mercoledì 21 gennaio 2015

La netturbina multata

Celia Prada, la soccorritrice
Lunedì 12 gennaio a Milano, in zona Isola, un pedone di 55 anni viene investito da uno scooter; dopo un balzo in aria l’uomo ricade immobile sull’asfalto. Celia Prada, una netturbina che stava svuotando dei cestini, avendo assistito alla scena lascia giù i sacchi della spazzatura e corre ad aiutare il malcapitato. Celia, che come tutti gli operatori pubblici ha frequentato un corso di primo soccorso, si dà da fare per rianimare il pedone che a causa dell’incidente è andato in doppio arresto cardiaco e gli salva la vita. L’ambulanza che giunge poco dopo preleva l’uomo ormai fuori pericolo e lo porta in ospedale, in codice giallo. Ci si aspetta che Celia riscuota l’elogio dei presenti, giusto? E invece no. Gli automobilisti bloccati, nonostante vedessero l’uomo a terra privo di sensi, suonavano il clacson e incitavano a sbrigarsi. Come se non bastasse, quando Celia torna al proprio camioncino trova i vigili che le stanno prendendo la multa perché aveva lasciato il mezzo in sosta vietata. Alle sue proteste, questi rispondono: “Ringrazia il cielo che hai salvato una persona. Accontentati e paga la multa”. Il fatto finisce sui giornali. I cronisti indagano e interrogano tutte le figure pubbliche che possano far luce sulla vicenda che appare paradossale. Il comando della polizia urbana afferma che il mezzo dell’Amsa (l’azienda milanese per la raccolta dei rifiuti) parcheggiato a ridosso delle strisce pedonali limitava la visibilità e poteva persino essere stato la causa dell’incidente. Il medico dell’ospedale Niguarda, intervenuto pochi minuti dopo l’incidente, fornisce un’interpretazione diversa dei fatti: “L’automezzo dell’operatrice Amsa – afferma – era di lato e non impediva la visuale, come ho scritto nella mia testimonianza. All’uomo non batteva più il polso e l’intervento della donna è stato determinante. La multa è assurda – conclude – così come incivile è stato il comportamento di molti automobilisti in via Alserio dopo l’impatto”. Anche i funzionari dell’Amsa affermano che la loro dipendente stava seguendo la procedura corretta nel muoversi da un cestino all’altro e nel fermare il mezzo accanto al singolo cestino da svuotare. L’Amsa s’è inoltre detta disposta a farsi carico della multa comminata alla dipendente. Stessa promessa è venuta dall’assessore alla Sicurezza Marco Granelli: “Il suo è un gesto di grande senso civico che merita riconoscenza – ha detto Granelli –. Sono pronto a farmi carico della sanzione”. Parole dette ai giornalisti. Intanto, per non ritrovarsi con una sanzione ancora più alta, alla povera netturbina non è rimasto che pagare la multa: quasi 60 euro.

Come commentare questo episodio di “ordinaria” vita di relazione?  Dico ordinaria perché sono anni che osserviamo il vivere civile nelle nazioni cosiddette sviluppate e di cultura cristiana. Nel 2008, ad esempio, abbiamo detto degli infartuati lasciati morire davanti alla soglia del pronto soccorso di alcuni ospedali perché il regolamento non prevedeva l’uscita in strada del personale ospedaliero, o dei medici di famiglia che rapinano i vecchietti con pensione minima chiedendo loro 50 euro per un certificato. In questa vicenda il medico dell’ambulanza ne esce bene ma ne escono male tutti gli altri: gli automobilisti che si trovano la seccatura del moribondo sul selciato che impedisce loro il passaggio, i vigili che multano l’eroina che ha abbandonato il mezzo in sosta vietata, l’assessore che approfitta dell’episodio per farsi propaganda politica, lo stesso pedone investito che, una volta dimesso, non s’è curato di cercare la sua salvatrice per ringraziarla. Il prof. De Rita ha definito la nostra una “società mucillagine” che sta insieme non per integrazione ma per accostamento, una società diventata più egoista e individualista, che intende la libertà come la mera disponibilità di se stessi; ove l’unico valore che conta è il proprio immediato tornaconto, ove l’unica legge che conta è quella del mercato e gli affari sono del tutto sganciati dalla morale. Persino gl’incaricati di pubblico servizio, cioè coloro che svolgono un lavoro al servizio della collettività, spesso si limitano a seguire il regolamento pedissequamente, nel rispetto della forma ma infischiandosene dello spirito. Giusto per non avere grane ed eventualmente per strappare una gratifica o un avanzamento di carriera. Insomma, tutto in funzione di se stessi e con buona pace del concetto di “prossimo” che a malapena si ferma ai familiari o a chi può esserci utile.

Ovviamente l’egoismo non è una caratteristica soltanto dei nostri giorni. La parabola del buon samaritano raccontata da Gesù ci offre un quadretto esemplare di società solidale. In quella storia erano quasi tutti giudei: il viandante sulla via per Gerico, i predoni che lo aggredirono, il sacerdote e il levita che lo scansarono e proseguirono per la loro strada. Dico quasi, perché l’unico che si degnò di soccorrere il malcapitato fu un samaritano: uno straniero e per giunta disprezzato. E la vicenda di Milano sembra quasi la riedizione della parabola dove son tutti connazionali tranne la soccorritrice. Infatti Celia Prada, la netturbina, è peruviana, e vive in Italia dai primi anni Novanta. L’aggravante rispetto alla parabola, è che la soccorritrice è stata sanzionata. È come se il levita avesse criticato l’azione del buon samaritano, chiedendogli di scostarsi dalla strada, e il sacerdote gli avesse chiesto un risarcimento per aver fatto quello che avrebbe dovuto far lui, recando pregiudizio alla sua immagine che sarebbe stata portata a esempio negativo per i seguenti duemila anni. Ciò significa che il XXI secolo è anche peggiore del I sec. d.C.? Una differenza sicuramente c’è e adesso la faremo notare.

Ci sono sempre state civiltà che si sono corrotte, perdendo la propria coscienza etica e religiosa. Anzi, ogni civiltà passa e ripassa per questa fase crepuscolare. Lo storico e filosofo Benedetto Croce, nel raccontare la Storia dell’Europa nel XIX secolo, indica questo percorso involutivo dovuto ad una progressiva perdita di valori. Quelli fondanti della civiltà europea derivanti dalla fede nella religione, nel razionalismo, nell’illuminismo e, in qualche modo, persino nel liberalismo. Sostituiti da un arrogante bismarckismo e industrialismo che avevano finito per foggiare “un torbido stato d’animo, tra avidità di godimenti, spirito di avventura e conquista, frenetica smania di potenza, irrequietezza e insieme disaffezione e indifferenza, com’è proprio di chi vive fuori centro, fuori di quel centro che è per l’uomo la coscienza etica e religiosa”. La conseguenza di questo squilibrio etico, di questa miscela di edonismo, irrequietezza e indifferenza, furono le due guerre mondiali del XX secolo. Poi ci fu la ricomposizione dei valori e la ricostruzione, con il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta. Dopodiché una nuova perdita di valori a partire degli anni Settanta, con il ritorno ad un quadro simile a quello dell’Europa nella seconda metà del XIX secolo. Simile ma non identico. Manca infatti nell’attuale fase l’aggressività militare. Permane quella economica, aumenta quella sociale, ma quella militare latita. È come se le due terribili guerre mondiali, scatenate proprio dall’Europa, avessero prodotto degli anticorpi nel vecchio continente che hanno finora contrastato la rinascita del militarismo. E poi ovviamente c’è il deterrente dell’arma nucleare che scoraggia il ricorso alla guerra tra le grandi nazioni. Questo può sembrare un dato positivo, ed indubbiamente per molti aspetti lo è perché le guerre sono delle tragedie immani. Però è anche vero che le guerre da sempre hanno rappresentato un fattore riequilibrante nell’accumularsi delle ingiustizie che produce il vivere sociale. Hegel esaltava la guerra come strumento per preservare la “salute etica” di un popolo. La paragonava all’effetto rigenerante del vento: “Come il vento smuovendo le acque impedisce loro di ristagnare, la guerra impedisce allo stesso modo agli stati di fermarsi e corrompersi” (Lineamenti di filosofia del diritto, 1821). Agli israeliti che si corrompevano moralmente, Dio minacciava l’invasione da parte dei popoli stranieri. È come se la guerra resettando l’accumulo di posizioni giuste e ingiuste, facesse ripartire daccapo i popoli toccati dalla distruzione. E inoltre, dato che l’animo umano dà il meglio di sé nelle crisi umanitarie, i periodi di ricostruzione post-bellica sono caratterizzati da minore ingiustizia sociale. Oggi tutto questo manca e paradossalmente accelera la perdita dei valori. Le nostre società diventano delle “poltiglie di massa”, sfilacciate, inconcludenti e senza sguardo al futuro, per dirla con De Rita. Inibite a farsi la guerra tra di loro, concentrano l’aggressività nel vivere sociale; anzi, fanno dell’aggressività la modalità espressiva quotidiana in un crescendo sempre più esasperato di egoismo e individualismo. Questa tendenza non si fermerà. All’episodio di Milano, state certi, che ne seguiranno altri ancora peggiori; ce lo prospetta il discorso profetico di Gesù: “E perché l’iniquità sarà moltiplicata, la carità dei più si raffredderà” (Mt 24:12). Finché l’aggressività sociale raggiungerà un tale parossismo da togliere inibizione anche alla guerra, una bella guerra feroce e generalizzata, che stavolta, come intuì il generale Eisenhower, vedrà tutti perdenti.

