Si pensi che il giro d’affari delle attività che spaziano dalle sedute in studio, ai redazionali tv, ai call center, all’editoria, si aggira attorno ai 5 miliardi di euro. Gli operatori più intraprendenti riescono ad accumulare fortune valutabili in decine di milioni di euro. La seconda domanda che segue è allora: perché c’è tanta gente disposta a sborsare fior di quattrini in prestazioni così poco confortate dalla ragione sul suolo della scettica Europa? La risposta ci sconcerta soprattutto se teniamo conto della tipologia d’utenza. Accanto a tanti contadini, operai e casalinghe troviamo professionisti, industriali e uomini politici che a rigor di logica riterremmo più provveduti. Tra i professionisti, i medici occupano un posto di tutto riguardo tra i clienti dei suddetti operatori. Parliamo cioè di persone con un approccio positivista nei confronti della realtà, che spesso e volentieri identificano la religione con la superstizione. Come spiegare questa incongruenza? Chesterton affermava con ironia: “Il problema di quando gli uomini smettono di credere in Dio, non è che non credono più in nulla, ma che iniziano a credere a tutto!”. In estrema sintesi: quando cala la fede aumenta la superstizione, a dispetto del progresso tecnico e della cultura che ben spesso si dimostrano ininfluenti. Dirò di più: tra coloro che cercano aiuto negli operatori dell’occulto molti sono, in apparenza, normalissimi cristiani che vanno in chiesa, che subito dopo entrano nello studio del mago, e che non trovano questo comportamento incoerente. Forse perché così fan tutti, così hanno fatto i loro genitori e i loro avi, fin da prima che nelle nostre terre giungesse la religione della Bibbia. La stessa Bibbia che mette in guardia: “Non vi rivolgete ai negromanti né agli indovini” (Lv 19, 31). “Nessuno tra di voi… pratichi la divinazione o cerchi di indovinare il futuro, nessuno eserciti la magia, né faccia incantesimi, o consulti spiriti e indovini; nessuno cerchi di interrogare i morti. Chiunque fa queste cose è considerato dal Signore una vergogna” (Dt 18, 10-12). Perché questo divieto così perentorio? Cosa implica realmente frequentare maghi e affini? Potremmo indicare almeno tre rischi in ordine crescente di pericolosità. Il primo è soprattutto d’ordine economico, come ci ricordano le cronache di questi giorni. La maggior parte degli operatori dell’occulto è costituita da imbroglioni, che spesso sanno vendere bene il loro prodotto e il cui unico scopo è quello di estorcere quattrini ai malcapitati clienti talvolta fino a ridurli sul lastrico. Rischio non di poco conto ma che da solo non giustifica la severità dell’ammonimento di Deuteronomio. Il rischio seguente è quello di perdere la fede. A monte c’è già una forte carenza di fiducia che viene evidenziata in Isaia 8, 19: “Se vi si dice: «Consultate i medium e i maghi, che sussurrano e bisbigliano», rispondete: «Non deve un popolo consultare il suo Dio? Deve forse rivolgersi ai morti per conto dei vivi?»”. A molti non piace consultare il loro Dio perché Egli risponde nei tempi che ritiene opportuni e spesso i suoi doni, sebbene sempre migliori, non coincidono con le loro richieste. Eccoli allora percorrere scorciatoie che promettono il “qui e subito” e che di fatto svuotano la religione d’ogni significato. Il terzo rischio, se non più importante, è per certi versi il più pericoloso. Per avere un saggio di tale pericolosità basta informarsi sul gran daffare che i clienti di maghi e consimili figuri danno ai preti esorcisti. Sebbene la maggior parte degli occultisti siano solo dei truffatori, alcuni di essi sono realmente in contatto con il mondo occulto delle tenebre e nel momento stesso che ci si rivolge a loro si apre la strada alle azioni straordinarie del maligno che, per così dire, acquisisce il diritto d’infestare le abitazioni, di vessare e persino di possedere questi incauti avventori che divengono prede su cui egli accampa diritti di proprietà. Essi finiscono perciò in balia d’un potere soprannaturale che ne trasforma la vita in un incubo e pone loro ogni ostacolo possibile per sottrarli all’unica Potenza in grado di liberarli. Degli angeli ribelli parleremo, ma per ora concludiamo con l’ammonimento di don Gabriele Amorth, il prete esorcista più famoso d’Italia: “Se ti rivolgi ad un mago, oltre ad avere dei danni, sei anche un imbecille perché regali fior di milioni per ottenere del male”.