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sabato 10 gennaio 2015

Sbagliando ancora previsioni

È raro che gli scrittori di fantascienza o di fantapolitica indovinino le loro previsioni per il futuro. Quasi mai. Anche il 2015 è stato oggetto d’attenzione per scrittori e cineasti che regolarmente hanno sbagliato. Il regista James McTeigue, nel suo film V per Vendetta, ha immaginato tra il 2005 e il 2015 lo scoppio della Terza guerra mondiale e l’instaurazione di un regime totalitario planetario che avrebbe perseguitato oppositori politici e minoranze. Già Orwell aveva immaginato una terribile psicodittatura per il 1984, che scovava anche solo chi pensava male del Grande Fratello, e lo condannava a morte dopo avergli praticato il lavaggio del cervello. Per il 2015 Isaac Asimov, nel racconto Runaround, immaginava che due astronauti venivano inviati su Mercurio insieme a un sofisticato robot per riattivare una vecchia stazione mineraria. In quest’avventura il robot trarrà i due umani da un grave impiccio e salverà loro la vita. Sempre nel 2015 l’horror fantascientifico Punto di non ritorno prevede l’insediamento della prima colonia permanente sulla Luna. Ma già per il volgere del millennio Arthur Clarke immaginava viaggi umani sul pianeta Giove. Nel 1968 Stanley Kubrick trasse da quest'idea il celeberrimo film 2001: Odissea nello Spazio che, sulle note di Strauss, ci raccontava il drammatico confronto tra gli astronauti in viaggio e il sofisticatissimo supercomputer HAL 9000. Sempre nel 2015, e precisamente al 21 ottobre, vengono catapultati Marty e Jennifer a bordo della DeLorean opportunamente modificata dal bizzarro scienziato “Doc” Emmett Brown. Ci riferiamo al secondo episodio di Ritorno al Futuro, diretto da Robert Zemeckis. In quest’anno i due ragazzi trovano scarpe che si allacciano da sole, skateboard che sfrecciano senza ruote e automobili volanti.

Nulla di tutto ciò si è realizzato. A malapena gli uomini hanno fatto alcune passeggiate sulla luna, gli androidi sperimentali sono solo dei divertenti gadget da esposizione, le automobili rimangono ben piantate sulle strade. Quanto alla superdittatura mondiale, non si riesce a fare neppure l’Europa unita; e le tensioni interne e internazionali, nonostante esistano e rendano questo mondo un luogo poco gradevole da abitare, non sono ancora sfociate nella Terza guerra mondiale. Ciò non significa che in questi decenni la tecnologia non abbia fatto progressi persino inimmaginabili, al punto di cambiare radicalmente le nostre abitudini di vita. L’invenzione del microprocessore e della rete Internet ha reso accessibile ai più lo scambio e l’elaborazione delle informazioni al punto che si parla del pianeta in termini di villaggio globale. Computer, telefoni cellulari, schermi piatti hanno più che centuplicato la nostra capacità di comunicazione e d’apprendimento. Grazie alle invenzioni tecnologiche sono migliorate le nostre condizioni di vita in casa, di lavoro e di movimento, di cura. Abbiamo purtroppo pure incrementato la nostra capacità di farci del male: abbiamo inventato armi più sofisticate e micidiali, droghe devastanti, congegni al servizio del vizio come i videopoker. Non possiamo dunque affermare che il futuro non sia entrato nella nostra vita; ma è un futuro diverso rispetto a quello che ci eravamo immaginati.

È come se alla tecnologia fosse consentito di percorrere alcuni campi ed altri le fossero preclusi con fermezza. Innanzi tutto è come se all’uomo fosse impedito di espandersi fuori da questo mondo. Alcune timide passeggiate sulla Luna sono servite più a scoraggiare che a incoraggiare la sua velleità di colonizzare altri corpi celesti. Ma direi di più: è come se all’uomo fosse riservata solo una parte della terra: la superficie. Può solcare i mari, adesso l’atmosfera; può cercare risorse nel sottosuolo. Però continua a costruire i propri insediamenti solo sulla superficie della terra. Mi ha sempre fatto riflettere il discorso di Paolo agli ateniesi dove afferma che il Creatore “ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione” (Atti 17:26). Qui l’Apostolo afferma che “la faccia della terra” è riservata alle nazioni degli uomini perché la abitino: ma con un’ulteriore limitazione di tempo e di spazio. Ogni nazione ha assegnata un’epoca determinata e dei confini ben precisi entro cui esistere. Neppure il temibile impero romano ha potuto derogare da questa regola. Vi siete mai chiesti come mai la Germania e la Mesopotamia non furono mai romanizzate? Ci provarono ma non funzionò. Al di là del Reno il fortissimo esercito di Publio Quintilio Varo subì la terribile imboscata di Teutoburgo che quasi fece impazzire di dolore Augusto. Allo stesso modo venne frustrata la volontà di portare i confini dell’Impero sulle rive dell’Eufrate. Ci provò il triunviro Crasso e perse la vita nello scontro contro i Parti. Sessant’anni più tardi un’armata di 43 mila uomini venne distrutta a Carre da pochi nemici. Dopo 17 anni ci riprovò Antonio con un esercito di 100 mila uomini: mai i romani avevano portato tanti guerrieri in terra nemica; ma anche così l’esito fu disastroso. Evidentemente esiste una volontà imperscrutabile contro cui non può neppure la legge del più forte. Perciò esistono dei confini spazio-temporali assegnati agli uomini; e comunque è stabilito che essi conducano una vita di superficie. Forse per questo le automobili volanti sono rimaste un mero progetto.

E i robot, come mai sono confinati ai film e ai libri di fantascienza? Il cervello umano è un organo di spaventosa complessità, non ancora alla portata della tecnologia umana. Ma anche se ci si arrivasse, l’interazione di androidi così dotati con l’uomo porrebbe problemi etici e d’identità assai delicati. Chiaramente loro compito sarebbe quello di servire gli uomini e di sgravarli da ogni attività fisica e comunque di fatica. Già oggi la robotica realizza macchine con questa finalità. Probabilmente, però, non è utile che tale impiego sostituisca del tutto l’attività umana. Perché il carattere degli uomini matura attraverso il lavoro, le difficoltà e le interazioni umane. L’attività priva di fatica e la completa disponibilità di risorse inibiscono il senso di responsabilità e le scelte morali, e quindi lo sviluppo del carattere. Che impegno sociale, per contrastare le sperequazioni, può attivarsi quando le risorse sono economiche e sovrabbondanti? Il criterio di crescita indicato da Gesù si basa sulla vita solidale, incentrata sulla carità: va quindi oltre la semplice giustizia distributiva. Il dovere di amare i propri fratelli si esprime condividendo anche il necessario e non solo il superfluo. Le tre leggi della robotica, ideate da Isaac Asimov per non recar danno agli esseri umani, tenendo conto della “legge di carità”, può trovare piena affermazione pertanto solo impedendo che esistano robot dotati di cervelli positronici. Paolo aveva indicato, come scopo al fatto che agli uomini siano imposti dei confini spazio-temporali, quello che essi possano cercare Dio (Atti 17:27). Lo stesso si può applicare all’incompatibilità tra percorso umano e presenza di servi robotici, affinché i bisognosi possano non mancare mai sulla terra (Deuteronomio 15:11).

Quanto al fatto che nel 2015 non si sia instaurato alcun regime totalitario a livello planetario, anche questo cade nella legge svelata da Paolo sui confini spazio-temporali stabiliti da Dio per le nazioni degli uomini. Non solo nel 2015, ma mai nel passato v’è stato un impero mondiale e mai vi sarà nel futuro. Questo lo si evince dal quadro delle profezie apocalittiche. Sarebbe una tragedia dalle proporzioni immani e irreversibili per le minoranze e per chiunque tentasse di conservare un minimo di autonomia critica nei confronti del potere costituito. Persino la psicodittatura immaginata da Orwell non aveva estensione planetaria. Ci saranno dittature confessionali nell’Europa latina e negli Stati Uniti, e per chi ama la libertà sarà un brutto quarto d’ora, in senso letterale, perché fortunatamente dureranno pochissimo. Avverrà giusto a ridosso dell’evento escatologico. Sempre in quei giorni deflagrerà l’ultimo conflitto armato di portata planetaria. Non che l’umanità non sarebbe capace di farsi anche oggi una bella guerra generale ma è Dio che non lo consente. Apocalisse 7:1 parla di angeli a cui è ordinato di trattenere i venti di guerra finché non siano sigillati tutti coloro che Dio deciderà di salvare (vers. 3). Dopodiché la guerra scoppierà e allora gli uomini potranno sfogare tutto il loro odio e tutto il loro istinto omicida. Sarà terribile e non ci saranno né vinti né vincitori. Lo aveva già intuito il generale Eisenhower che “l’unica possibilità di vincere la Terza guerra mondiale è quella di prevenirla”. La civiltà umana non sopravvivrà a quell’evento e scadrà con il proprio fallimento il tempo in cui le è stato consentito di autogovernarsi. La guerra sarà lo spartiacque tra il governo degli uomini e il Regno eterno di Dio.

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sabato 24 maggio 2014

Italiani, brava gente

“Giovanni Falcone è stato applaudito da morto dalle stesse mani che lo hanno pugnalato da vivo. Sembra la parabola di un moderno Gesù Cristo”, scrive il giornalista Mauro Di Gregorio sulla rivista online NanoPress. In questi giorni ricorre l'anniversario della strage di Capaci, il cosiddetto “attintatuni” – come amava chiamarlo Totò Riina – che pose fine all’esperienza umana e professionale del più qualificato magistrato antimafia che l’Italia abbia avuto. E allora giornali e telegiornali fanno a gara per commemorare le doti umane e professionali di questo servitore dello Stato che per la prima volta, dai tempi del prefetto Cesare Mori, turbò il sonno della più nota organizzazione criminale e di coloro che con essa erano collusi. Nessuna testata giornalistica o rete televisiva vuol mancare all’appuntamento dedicando servizi, trasmissioni e persino fiction all’argomento. Penne prestigiose, accademici, politici e uomini delle istituzioni non perdono occasione per rendere omaggio alla statura di quest’uomo e di additarlo come esempio alle giovani generazioni. Io però sono vecchio quanto basta per aver osservato quella vicenda, e al contempo non così rincitrullito da perderne la memoria. Ricordo anzi molto bene l’implacabile ostilità che incontrò sul suo percorso questo magistrato, direttamente proporzionale al suo successo. Talvolta aperta, talaltra subdola e sorda, a cominciare da quella agìta dai suoi colleghi magistrati d’ogni ordine e grado. E ovviamente anche tra i politici, dove s’annida il cosiddetto terzo livello. La prima cosa che veniva da pensare, osservando la vastità e la diffusione di quella ostilità, era il livello d’infiltrazione del malaffare nei gangli vitali dello Stato e, di pari passo, del corpo sociale. L’analogia che veniva alla mente era quella di un tumore che si estende silenziosamente finché la presenza e la pervasività delle metastasi si percepisce dai sintomi che prorompono improvvisamente su tutto il corpo.  Poi però s’intuiva che questa era una lettura semplificata, per quanto vera. Anche persone che godevano di prestigio morale salirono sul banco degli schernitori: cosa pensare di loro? Che fossero anch’essi sul libro paga delle cosche? Invece di molti altri che gettavano fango dall’anonimato della palude rimase il dubbio. Oggi d’alcuni di essi, politici, uomini delle istituzioni o anche solo penne prezzolate, si sa che erano immanicati con il malaffare. Ma di altri sempre oggi si capisce che ferirono e ostacolarono l’eroico magistrato per altri motivi: per invidia, per calcolo politico, per furore ideologico o anche solo per pigrizia intellettuale. Motivi comunque abietti. E oggi fa male ascoltare gli stessi uomini e leggere i medesimi giornali che allora spararono a zero contro l’uomo e il magistrato, insinuando, travisando e denigrando, oggi invece celebrarlo e glorificarlo senza un minimo d’autocritica “in between”, direbbero gl’inglesi. E allora devo dire che ho letto con piacere l’articolo di Di Gregorio che ho inalato come una ventata d’aria fresca, tra tanti altri discorsi pur veri ma ipocriti e di maniera. Concluderei questa mia breve riflessione con un’ultima considerazione. Coloro che ostacolarono Falcone, fino a eliminarlo fisicamente, perché mafiosi o collusi con la mafia suscitano in me meno amarezza di tutti gli altri che invece lo ferirono, lo criticarono, o semplicemente non lo sostennero, per invidia, per calcolo o per egoismo. E non mi riferisco solo ai personaggi famosi che ancora insegnano nelle università, che ricoprono incarichi istituzionali o che hanno fatto carriera nelle redazioni. No, mi riferisco pure agli anonimi cittadini, ai vicini di casa del giudice antimafia infastiditi dalle sirene della scorta e preoccupati d’essere coinvolti in possibili attentati. Sono proprio loro che "meritano" la morte di Falcone e sono giustamente privati della sua opera di pulizia radicale che se adeguatamente sostenuto egli avrebbe potuto compiere. Oggi i loro nipotini, accompagnati dagli insegnanti, visitano l’albero Falcone per appendervi le loro letterine. Spiace per questi poveri ragazzi costretti a vivere in un mondo che i loro padri non hanno contribuito a rendere migliore. Al contempo però consola il fatto che esistano ancora uomini e donne che hanno sete di giustizia e tentano di trasmettere sani valori alle nuove generazioni. Forse non riusciranno ad invertire la tendenza allo sfaldamento sociale che è sotto gli occhi di tutti, però conforta comunque il pensiero che il loro lavoro, almeno a livello individuale, possa un minimo contrastare tale processo.

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Mauro Di Gregorio
NanoPress, 16 maggio 2014

Paride Leporace
Words Social Forum, 25 maggio 2012


venerdì 7 dicembre 2012

Regalo di Natale

La decisione di Berlusconi di ridiscendere in campo, a parte i suoi stretti cortigiani, ha sorpreso molti, anche del suo partito. Di lui si sa che è assai capace a condurre le sfide elettorali, ma molte cose sono cambiate negli ultimi due anni e il buonsenso avrebbe dovuto suggerirgli di tenere un basso profilo in questa tornata. Certo gli interessi in gioco sono enormi. Parliamo di tanti quattrini e c’è anche la condanna penale appena subita, c’è il processo Ruby che va avanti. Ma per la prima volta egli sembra ignorare i sondaggi che hanno sempre diretto la sua politica populista. Telese lo paragona al Macbeth assediato nel castello, che “si avvita su se stesso e sulla sua storia ucciso dal paradosso… incapace di riconoscere la resa, reso folle dall’illusione di un prodigio che non si verifica”. Quando il buonsenso viene accantonato allora emerge l’irrazionale. Non necessariamente è la dignità del vecchio guerriero che preferisce attendere il destino con le armi in pugno. Può essere altro, molto più prosaico. Un gioco corale ove i mali di alcuni si rimestano con le colpe di molti. Suggerisco a proposito una riflessione molto illuminante tratta dal blog “Brutti Ceffi”, dal titolo Caduto un demagogo…, di cui riporto qualche stralcio:

«Scrive Stefano Folli su Il Sole 24 ore: “Diciamo la verità. Pochi personaggi politici negli ultimi decenni sono stati così detestati come Berlusconi, ma pochi sono stati così amati. Una vasta opinione pubblica ha fatto affidamento su di lui, lo ha spinto in alto, lo ha difeso spesso in modo acritico. In una parola, è rimasta stregata dalla sua personalità espansiva e dal suo ottimismo. Ha cercato di non vedere il lato oscuro della luna, l’altra faccia della medaglia; e l’incantesimo è durato nel tempo, molto più di quanto siano soliti durare gli incantesimi. Questo spiega la longevità politica di Berlusconi, insieme alla sua eccezionale capacità di organizzare le campagne elettorali e di vincerle anche quando tutto sembrava essere contro di lui. Ci si ricorderà di lui soprattutto come di un grande, incredibile combattente. Mai domo, in grado di rialzarsi sempre ogni volta che era al tappeto. Su questo punto concordano tutti, amici e nemici: un guerriero del genere sarà difficile rivederlo in futuro sui palcoscenici della politica”.