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 19 novembre 2006)

La rete dei mercanti

Mi ha colpito la notizia del numero elevato di studenti che si tolgono la vita nei campus americani. Appartengono alle classi sociali più privilegiate, non hanno problemi economici, sono coloro che occuperanno i posti di comando della nazione. Eppure un bel giorno lasciano aperto il libro su cui stavano studiando e si gettano dall’ultimo piano della biblioteca. Per le università è ormai emergenza e si cerca di correre ai ripari: si sottopongono gl’iscritti a test specifici e quelli che risultano a rischio devono frequentare appositi programmi di counseling, pena l’espulsione. Anche coloro che tentano il suicidio vengono rispediti a casa. Non è dato sapere quali provvedimenti siano presi nei confronti di chi riesce nel suo proposito, commenta ironicamente uno degli articoli che riporta la notizia. Ed è proprio questa battuta, a mio avviso, che ci fornisce la vera chiave di lettura del fenomeno. Infatti la risposta delle istituzioni appare motivata, più che dal sincero desiderio di aiutare questi ragazzi, dall’esigenza di autopreservarsi. La scuola, preparando i professionisti di domani, perpetua il sistema dei rapporti nelle nostre società che sono prevalentemente economici. La legge del mercato e la competizione cominciano dai banchi di scuola. E ancor prima, dalla famiglia. Questa impostazione è quella di tutti i paesi industrializzati. Durkheim, nel suo trattato sul suicidio del 1897, ne attribuisce la colpa alla crisi dei gruppi. C’è del vero in questo riferimento: sparita la famiglia patriarcale, l’unica rete in cui ci si trova impigliati è quella delle relazioni opportunistiche volte al profitto e all’autorealizzazione. Non c’è più il conforto né della religione né dell’amore nelle sue varie espressioni. Gl’ideali morali cedono il posto alla sirena luccicante dei consumi che promette tanto ma si risolve in un vuoto terribile dell’anima, nella disperazione per mancanza di prospettive profonde. “Molti adolescenti e giovani avvertono la propria esistenza come un camminare senza meta; non riescono più a dare continuità e unità a ciò che vivono e diventano vittime di un senso di impotenza. Oggi accanto a giovani capaci di una ricchezza straordinaria, ne esistono altri, troppi, che soffrono una sorta di stanchezza confusa che blocca ogni rapporto e ogni relazione”. È la riflessione di mons. Severino Pagani, responsabile del servizio di Pastorale giovanile della diocesi di Milano, sul fenomeno in aumento dei suicidi giovanili. La rete delle relazioni opportunistiche è balorda, inopportuna, micidiale. Sembra una risorsa ma si rivela una trappola. È inconsistente e flaccida dove dovrebbe sostenere: non sa condividere la gioia e s’eclissa nel momento del bisogno. Al contempo è più inesorabile e invadente d’una maglia d’acciaio nell’imporre la legge del mercato in ogni aspetto della vita. Questo paradosso è colto da mons. Pagani quando osserva che gli spazi di libertà individuale di chi si trova in quest’ingranaggio sono solo apparenti: "La debolezza delle relazioni introduce il pericolo di una disintegrazione della persona la quale non è più sovrana di fronte al tempo, agli eventi e all'organizzazione dei suoi giorni. Paradossalmente, alla continua affermazione di libertà, si accompagna l'impossibilità di progettare, di dare senso all'oggi e al domani, di legare il passato con il futuro". Questa sindrome del topo in trappola è, certamente, soprattutto avvertita quando il contesto non ha consentito lo sviluppo di una dimensione spirituale. Il cristianesimo insegna che Dio ha un piano per la nostra vita. Le difficoltà – quando non siamo noi a cercarle – sono parte voluta del progetto di crescita. Il suicidio usurpa un potere che appartiene solo a Dio perché pone termine a questo piano in modo arbitrario. Se non vi fosse in molti questa consapevolezza, dovremmo attenderci in Occidente un’ondata persino più consistente di suicidi. Possiamo corroborare questa supposizione confrontando la nostra realtà con quella d’un altro paese fortemente industrializzato: il Giappone. Lì, anziché esportare i nostri principi morali, abbiamo esportato il nostro modello di sviluppo. I giapponesi hanno assimilato benissimo il modello insieme ai suoi inconvenienti: Il tasso di suicidio è in quella landa ancora più elevato che da noi. Gli esperti spiegano questo fenomeno con la diversa etica religiosa di quel popolo. Le due principali religioni lì professate, lo scintoismo e il buddismo, non considerano la vita come dono divino e quindi mancherebbe la remora religiosa di cui abbiamo detto. Ciò spiegherebbe la ragione per cui la pratica del suicidio ha potuto radicarsi in quella società sino a divenire un modo onorevole per “togliere il disturbo”. La nostra influenza non ha fatto che peggiorare le cose. Non intendo con ciò dire che tutti i suicidi nel mondo avvengano sempre per causa nostra. Pensiamo a quante donne si tolgono la vita in quelle nazioni ove alta è la discriminazione sessuale e la violenza domestica. Così avviene nei paesi di cultura indiana, in Cina, in molti paesi islamici. Gli ospedali iraniani ricoverano giornalmente decine di donne che hanno cercato di farla finita. Però spesso noi c’entriamo, e pure pesantemente, sia esportando modelli sia esportando miseria. Pensiamo al suicidio dei piccoli agricoltori indiani (16.000 nel solo 2004) in cui è innegabile la mano dei paesi ricchi. La cosiddetta “Rivoluzione Verde” ha rovinato la vita a molti contadini del Sud del mondo, con la complicità delle istituzioni mondiali del credito e del commercio e per la politica senza scrupoli delle multinazionali delle sementi, dei pesticidi e dei fertilizzanti. Qui si può parlare di induzione o esportazione del suicidio. Ovunque stiamo o andiamo, la nostra cultura mercantilistica esercita oppressione e scoraggia i legami d’amore. Chiunque finisce nell’ingranaggio, a cominciare dai nostri ragazzi, ha buone probabilità di finire stritolato. “I tuoi mercanti – si legge in Apocalisse 18 – erano i padroni del mondo”. In questo scenario escatologico i rapporti umani sono soprattutto descritti come una mera relazione tra mercanti: che dominano, che si arricchiscono, che piangono quando, grazie al cielo, vien posta fine alla cuccagna.