In realtà questa indomita pulsione a rialzarsi sempre ogni volta che si va al tappeto è tipica della personalità psicopatica. Più che all’immagine dell’indomito guerriero andrebbe piuttosto associata a quella del tossicodipendente. Una ricerca condotta da neuroscienziati della Vanderbilt University ha, infatti, identificato una correlazione tra i tratti di questa personalità e il sistema cerebrale della ricompensa. E precisamente una disfunzione nel circuito dopaminergico. In queste persone la pulsione verso la ricompensa, quale sicuramente è per loro il conseguimento e il mantenimento del potere, è così forte da soverchiare il senso del rischio e la preoccupazione per la punizione. Ma la gente queste cose non le sa e scambia questa debolezza per un’ammirevole virtù…

Le folle seguono poco i ragionamenti e sono colpite soprattutto da ciò che v’è di meraviglioso nelle cose. In fondo ingannarle è facile. In più è d’aiuto il basso livello culturale di molti italiani che si lasciano supinamente formare ai valori propinati da una tv narcotizzata e narcotizzante, che suggerisce un modello d’acquisizione basato sulle apparenze e sugli oggetti: il successo, la bellezza, il denaro, la villa, la Maserati, la barca, le vacanze esotiche. Questo vasto bacino d’aspiranti borghesucci un po’ cialtroni, a maggior ragione si lascia attrarre dall’imbonitore di turno se questo è un modello che ha fatto fortuna. “Chi meglio di me saprebbe dischiudervi la strada per la libertà e il successo?”…

Questo clima di complicità è dunque costruito intorno ad una relazione accogliente e familiare (la “casa delle libertà”) a difesa dallo Stato dei burocrati e delle gabelle. Il ruolo della famiglia consiste nel dare al bambino la sensazione di essere speciale. Analogamente il leader populista, soprattutto se psicopatico, è pienamente convinto di essere una persona speciale (cioè appartata e superiore), e a sua volta offre ai suoi seguaci, che in realtà disprezza perché egli non sa amare ma solo soggiogare, insieme al suo favore lo status di persone speciali. Questo richiamo nella casa del padre per molti che si sentono smarriti e disperati è irresistibile, offre loro una mitologia e una mistica. Hitler convinse la nazione tedesca d’essere un popolo superiore che avrebbe guidato i destini del mondo. Anche Mussolini cercò d’instillare nella nazione italica il mito della razza superiore e proibì ai suoi soldati in Africa di sposare le donne di colore. Ma anche concesse ai suoi fedeli posizioni, prebende e previdenze. Berlusconi, più prosaicamente, offre ai suoi seguaci il mito del successo. A loro è riservato un trattamento diverso perché sarà loro concesso di tendere verso l’ideale desiderato, se necessario, eludendo le leggi così come fa il loro condottiero. Di tanto in tanto, a mo’ d’indulgenza plenaria, sarà assicurata una sanatoria, un condono, una depenalizzazione, una prescrizione…

Ecco quindi cosa è successo. Abbiamo parlato di un popolo né onesto né libero (per riferirci alla pagina di diario della Morante). Un popolo che quasi novant’anni fa si consegnò a un “uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto” in quanto “perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo”. Abbiamo accennato alle dinamiche psicologiche e sociologiche che legano tra loro un popolo e un leader populista, alle premesse necessarie perché essi si scelgano. Abbiamo riflettuto sul fatto che il despota può conquistare il potere e mantenerlo solo se una maggioranza condivide i suoi stessi valori o, comunque, non ne sia offesa. Anche se è vero che nell’ascesa del leader populista v’è sempre una componente d’inganno e di seduzione, è anche vero che il consenso si crea solo se c’è una base comune d’interessi, se c’è un clima di complicità, se insieme non ci si identifica più in un sistema etico e nella carta costituzionale che ad esso fa riferimento…»

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sabato 18 febbraio 2012

Una stella di nome Whitney

Ricordo come fosse ieri quel giorno di 25 anni fa quando una giovanissima Whitney Houston, con voce potente e occhi da cerbiatta, incantò l’immensa platea dell’Ariston sulle note di All At Once. L’entusiasmo del pubblico era tale che il nostro Pippo nazionale dovette chiederle il bis. Fu la prima e l’ultima volta nella storia del Festival che si riservò tale onore ad un ospite internazionale; e lei, sorpresa e condiscendente, accettò di buon grado. Quell’atteggiamento umile mi colpì, mi fece pensare a quella massima dello scrittore Duclos: “La modestia é il solo splendore che si possa aggiungere alla gloria”. E di gloria (umanamente parlando) ce n’era già tanta. Whitney aveva debuttato appena due anni prima con un album eponimo dirompente che, con i 29 milioni di copie vendute, gli valse un Emmy, un Grammy e tantissimi altri premi; oltre a lasciarci alcuni titoli che resteranno nella storia del pop, tra cui quell’All At Once che tanto successo avrebbe riscosso a Sanremo. Mai l’album di una cantante esordiente aveva venduto tanto. Al contempo, però, aveva conservato la semplicità della ragazzina casa e chiesa che effettivamente era stata. Fin da bambina, dall’età di 6 anni, cantava nel coro della New Hope Baptist Church di Newark, la città dove era nata il 9 agosto del 1963, non lontano da Manhattan. E ad 11 anni era stata promossa voce solista del medesimo coro. All’età di 14 anni cominciò a cantare come voce di sostegno e di sottofondo per complessi e cantanti famosi, finché non incise il duetto Hold Me con Teddy Pendergrass che nel 1984 costituì la prima grande affermazione per la cantante. Da allora fu un crescendo inarrestabile di successi. Tutto quel che incide diventa oro e platino: persino l’inno nazionale americano raggiunge la top ten. Nel 1992 Whitney debutta al cinema con il film La guardia del corpo, recitato insieme a Kevin Costner. Il brano portante da lei cantato, I Will Always Love You, vende 42 milioni di copie in tutto il mondo, in assoluto la colonna sonora più venduta di tutti i tempi. Segue nel 1995 Waiting to Exhale e nel 1996 Uno sguardo dal Cielo al fianco di Denzel Washington. In quest’ultimo – che è un remake de La moglie del vescovo, una pellicola del 1947 con Cary Grant, Loretta Young e David Niven – Whitney interpreta il ruolo di Julia (che fu della Young), la moglie di Henry, un pastore metodista che preso dai mille problemi della comunità trascura un po’ la famiglia. In risposta alla preghiera d’aiuto di Henry viene inviato in loro soccorso l’angelo Dudley, di buon animo ma alquanto pasticcione, che inizialmente con la sua presenza complica le cose facendo invaghire di sé la trascurata Julia ma alla fine mettendo tutto a posto sia nella chiesa che nella famiglia di Henry. In occasione dell’uscita di questo film natalizio, la Houston confessò le sensazioni contrastanti che l’afferrarono quando le venne offerto il ruolo di Julia, dove le era richiesto sia di cantare che di recitare. Da un lato temeva di non essere all’altezza del compito, dall’altro le dava gioia l’idea di ritrovare sensazioni e atmosfere a lei familiari quando cantava nel coro della chiesa battista della sua città. Nel film, Julia, oltre ad essere la moglie del pastore, dirigeva il coro di chiesa, e a interpretare questo era stato scritturato il Coro della Georgia, cioè la corale gospel più famosa d’America. E a Whitney sembrò un sogno riuscire a mettere musiche così belle, che lei ben conosceva, in un film. “Ma Dio mi ha aiutata”, aveva concluso la cantante. Questo per dire del suo background.