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 12 novembre 2006)

Un prato di margherite viola

Marcella era una ragazza innamorata della vita. Coglieva e trascriveva nelle sue poesie le luci, i colori e le forme della natura: il mare trasparente del mattino, il riflesso del sole sui gusci di conchiglia, la macchia vermiglia dei campi di papaveri. Marcella si era ammalata di un male che perdona raramente. Accompagnata dal padre, cominciò a viaggiare per policlinici e si sottopose a visite, consulti e cure, sospinta da quella determinazione che sino in fondo non dispera. Nel frattempo portava avanti il proprio impegno con la scuola, riuscì a diplomarsi a pieni voti ed anche a iscriversi al primo anno di medicina. Poi, in un giorno brumoso e freddo dei suoi diciotto anni, se ne andò, in punta di piedi così come era vissuta. Marcella non parlava mai della morte, però ne scriveva nelle poesie che teneva per sé. In esse il tema dominante era la luce, talora avvilita e stanca, talaltra vittoriosa. Anche se l’approdo inevitabile era “morire su un prato di margherite viola”, in esse si diffonde un’ansia inesausta di luce e la speranza d’un mondo più giusto. Un amico di famiglia, un italianista, nel commentarle vi scorse sullo sfondo gli emblemi di una umanità al suo crepuscolo che sperpera i valori, profana la natura e spegne ogni tremito di luce spirituale. Un’umanità sfrontata che non si vergogna, anzi si vanta d’aver creato una civiltà spietata che genera pena e offesa: l’eredità che lasciamo ai nostri giovani e che spinge spesso questi ad alienanti o esasperate soluzioni. È quest’ultima considerazione che mi ha dato da pensare e che mi ha spinto a raccontare questa storia. Ciò che soprattutto m’è rimasto impresso di quei fatti lontani è l’immagine di quel volto composto e dolente del mio insegnante di lettere, il papà di Marcella, i suoi occhi umidi di pianto invano padroneggiato. Tutti soffriamo per la perdita d’una persona cara, ed è particolarmente inconsolabile il cuore del genitore che sopravvive alla propria creatura. La morte è comunque uno scandalo, l’ultimo dei nemici che Cristo distruggerà (v. 1 Co 15,26), un retaggio che fino a quel giorno pesa su ogni corpo che respira. Tuttavia, una cosa è la morte che sopraggiunge per ragioni imponderabili e su cui non abbiamo autorità; una cosa ben diversa è invece quando siamo responsabili del sangue dei nostri fratelli e, ancor più, dei nostri figli. Nella misura in cui contribuiamo a rendere spietata la nostra civiltà siamo colpevoli della pena e dell’offesa che arrechiamo ai più fragili fino a spingerli a soluzioni esasperate. Nel mondo cosiddetto cristiano il suicidio è la seconda causa di morte dei giovani dopo gli incidenti stradali; forse la prima, se pensiamo che molti incidenti sono in realtà suicidi camuffati. Ed è una tendenza in aumento: la percentuale di suicidio negli ultimi 30 anni è triplicata. Abbiamo anche casi di bambini che si tolgono la vita. Ma ci pensiamo? Quanto vale una società che spinge le proprie creature a farla finita? Possiamo affermare che ha fallito clamorosamente a prescindere dai suoi punti di PIL. Mentre siamo presi a derubarci a vicenda e a litigare sin dentro le aule del Parlamento, coloro che dovrebbero rappresentare il nostro futuro, muoiono inascoltati. Più che mai queste morti sono uno scandalo. «Un giorno Gesù disse ai suoi discepoli: “Certo, gli scandali non mancheranno mai! Però, guai a quelli che li provocano. Se qualcuno fa perdere la fede a una di queste persone semplici, sarebbe meglio per lui che fosse gettato in mare con una grossa pietra al collo! State bene attenti!”» (Lc 17,1-3). Altro che darwinismo sociale… Ne parleremo ancora, se Dio vuole.