Per questa ragione quando iniziò a frequentare il turbolento musicista Rhythm & Blues Bobby Brown, i parenti, gli amici e i supporter della cantante espressero apertamente la loro preoccupazione. Brown era noto alla giustizia per le sue intemperanze, aveva fama di uomo violento, e nonostante la sua giovane età aveva alle spalle una vita disordinata, aveva avuto tre figli da tre donne diverse. Il contrasto era stridente con l’immagine di ragazza pulita della Houston. Ma l’opposizione dei suoi sembrò solo confermarla nella sua determinazione e il 18 luglio 1992 i due si sposarono. E lei, quasi a sfidare la disapprovazione dei suoi, commentò: “La principessa sposa il ragazzaccio!”. Mentre, per mettere a tacere il giudizio negativo che suscitava quella relazione, rispose ai suoi fan: “Ma che ne sapete voi di come sono io dentro, se sono proprio ciò che voi pensate?”. In effetti non sappiamo molto neppure oggi com’era dentro allora quella ragazza, però sappiamo che quella data rappresentò per lei una vera svolta nella sua vita. Quasi subito apparve chiaro che qualcosa non andasse anche se, sul momento, si cercò di tenere nascosta la natura dei problemi. Comunque un po’ alla volta l’immagine della brava ragazza degli anni ’80 e i primi ’90 cominciò a svanire. Whitney cambiò nei suoi atteggiamenti e nei suoi comportamenti. Si presentava in ritardo agli appuntamenti e alle interviste, e all’ultimo momento cancellava concerti e apparizioni televisive. La vita di coppia procedeva ma tra molte turbolenze. Lui non smise di avere problemi con la legge: per molestie sessuali, per guida in stato di ebbrezza e lesioni. E quando lei in un’apparizione pubblica apparve con il volto tumefatto da un livido sulla guancia, fu evidente il suo comportamento violento anche tra le mura domestiche. Nel 2003 la polizia, chiamata mentre lui la picchiava, dovette usare la scossa elettrica per immobilizzarlo e poi arrestarlo. Ma per anni Whitney fu sempre pronta a coprirlo e a perdonarlo: era come se volessero scendere nell’abisso mano nella mano. Per via del suo evidente dimagrimento e della sua scarsa produttività, cominciò a spargersi la voce che lei e il marito facessero uso di droghe. Il suo viso appariva minato dagli eccessi, la sua bellissima voce rovinata. Poi arrivarono le conferme. Tante. Finché la cognata, Tina Brown, non diffuse le foto scattate nel bagno della diva dove tra un incredibile disordine si distinguevano chiaramente pipe per fumare la droga, cartine, cucchiai, attrezzi vari e la classica polvere bianca. Whitney faceva uso quotidiano e compulsivo di stupefacenti, per i quali avrebbe speso negli ultimi dieci anni oltre cento milioni di dollari, rovinandosi la salute e finendo sul lastrico. Nonostante i percorsi terapeutici di riabilitazione, non riuscirà mai a venirne fuori. Nel 2006, dopo 14 anni di devastante matrimonio, dopo innumerevoli scandali, tradimenti, arresti per droga, alcol e violenze la Houston decise di lasciare Bobby Brown e l’anno seguente divorziarono. Daria Bignardi commenta: “Lei, evidentemente è bellissima e bravissima ma non intelligentissima perché ci mette una vita a lasciarlo”.

Whitney Houston cerca di reagire e di risalire la china. Torna alla musica con l’aiuto del discografico e amico di sempre, Clive Davis. Si esibisce in concerto, presenzia ai premi, prepara nuove compilation. Ma il fisico è minato, la voce compromessa, lo spirito intristito. Le sue esibizioni non convincono. La separazione dal marito non l’ha rafforzata ma resa ancora più insicura e fragile. Le cure riabilitative per vincere la droga si alternano alle ricadute. I suoi tentativi di tirarsi fuori dal baratro rimangono di fatto solo tentativi. Finché l’11 febbraio, all’età di 48 anni, viene trovata agonizzante nel bagno della camera d’albergo dove si trovava per prender parte ad una serata a margine dei Grammy Awards; annegata nella vasca dopo essere svenuta a causa d’un cocktail di farmaci e alcol. Il giornalista Domenico Naso, nel sintetizzare la parabola di quest’artista sfortunata, osserva amaramente: “Artisticamente Whitney Houston è morta nel 2009, fallendo l’ultima occasione. Fisicamente è morta ieri, al Beverly Hilton di Los Angeles. Emotivamente è morta tanti anni fa, quando la ragazza che cantava indipendenza, forza di volontà e carattere si è arresa al suo lato fragile. Le parole che si usano quando scompare una star di questo calibro sono giocoforza banali e retoriche. Ma alzi la mano chi può sostenere, obiettivamente e in buona fede, che la voce di Whitney Houston non sia stata davvero una delle più belle della storia della musica pop. Ma il talento non è bastato, e come per milioni di altre donne del pianeta, un pessimo matrimonio ha vinto su tutto il resto. Perché nessun Grammy potrà mai salvarci dalle miserie umane e dalle loro devastanti conseguenze”.

Com’era logico attendersi, la fine dell’avventura terrena di questa donna famosa e sfortunata, ha offerto a molti spunto di riflessione. Sulla base di quella che è la filosofia di vita e la sensibilità di ciascuno cambiano anche le parole con cui si commenta quest’evento. Ci sono gl’innocentisti e i colpevolisti. Ci sono quelli che invitano a ricordarla per i suoi meriti d’artista, di dolersi per la fine prematura di chi avrebbe potuto ancora dare molto, senza star lì a scandagliare sul perché e sul per come sia successo e su di chi sia la colpa. Per alcuni addirittura il talento assolve da qualsiasi colpa o assurge esso stesso a valore etico preminente. I più si scagliano contro la figura del marito, Bobby Brown, ritenuto persona corrotta, sregolata, immorale, viziosa, manipolatrice, senza talento e invidiosa dei successi della moglie: la vera e unica causa della sua rovina, il diretto responsabile della sua morte. “È molto triste – afferma un fan della cantante – che lei sia morta mentre lui sia ancora vivo e vegeto”. “Che spreco, che tristezza”, gli fa eco un altro fan. Altri, al contrario, puntano il dito su di lei. La Houston sapeva chi stava per sposare nel 1992, e lo fece snobbando i consigli di chi le voleva bene. Che è troppo facile cercare sempre negli altri il capro espiatorio. Che comunque lui non la teneva legata in cantina e lei, volendo, poteva lasciarlo anche subito, aveva i mezzi per pagarsi un avvocato e non dipendeva economicamente da lui. Alcuni si concentrano sugli effetti del legame matrimoniale, o trovando banale e persino umiliante il pensiero che milioni di donne, per quanto capaci e intelligenti, non siano responsabili del loro destino davanti ad un matrimonio sbagliato che vincerebbe sempre su tutto il resto. Oppure, al contrario, chiedendosi come sarebbe oggi Whitney Houston se avesse avuto al suo fianco un marito normale. “Bastava solo incontrare, anziché un marito che la riempiva di mazzate e la umiliava ripetutamente, una vera guardia del corpo che si innamorasse di lei e che la custodisse tra le due braccia”, scrive Antonellina.

Ed altri perciò si concentrano sulla dipendenza psicologica di lei da lui. “Il killer della Houston – afferma una lettrice – è la sua stessa fragilità, non il marito, per spregevole che possa essere… parliamo di persone irrisolte e profondamente infelici che si fanno del male facendosi fare del male”. Quindi la Houston persona fragile che si è lasciata soggiogare dall’uomo sbagliato. “È chiaro che ci vuole un’intrinseca debolezza di carattere per lasciare che qualcuno ti trasformi da una star bella e di incredibile successo in una fumatrice di crack, distrutta e senza più voce”, aggiunge un’altra lettrice. C’è chi fa notare che la stessa Houston, in una celebre intervista a Oprah Winfrey, nel 2009, lasciò intendere che la propria dipendenza dalla droga fu la conseguenza di una dipendenza, ancora più a monte, dall’ex marito. “Un uomo geloso, instabile e abusivo con cui fumavo marijuana mista a crack. Lui era la mia droga, con lui ero debole e succube, come soggiogata. L’alto prezzo dell’amore cieco”. Un lettore richiama proprio la propensione a dipendere da altre persone che, in carenza di certi riferimenti, può innescare un meccanismo perverso che spinge verso altre dipendenze e avvita in una spirale inarrestabile di autolesionismo. Fa poi riferimento ad un saggio pubblicato nel 2008 e intitolato Why Good Women Stay With Bad Men, dove l’autrice, la psicologa Pat Allen, ha esplorato il fenomeno, secondo lei diffuso, delle donne “belle, brave e intelligenti, irresistibilmente attratte da uomini terribili che finiscono per distruggerle”. Termina poi con una considerazione personale: “Personalmente ho conosciuto tante donne ‘distrutte’ da un uomo cattivo, che le ha assoggettate a comportamenti e umiliazioni che la loro intelligenza non avrebbe mai dovuto tollerare e dal quale non hanno saputo difendersi in tempo. Non parlo solo di droga, ma anche di carriere naufragate, interruzioni della gravidanza non volute, violenze fisiche e psicologiche e ostentate infedeltà”. In diversi convengono sul fatto che le donne siano attratte dai “bad boys”, più di quanto gli uomini lo siano dalle “femmes fatale”. “Uno dei vostri lati oscuri con cui non avrete mai voglia di misurarvi”. La lettrice Maria Elena aggiunge che negli Stati Uniti, soprattutto tra le donne di colore, l’attrazione per i ragazzacci è anche un fatto culturale: “Le donne di colore amano i bad boys. Provate a guardare i video dei cantanti di colore americani, specie se rapper. Vi pare che raffigurino dei rapporti uomo-donna equilibrati? Sembra di essere tornati all’età della pietra: l’uomo ricco, col macchinone e 20 ragazze attorno. Se in un paese fanatico del politically correct e dell’uguaglianza dei sessi come gli USA video del genere sono quello che serve per far vendere il prodotto cantante/canzone, significa che quello rappresenta un modello di relazione che viene non solo accettato ma anche apprezzato. Non è razzismo, è un dato di fatto”. “Tina Turner, Whitney, Rihanna: le donne di colore amano i bad boys… – le fa eco un’altra lettrice – è una situazione riconosciuta. Posso testimoniarlo: una mia conoscente afferma che il suo uomo dovrà essere un po’ bastardo, sennò non le va bene”. “È un fatto di ‘radar sentimentale’ – afferma qualcuno – tarato su certi parametri di compagno/compagna da trovare. Quando incontriamo un potenziale partner lo esaminiamo a fondo e lo confrontiamo con il nostro modello ideale. Ma anche gli attribuiamo qualità che non esistono se non nella nostra mente, nelle nostre fantasie che possono essere costruite in modo distorto. Così quando una donna si mette con un mascalzone, con il “Bobby Brown” di turno, il vero problema non sta nel mascalzone ma nel proprio ‘radar’ che ha bisogno di una robusta revisione”. “Poi è chiaro – aggiunge una lettrice – che esistono uomini bravissimi a manipolare e donne altrettanto brave a lasciare scoperto un punto debole su cui questi uomini lavorano per portarle alla completa dipendenza mentale. Noi donne, in generale, dovremmo imparare ad amarci e a renderci conto del nostro valore, smettere di attribuire ad altri la riuscita o meno della nostra vita, la scoperta della nostra felicità”. E un’altra le fa eco: “La più grande rivoluzione per le donne sarebbe non rinunciare mai a se stesse in nome di un grande amore. Quand’esso ti distrugge e ti chiede di rinunciare alla tua personalità, quello non è vero amore”.

Altri, infine, pur non escludendo tutto il resto, mettono in dubbio le qualità umane, morali e spirituali della cantante. “La Houston aveva probabilmente già in sé una tendenza all’autodistruzione innescata fatalmente dalla sua attrazione verso Bobby Brown, che era già drogato e ‘fuori di testa’ prima di mettersi insieme alla cantante (che quindi, come spesso capita in queste situazioni, era cosciente dei suoi limiti morali e caratteriali ancor prima di sposarlo)”. “Le ragioni della distruzione di Whitney andavano cercate dentro la stessa Whitney. I demoni che albergano dentro il marito potevano trovarsi anche dentro di lei. Non importa quanto angelico potesse essere il suo volto”. “Lei ha ammesso più volte di non avere fatto niente che non volesse fare, e che lei stessa era la sua peggior nemica. Non solo: conoscenze americane mi dicono che beveva e fumava già prima d’incontrare lui. Tra l’altro, quando si sono conosciuti lui aveva 19 anni e lei 26”. Il riferimento qui è a un’intervista che la Houston rilasciò nel 2002: “Nessuno mi fa fare qualcosa che non voglio fare. È una mia decisione. Quindi il mio più grande diavolo sono io. Sono il mio miglior amico o il mio peggior nemico”. Ancora altri commenti: “Bella voce, bella donna, ricca sfondata che muore secondo banali cliché. Come da copione. Se avesse vissuto più modestamente forse sarebbe vissuta cent'anni, senza drogarsi e senza cadere in depressione. La colpa non è di nessuno: è lei che si è scelta quella vita ed è finita come di solito finisce chi sceglie quel tipo di vita. Non mi suscita niente se non umana pietà!”. “Apprezzo la bellezza del politically correct ogni volta che muore qualche VIP: un minuto dopo l'annuncio della prematura scomparsa tutti amici del caro estinto, tutti pronti a dimenticare il suo passato e a celebrarne il mito (soprattutto i discografici visto che certi artisti vendono più da morti che da vivi, vedi Michael Jackson). Così adesso la Houston, come la Winehouse prima di lei, non è più una tossica ubriacona da boicottare e dimenticare (come era fino ad un minuto dopo la sua morte), ma una grandissima artista da ricordare e celebrare per un annetto almeno, con tanto di ‘I will always love you’ in loop perenne su ogni radio e servizio strappalacrime del telegiornale, e a breve Platinum collection (probabilmente già in questo momento il suo discografico sarà in riunione coi creativi per decidere il design della copertina ed i contenuti del package) da comprare obbligatoriamente pena venir bollati come cinici ed infami...”. “Mi può dispiacere per lei perche indubbiamente era una gran voce... per il resto... pieni di soldi, di droga, di depressione... boh? perché se ne parla? solo perché era una cantante? A me di chi nella vita ha avuto tutto e getta la propria vita nel gabinetto non me ne frega nulla... I tempi sono molto cambiati…”. Ma la durezza di quest’ultimo commento suscita l’indignazione di un altro lettore: “Beh, cinismo allo stato puro! Cosa vuol dire che i tempi sono cambiati? Che perché viviamo in un momento difficile non ci si può neanche più commuovere per la morte di una persona? Pensiero devastante, vergogna!!”. Ma un altro risponde: “Commuovere per chi? Questa ‘cantante’ era impresentabile. Bella voce? Solo un fenomeno commerciale. Fanatica religiosa di giorno (con tanto di dichiarazioni megalomani sul suo rapporto speciale con Dio) e cocainomane incallita di notte. Un’ipocrita totale. E uno deve leggersi tutto ‘sto incensare su questo simbolo della volgarità solo perché è morta? Ma allora la morte diventa uno strumento di riabilitazione per tutti, cani e porci compresi?”

Avviandoci alla conclusione, riporto per intero data la sua brevità la lettera che il blogger Gianni Toffali ha inviato a Giornalettismo: “Anche Whitney Houston se n’è andata. La strage prodotta volenti o nolenti dal cosiddetto star system, non sembra avere crisi. Poco prima di lei erano passati a migliore vita (ammesso che nell’aldilà Dio abbia avuto pietà della loro anima) Amy Winehouse e Michael Jackson. Se si dovesse stilare un elenco degli artisti estinti in virtù del classico stile di vita di una star, non basterebbe un libro. Luigi Tenco, Mia Martini, Kurt Cobain, Jim Morrison, Elvis Presley, Sid Vicious, Brian Jones, Andy Gibb, Kurt Cobain, Jimi Hendrix, Freddie Mercury, Stevie Ray Vaughan, e George Harrison, sono solo i più noti. Morti per droga, alcol o suicidio, gli uomini di spettacolo ‘finiti tragicamente’, costituiscono la prova vivente che la notorietà, la ricchezza, il potere e il successo non riescono a saziare la sete di verità, amore e infinito che alberga nell’anima degli esseri umani. Verità, amore e infinito che non possono essere raggiunti soddisfacendo il portafoglio e il basso ventre, ma curando il rapporto con il trascendente. Ecco il motivo per cui le statistiche hanno appurato che la categoria più colpita dal male di vivere, oltre ai succitati artisti, è quella degli atei e degli agnostici. Se si continuerà a pensare come fanno gli illusi ebbri di materialità e carnalità, vale a dire che la spazzatura offerta dal mondo possa dare un senso all’esistenza umana, prepariamoci ad una società di depressi e suicidi”.