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum l' 8 novembre 2006)

Free Hugs – Abbracci gratis

Ieri ne hanno parlato i quotidiani e i telegiornali: gruppi di giovani s’aggirano per le città offrendosi d’abbracciare calorosamente i passanti al solo fine di regalare un contatto. Prima c’era il sia pur rivoluzionario segno della pace, alla domenica, adesso siamo alla stretta affettuosa tra sconosciuti. L’iniziativa sembra raccogliere consensi e diffondersi per le città del mondo. E le autorità come reagiscono al fenomeno? A Sidney, la polizia blocca il promotore dell’idea perché privo dell’assicurazione di responsabilità civile, necessaria per l’attività, salvo lasciare il campo dopo una petizione di 10.000 firme non prima, ovviamente, d’essere stata abbracciata. A Shangai l’organizzatore cinese dell’iniziativa viene trattenuto dalla forza pubblica perché l’attività raduna gente: a maggior ragione per un regime l’abbraccio gratuito, in quanto evento imprevisto, pone in allarme perché attenta all’ordine costituito. Questo fenomeno, di per sé innocuo ma al contempo fuori da ogni regola codificata, pone in risalto due inadeguatezze: quella delle società urbanizzate che codificano tutto ma blindate ai sentimenti; e quella delle istituzioni tutte concentrate a preservare il sistema ma goffe sino alla comicità involontaria quando cercano di regolare comportamenti attinenti alla sfera delle emozioni. Sennonché gli uomini, vivaddio, sono esseri capaci di sentimenti e che esprimono emozioni. Leo Buscaglia incoraggiava la libera espressione della sfera affettiva: “Io penso che l’individuo ricco d’amore debba ritornare alla spontaneità… bisogna toccarci, stringerci, sorriderci, pensare l’uno all’altro, e curarci gli uni degli altri: siamo liberi di fare tutto ciò… Gli abbracci fanno bene, sono piacevoli; e se non ci credete, provate… Nelle vostre relazioni, mostrate ciò che sentite. Se avete voglia di piangere, piangete! Quando avete voglia di ridere, ridete! … Credo veramente che moltissimi abbiano paura della vita. Non so perché. Abbiamo paura d’essere ciò che siamo! Abbiamo sentimenti meravigliosi e folli e non li ascoltiamo. Vedete una donna molto attraente e pensate: “Le dirò che è veramente bella”. E poi pensate: “Oh, non posso farlo”. E lei vivrà per tutta la vita senza sapere che è bella! È una vergogna, perché se non viviamo pienamente, impediamo ad altri di vivere pienamente” (Vivere, amare, capirsi, pp.41-42,164,166). Così vengano pure gli abbracciatori. Se loro sono eccentrici è solo perché siamo centrati male noi. Siamo noi i repressi, che facciamo tutto per un secondo fine e niente gratis. Gesù, il nostro modello, non fu un represso. Non ricordiamo quando pianse davanti alla tomba di Lazzaro o pensando al destino di Gerusalemme? O quando prendeva i bimbi sulle ginocchia, o lasciava che il discepolo Giovanni si assopisse sul suo petto?