Che dire? Questa è una storia emblematica di come gli uomini creino i loro miti e al contempo li distruggano. Di quanto effimeri e superficiali siano i valori di questo mondo e quanto mal costruita la scala delle nostre priorità. Da questo punto di vista condivido la riflessione di Toffali presa nel suo complesso, per quanto il tono non paia riflettere la misericordia di Dio che accompagna sempre la sua esigenza di giustizia (Egli ha sempre pietà delle sue creature, sia in questo mondo che in quello a venire). Per la medesima ragione, partendo da una corretta analisi d’insieme non possiamo restringere il campo fino a giudicare la vita di una specifica persona. Certo, è giusto e opportuno che ognuno abbia la possibilità di riflettere sulla singola vicenda umana, perché ci sia d’esempio o di monito. D’altronde se abbiamo voluto soffermarci sull’esposizione dei fatti e sui commenti di tanti è proprio per fornire una serie di elementi utili alla riflessione. Ma da qui a puntare il dito per stabilire il percorso interiore e per sentenziare sul destino eterno di una persona ce ne corre! Per fortuna nostra Dio non vede le cose con i nostri occhi e non ci definisce con gli stessi appellativi (ad es. “tossica ubriacona”) con cui noi sbrigativamente siamo portati a liquidare gli altri, sennò chi si salverebbe? “A chi è stato dato molto sarà richiesto molto” (Lc 12:48), affermò Gesù a conclusione della parabola sulla vigilanza e la responsabilità. E da un punto di vista umano sembra che Whitney abbia ricevuto tanto: voce, bellezza, fama e denaro. Una sorta di segnata predestinazione, circondata da numi tutelari del calibro della cugina Dionne Warwick, della madrina Aretha Franklin e della stessa madre Cissy Houston, grande cantante di gospel e voce nota della tradizione black. Certamente tutto ciò che abbiamo è utile nella misura in cui ne facciamo buon uso, ma è sicuro che voce e bellezza siano tra i doni più importanti nella scala dei valori di Dio? È certo che finire nell’ingranaggio dello star system sia un dono del Cielo? La cosa che più colpì della giovanissima Whitney, quando fu ospite a Sanremo nell'86, fu la tristezza del suo sguardo: forse già allora stava lottando contro i suoi tormenti personali. Perché quindi non guardiamo i fatti nella loro cruda realtà? Di una ragazzina che iniziò a cantare nel coro di chiesa ma che per anni frequentava i locali notturni dove cantava la madre e che spesso saliva sul palco ad esibirsi con lei? Di una famiglia soffocante. Di un padre dispotico che alla fine divorziò dalla madre e giunse a far causa alla figlia per estorcerle 100 milioni di dollari? Tutto questo si può considerare un vantaggio? Non è tutt’oro quel che luccica. Perché allora stupirsi se con il proprio matrimonio ha in qualche modo riprodotto l’unica relazione che conosceva? Certo quando lei venne fuori con quella dichiarazione insolente, sul fatto che avrebbe sposato il bad boy Bobby Brown perché anche lei era una bad girl, mi sono rattristato perché ho immaginato i guai in cui si stava cacciando. Anche se nessuno poteva allora prevedere la reale portata di quei guai. Comunque, al contrario di tanti altri che spendono l’intera esistenza per far del male al prossimo, lei ha soprattutto fatto del male a se stessa. E l’ha pagata cara quella scelta. “Non ne ero contenta, stavo perdendo me stessa”, confessò a Oprah Winfrey nel 2009. Non si può conoscere il percorso interiore e il dolore che ha dentro una persona, soprattutto quando si avvita in una spirale autodistruttiva e pur cercando di venirne fuori non ci riesce. In quelle condizioni si è tutt’altro che liberi. “Nessuno mi fa fare qualcosa che non voglio fare”, affermava nel 2002, intervistata da Diane Sawyer. Ma allora si schermiva per nascondere agli altri il suo dramma. Il mondo dello spettacolo è crudele: non poteva più interpretare il ruolo della brava ragazza e al contempo l’aura maledetta non le si addiceva e non le portava il consenso. Le avevano creato un’immagine troppo elevata perché cadendo non si facesse male. Sì, è vero, se ne è andata ripetendo lo stesso cliché di tante altre leggende della musica prima di lei: sola, in una stanza d’albergo, stroncata dagli abusi. Ma ogni soffio che ritorna al Creatore, per quanto simile a tanti, fa storia a sé. Possiamo trarre monito da un percorso ma non possiamo giudicare un destino. Il suo libro è stato chiuso perché era stata trovata mancante o per “sottrarla ai mali che vengono” (Is 57:1)? Come ha scritto qualcuno, la morte l’ha strappata a un futuro incerto, fatto di povertà e di dipendenze. C’è un unico Salvatore e un’unica grazia, ma ogni salvataggio è diverso dagli altri: ci sono quelli che fanno le scelte giuste e “le loro opere li seguono” (Ap 14:10) e c’è chi pur avendo fatto scelte sbagliate nell’imperscrutabile disegno di Dio viene ritenuto idoneo alla salvezza sia pure come “un tizzone strappato dal fuoco” (Zacc 3:2). Il vero destino di ognuno sarà conosciuto solo nell’ultimo giorno e allora ci saranno tante sorprese, in un senso e nell’altro. Attenti quindi a puntare il dito! A me piace ricordare Whitney da bambina quando tutte le domeniche alle nove si recava in chiesa e ci rimaneva fino alla sera. “Giocavamo, cucinavamo per i poveri, cantavamo…”, ricorderà con nostalgia. Ma anche alcuni giorni fa, quando lei e Bobby hanno portato fuori a cena la figlia Kristina, e in quei momenti è stata vista serena. Non prova nulla, ma il Cielo suole carezzare le sue creature quando le chiama al riposo.

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domenica 23 ottobre 2011

Strane rondini sulle primavere arabe

Svolazzano come avvoltoi e raggelano l’aria come certe mattine di fine autunno. E di avvoltoi e di iene ne stiamo osservando parecchi in questi giorni attratti dall’odore di sangue misto a petrolio. La cattura e il linciaggio di Gheddafi, il tiranno del popolo libico, occupa le prime pagine dei giornali altrimenti distratti dalla crisi finanziaria che incombe sul mondo occidentale. Quelle immagini crude, rese ancor più concitate dalle riprese malferme dei cellulari, vengono continuamente riproposte come la coazione a ripetere di un evento ove il sacro incontra il profano, ove banalizzando ciò che è solenne forse in qualche modo si cerca di esorcizzare quello che appare il destino non solo dell’uomo-Gheddafi ma dell’uomo in quanto uomo, del suo incerto futuro. E allora le risate concitate attorno alla preda turbano come il latrato delle iene nella notte, foriero di accadimenti tutt’altro che rassicuranti.

Si sta anche scrivendo di tutto sull’argomento. Tra le riflessioni che ho più apprezzato per la loro capacità di sintesi c’è il post di Massimo Gramellini dal titolo “Gloria Mundi”, pubblicato sulla Stampa di due giorni fa. Scrive Gramellini nel suo primo capoverso: “Non c’è mai nulla di glorioso nell’esecuzione di un tiranno. La vendetta resta una pulsione orribile anche quando si gonfia di ragioni. Ci vogliono Sofocle e Shakespeare, non gli scatti sfocati di un telefonino, per sublimarla in catarsi. Gli sputi, i calci e gli oltraggi a una vittima inerme - sia essa Gesù o Gheddafi - degradano chi li compie a un rango subumano”.

Gramellini poi prosegue magnificando la grandezza, la coerenza e la sensibilità dei nostri governanti che pocanzi baciavano la mano al beduino della Sirte e lo definivano “un grande alleato dell’Italia”, e adesso di fronte al suo corpo morente, trascinato sull’asfalto, ridotto in un cencio sporco di sangue, si complimentano con i vincitori e si abbandonano in esternazioni tipo: “Dobbiamo gioire” o “Una grande vittoria del popolo libico”.

Un sodalizio basato sui valori quello tra i nuovi padroni dei pozzi e i loro clienti, davvero incoraggiante per il nostro futuro. I commenti dei lettori, di fronte all’evento straordinario e solenne, colgono in qualche modo la condizione dell’uomo incastrato in mezzo al guado. Della bestia famelica che aspira alla condizione angelica ma l’unica evoluzione che riesce a compiere è quella tecnologica. Prima le sue battute di caccia le incideva sulle rupi, adesso le fissa con i telefonini ma la sua natura è rimasta quella dell’assassino e del predatore spietato e infingardo.

C’è chi si sforza di comprendere la reazione della folla (“Mi aiuto pensando a quello che hanno fatto loro, per anni e anni, ad altre persone uomini, donne, vecchi, bambini”). Ce persino chi giustifica pienamente il comportamento di un popolo che si libera del tiranno (“Beh io invece sono contenta per la fine che ha fatto. Anche se avrei preferito una morte peggiore, più atroce e lenta. perché sono una mamma anch'io e non posso non ricordare le vittime che ha mietuto senza pietà. Le sue parole, Gramellini, sono proprio penose. Si vergogni”).

Ma un buon numero di lettori, invece, coglie il brutto segnale che lancia chi combatte la tirannia usando i suoi stessi metodi. Pur essendo doveroso ricordare le vittime del dittatore, e i parenti delle vittime che tanto dolore hanno provato sulla loro pelle, è ancor più doveroso per chi spera in un’umanità più “umana” distinguersi dal tiranno. Gheddafi non andava trucidato ma processato e messo in prigione a vita. “Noi dobbiamo essere DIVERSI controllando i nostri istinti più feroci. Come possiamo pretendere di essere autorevoli e dimostrare che esiste un altro modo di essere uomini, più alto e meno vicino alla bestialità, se non ci distinguiamo dai carnefici?”. “Come al solito manca quel sentimento per i vinti che si chiama pietas che dovrebbe differenziarci dalle bestie!”. “Non è mai vittoria la violenza che vince sulla violenza!”. “Chi uccide non è mai un vincitore ma una vittima egli stesso”. “Che moralità è quella di chi, per la ragione più giusta, pesta e ammazza un uomo inerte? Come si può esaltare la vittoria del bene sul male quando questa avviene per mezzo della violenza?”. “È agghiacciante il binomio festa/uccisione. Legittima il sospetto che un piccolo dittatore violento alberghi anche in noi”. “Alla fine non c'è differenza tra tiranni e tiranneggiati: la differenza la farebbe il diverso comportamento di chi è stato vessato e perseguitato… invece quando i ruoli si invertono il perseguitato si comporta come il peggiore dei tiranni. Forse siamo tutti uguali: non è la ragione che ci guida ma sono le circostanze”.