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 15 novembre 2006)

Il prezzo di tutto e il valore di niente

Di questi giorni la notizia che sono in aumento i reati informatici e i delitti compiuti tra le mura domestiche. I primi costituiscono il naturale adattamento dell’azione criminosa all’evoluzione tecnologica. Sono certamente un segno del nostro tempo, come lo sono d’altra parte anche i secondi. Questi anzi colpiscono maggiormente e giustamente la nostra attenzione, poiché la casa è il simbolo della sicurezza, della protezione, essa richiama l’idea del rifugio. Invece apprendiamo che parenti e vicini uccidono più della criminalità comune e di quella organizzata messe assieme. La maggioranza degli omicidi rilevati avviene all’interno della coppia: si uccide il partner perché si scopre un tradimento o perché non si accetta la separazione. Ma anche per un accumulo di conflittualità e per ragioni economiche. I coniugi separati si uccidono perché non accettano che l’altro abbia una nuova relazione, in sede di spartizione del patrimonio e di definizione dell’assegno o nella contesa per l’affidamento dei figli. La seconda tipologia d’omicidio tra le mura domestiche è il figlicidio e in particolare l’infanticidio. Tra il 1993 e il 2003 questo crimine è cresciuto del 41%. Sempre più spesso il genitore che uccide il proprio bambino compie questo gesto efferato senza la mediazione della malattia mentale; non è cioè affetto da una patologia psichiatrica, neppure transitoria quale può essere la depressione postpartum. Il terzo omicida “dal volto amico” è il figlio. Il parenticidio, l’uccisione di entrambi i genitori, in vent’anni è cresciuto del 1.600%. Ed anche qui, la maggior parte delle volte, la malattia mentale non c’entra. Quasi sempre il genitore viene eliminato per accumulo d’ostilità e “per soldi”. Il fratello, come ci ricorda la Genesi, è il killer più antico da cui guardarsi. Egli uccide per gelosia e, più in là, in sede di spartizione dell’eredità. Esperti in bioetica, criminologi, psichiatri e sociologi vengono interpellati per interpretare questo inquietante fenomeno. Essi ci spiegano che la famiglia sta attraversando una crisi profonda e con essa anche la società. Questa è tutta protesa nell’acquisizione di un sempre maggiore benessere materiale a cui si accompagna la desertificazione morale e affettiva. I genitori, presi a perseguire i loro obiettivi di carriera e di consumo edonistico, hanno poco tempo da offrirsi reciprocamente e da dedicare ai figli, oltre che valori discutibili da trasmettere. Persino la rete degli affetti viene distorta dalla modalità consumistica e percepita come possedimento di persone-oggetti da acquisire o da dismettere secondo l’utilità. Una modalità sbrigativa di dismissione è la soppressione, cioè l’omicidio. Così, quando l’altro diviene motivo di stress od ostacolo nel perseguimento di un obiettivo, che riteniamo irrinunciabile, semplicemente lo eliminiamo. I figli, cresciuti in questo clima perché dovrebbero comportarsi diversamente? Abituati ad essere trattati come oggetti e rabboniti con oggetti finiscono per considerare oggetti anche i genitori. Se invece di ricevere affetto e considerazione ottengono la macchina, bei vestiti e soldi, mamma e papà diventano per loro dei semplici dispensatori di soddisfazioni materiali. Dei salvadanai da rompere all’occorrenza, per usare un’immagine suggerita dallo psichiatra Vittorino Andreoli. Quello appena trascorso è stato il secolo delle utopie più promettenti e vicine alla realizzazione: si sono sperimentate nuove forme di governo, e la rivoluzione scientifica e tecnologica lasciava presagire benessere per tutti e la soluzione di tutti i problemi dell’umanità. Ci si è liberati della religione come dell’ultima delle superstizioni. Ma è pure stato il secolo delle promesse mancate perché chi aveva riposto fiducia in quelle rivoluzioni è rimasto deluso. Molti si sentiranno sollevati dal fatto che il Cristianesimo sia emigrato altrove nel mondo, tuttavia cosa ci resta da stringere in cambio? Secondo il sociologo Sabino Acquaviva, ecco cosa ci resta: un continente scettico, edonista, senza ideali, impegnato nel vivere la sua piccola realtà giorno dopo giorno. I centri commerciali hanno preso il posto delle cattedrali e noi siamo trasformati in pigri consumatori di beni, servizi e messaggi funzionali al sistema. Ormai – usando un’espressione di Oscar Wilde – noi conosciamo il prezzo di tutto e il valore di niente. Il collasso della famiglia e l’eclissi della civiltà europea sono aspetti di un medesimo fenomeno che si ripete. Era già successo con il degrado dei valori morali che precedette la caduta dell’impero romano: l’arrivo nell’urbe di una folla di schiavi ellenici, spesso più colti e istruiti dei loro padroni ma portatori di costumi e abitudini decadenti, com’era d’attendersi, stimolò nei romani la crescita del livello culturale ma anche la perdita dei valori ancestrali – il mos maiorum – e la struttura della famiglia non sfuggì a questo sconvolgimento. Nel Vangelo il cedimento dei rapporti familiari viene posto come indicatore di crisi epocali: “Il fratello consegnerà a morte il fratello, il padre il figlio e i figli insorgeranno contro i genitori e li metteranno a morte” (Mc 13,12). E Gesù raccomandava di cogliere questi segnali: “…non sapete capire il significato di ciò che accade in questi tempi?” (Mt 16,3).

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 22 ottobre 2006)

Conflitto di civiltà

Spesso negli articoli dei giornali o nei dibattiti televisivi si sussurra la raccomandazione di non fare il gioco dei fondamentalisti islamici, i quali, con le loro inaudite provocazioni, perseguirebbero proprio l’obiettivo di portare l’Occidente “crociato” a reazioni inconsulte e quindi di trascinarlo nel tanto temuto conflitto o scontro di civiltà. Ben venga ovviamente la prudenza che non raccoglie la provocazione. Tuttavia ogni volta che sento paventare questo timore non posso evitarmi di considerare il disorientamento in cui versa la nostra civiltà. Il torpore che c’impedisce di prendere atto che nel conflitto ci siamo già dentro. O, forse, sarebbe meglio dire ci siamo sempre stati. Erich Fromm osservava argutamente che, sebbene nominalmente ci richiamiamo al Figlio di Dio come nostro modello ed eroe cristiano per eccellenza, in realtà il riferimento a cui s’ispira il nostro agire rimane l’eroe pagano: quello che nella tradizione mitologica agiva per proprio merito e in vista della propria gloria. Cristo nelle chiese e l’eroe pagano nelle strade e nei palazzi che contano. Noi definiamo la nostra civiltà: ebraico-cristiana, ma tacciamo sul fatto che in essa il Dio della Bibbia è costretto a convivere con gli dèi dell’Olimpo: noi non ci siamo mai emancipati dal retaggio pagano delle nostre origini. E queste due anime hanno sempre convissuto: talora tentando mostruose integrazioni, quasi sempre beccandosi, così come i due polli di Renzo Tramaglino. E in preda a queste contraddizioni ci siamo lanciati alla conquista del mondo: per civilizzarlo, abbiamo detto. I missionari per portare la fede, talvolta per imporla. I vari conquistadores per asservire e depredare. E questo colonialismo predatorio in realtà non è mai finito. Ci vantiamo d’avere esportato il progresso e la democrazia, ma in realtà noi siamo ancora quelli che impongono l’oppio con le cannoniere. Vendiamo allegramente le nostre armi ai regimi che massacrano le loro genti o che fanno le guerre dei poveri. I nostri governi impongono dazi ai prodotti agricoli del terzo mondo e le nostre compagnie li acquistano per due soldi. Sempre per pochi spiccioli costringiamo i bambini a respirare toluene per produrre le scarpe che rivendiamo nei nostri negozi a prezzi da estorsione. E i nostri petrolieri, finché hanno potuto, non si sono arricchiti alle spalle di chiunque? Cosa c’è di cristiano in tutto questo? Noi abbiamo soprattutto esportato il modello dell’eroe pagano. Abbiamo esportato l’etica della circostanza e persino l’ateismo che abbiamo inventato noi. Lo abbiamo chiamato, con un eufemismo, laicismo. Lo Stato è laico, e fin qui niente di male finché s’intende separazione e non, come spesso è avvenuto, sopraffazione dei poteri. Anche la scienza è laica; ma qua in modo più sottile si nasconde quel conflitto di civiltà, interno alla cultura occidentale, di cui stiamo dicendo. Lo scienziato laico può essere quello che nel suo campo s’impone d’adoperare solo il metodo della scienza, ma molto più spesso è quello che in un simposio si lascia sfuggire: “Che alternativa abbiamo al darwinismo? Dovremmo forse ammettere che esiste un Creatore?”. E la filosofia laica? Ecco le parole di un filosofo italiano contemporaneo: “È volgare già l’idea stessa di un Dio che intervenga personalmente nelle vicende quotidiane dell’umanità”. Così insegniamo ai nostri figli, ma anche ai figli degli scintoisti, dei taoisti e degli induisti. Siamo orgogliosi d’esportare il nostro laicismo. Andiamo per tutto il mondo ma per predicare un evangelo ben diverso da quello del mandato cristiano, e tuttavia non esitiamo a riconoscerci culturalmente cristiani e c’indigniamo quando qualcuno chiede di togliere il crocifisso dalle aule delle scuole e dei tribunali. Poi arriva il dream-team di Bin Laden e butta giù le torri degli studi legali da dieci milioni di dollari a parcella. Il novello vendicatore ringrazia il suo dio “benigno e misericordioso” e noi ci chiediamo stupiti il perché di tanta ostilità nei nostri confronti. Scopriamo così che esiste il popolo di un altro libro che non accetta di lasciarsi omologare. Che si scandalizza e stigmatizza i nostri vizi allo stesso modo del Libro in cui affermiamo d’ispirarci; ci accusa di rapacità, d’immoralità e di disprezzo per la religione. Certo, è un popolo ancora fermo ai secoli del medioevo (non a caso esso, contando gli anni dall’Egira, si colloca nel 1427). Come l’Europa medievale esso discrimina le donne, rifiuta il concetto di democrazia, condanna l’apostasia, contempla il reato d’opinione, crede nella guerra santa, esprime il suo dissenso con modalità rozze e sbrigative… ma ciò non rende meno fondate le sue accuse. Noi c’illudiamo, facendo leva sulla parte “moderata” del mondo musulmano di laicizzarlo. In realtà avviene il contrario: la sua intolleranza sta scuotendo le nostre contraddizioni. Le due torri sono in fondo la metafora delle due anime, costrette a convivere ma inconciliabili, che caratterizzano la nostra civiltà.

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 15 ottobre 2006)