C’è persino chi per questa violenza generalizzata, che emerge sempre uguale a se stessa, s’interroga sul destino non solo del singolo, o anche d’un popolo, ma dell’intero genere umano. “La storia è fatta di cicli, anche il nostro sta per concludersi, non abbiamo imparato nulla e siamo rimasti le bestie di uomini che eravamo, altro che esportare la democrazia”. Qualcuno vede una luce solo in un remoto futuro. “La violenza è parte del patrimonio genetico dell'essere umano e ci vorranno secoli se non millenni per ridurla, tramite la cultura, a livelli bassi”. Come dire: se l’evoluzione è solo migliorativa, alla luce di un presente che sembra negare quest’evoluzione, non resta che spostare in un futuro sempre più lontano l’attesa di quest’ipotetico evento migliorativo. Ma altri temono che l’umanità non farà in tempo ad assistere all’improbabile accidente evolutivo che estirpi dal codice genetico i nostri istinti più bestiali. “Ormai tutto il mondo è in rivolta, una feroce ribellione senza fine, senza vinti e vincitori. Negli uomini del 21° secolo emerge l’istinto bestiale di uccidere e godere uccidendo, istinto che credevamo ormai domato dalla civiltà e dalla cultura. Invece no, purtroppo. Che sia questa la vera fine del mondo? Non terremoti, vulcani e altre calamità naturali, bensì l’uomo che uccide se stesso?”.

Non mancano poi quelli che la buttano in politica, che si soffermano sull’atteggiamento vile, opportunistico e cinico dei nostri governanti. “Mai articolo è stato così denso come questo. Bravissimo per aver dipinto uno stato, quello italiano, dalla morale incerta, dal senso di pudore di una sfatta baldracca e dalla civiltà perduta. Questa è l'ennesima dimostrazione che buona parte degli italiani, quelli che ora festeggiano la morte di Gheddafi, non solo è inaffidabile, ma dimostra il prezzo della sua codardia”. “Davvero ancora una volta questi politicanti dal mediocre profilo etico hanno perso una preziosa occasione per dimostrare di possedere un briciolo di umanità in più e un po’ di ipocrisia e di cinismo in meno. Ancor più alla luce delle loro recenti frequentazioni con il Rais. Che tristezza...”

Ma anche il giudizio sui governanti altrui non è meno critico. Costoro più attenti dei nostri a esternare ma nei fatti non meno cinici. “Ma tu guarda: questa guerra è stata combattuta per il petrolio! Meno male che me l’hanno detto…. Altrimenti avrei continuato a pensare che fosse per motivi umanitari, per esportare un po’ di democrazia. Tanto da noi se ne produce parecchia!”. La stessa eliminazione del rais insieme ai suoi scomodi segreti viene sospettata come pilotata dall’alto. “Troppo comodo ucciderlo, troppi segreti spazzati via con la sua morte”. “Il Rais alla sbarra sarebbe stato assai “imbarazzante” per europei e americani e viceversa molto illuminante per la Storia”. “Arrivati alla fine, i dittatori fanno più “comodo” morti che processati. A tanti conviene più Gheddafi morto con i suoi segreti, che non Gheddafi sotto processo pronto a parlare per aver clemenza: conviene a molti governi, con cui il Rais ha intrallazzato non sempre alla luce del sole”. “Non è proprio vero che all'estero siano così più "sensibili" di noi… e basta con questa esterofilia così italianeggiante… La primavera araba è cominciata e continua sotto i peggiori auspici”.

E qui, lasciati i governanti senza valori che implicano società senza valori solo superficialmente libere e democratiche, passiamo al timore molto diffuso che anche queste cosiddette primavere arabe di primavera abbiano ben poco. C’è chi osserva l’evento dalla prospettiva cinica (definita, con termine neutro, “realismo politico”) che è propria della cultura dominante. “Gheddafi era quello che era, ma in ogni caso fungeva da argine contro i fondamentalisti islamici. La stupidità di Obama, degli Inglesi e dei Francesi ha aiutato gli oppositori Tunisini ed Egiziani. Con la caduta di Ben Alì, di Mubarak e Gheddafi, si è regalato tre stati chiave ai fondamentalisti. Abbiamo perso degli alleati e guadagnato dei nemici. L'idiozia umana non ha limiti”. Ma, cinismo a parte, è comprensibile la preoccupazione di chi si chiede dove condurrà questo moto di ribellione contro le dittature laiche che hanno fatto comodo ai governi occidentali ma che hanno anche impedito che questi popoli cadessero sotto il giogo medievale di ancor più opprimenti dittature confessionali. Abbiamo guardato con simpatia a questi giovani “indignados” dell’altra sponda che usavano Twitter e Facebook per rivendicare il loro diritto alla libertà, ma quei popoli non son fatti solo di giovani e non tutti i giovani hanno ben presente che la libertà è tale quando include quella altrui. L’emancipazione delle donne, la libertà di pensarla diversamente, di professare un’altra fede (o di non professarne alcuna) e di farne propaganda sono proprio concetti ardui da afferrare presso le società islamiche. Nella “laica” Tunisia vigeva il reato di apostasia e chi andava in giro con una Bibbia in borsa rischiava l’arresto. Persino nella Turchia di Atatürk, non dico di Erdogan, era praticamente impossibile fare proselitismo. Il recente massacro di cristiani copti in Egitto è davvero un cattivo segnale. In Tunisia il partito che si appresta a vincere l’elezione dell’assemblea costituente è l’Ennahda islamico. I suoi esponenti dicono d’ispirarsi a quello moderato di Turchia, l’Akp, ma stando ad altre loro dichiarazioni c’è poco da essere ottimisti sulla nuova costituzione che uscirà da quell’assemblea. E tornando alla Libia, pensando al modo sbrigativo in cui si eliminano i nemici di oggi c’è da preoccuparsi sul trattamento che sarà riservato agli avversari di domani. “Che paese verrà fuori da inizi così selvaggi?”, si chiede un lettore. Un altro osserva: “Io prima di cantare vittoria, aspetterei di vedere come si svilupperà la futura Libia. Speriamo in bene. Ma attenzione al fondamentalismo, che ha impiegato molti uomini in questa guerra: chiederà la sua parte. A vedere le esecuzioni senza processo, qualche dubbio sul futuro democratico di quel paese è legittimo. Solo il tempo dirà chi era il Rais, e chi saranno i suoi successori”. Analogamente un altro afferma: “Fa impressione l'esultanza di un popolo che per 42 anni lo ha appoggiato ed osannato. C'è il conformismo, c'è la paura del momento, c'è il legittimo risentimento di alcuni per una oppressione durata troppo a lungo. Ma lo strèpito attuale non deve far dimenticare il silenzio dei molti che in Libia non festeggiano. La prospettiva di una Libia in mano a fanatici islamici non è irrealistica”. Poco rassicuranti a tal proposito sono le dichiarazioni di Mustafa Abdel Jalil, presidente del Consiglio Nazionale di Transizione libico, sulla volontà di fare della sharia la fonte del diritto della nazione che sta nascendo. “Ogni norma che contraddica i principi dell’islam non avrà più valore”, ha rincarato il medesimo. E questa seconda dichiarazione è ancora più inquietante, perché in qualche modo tutte le società musulmane si ispirano alla sharia (cioè alla Legge di Dio che ha come fonte il Corano e la Sunna) però non tutte le legislazioni nazionali accettano di farne una sorta di costituzione insindacabile. Quando ciò avviene abbiamo lo stato confessionale che per definizione è antidemocratico in quanto trae la sua legittimazione da "Dio" anziché dal popolo, con tutte le conseguenze possibili e immaginabili sul pluralismo e sul rispetto delle libertà individuali.

Quel che sta accadendo in Nordafrica e in Medio Oriente merita la massima attenzione perché si prospetta come un avvenimento epocale; una sorta di spartiacque con il passato così come fu la caduta del muro di Berlino. Porterà libertà o maggiore oppressione per quei popoli? In qualche modo hanno ragione coloro che sostengono che la democrazia non è un bene esportabile, tout court? Anche se spesso, come ben sappiamo, questa affermazione serve a giustificare il cinismo e la rapacità dei cosiddetti paesi sviluppati; o, al contrario, posizioni puramente ideologiche in funzione antioccidentale. D’altronde se consideriamo il disprezzo che noi stessi sembriamo riservare alle libertà democratiche, nonostante il prezzo con cui esse siano state conquistate, come non temere per la loro affermazione in contesti culturalmente a loro lontani? Eppure quel che accade lì ci riguarda molto da vicino. E purtroppo, per gli attriti che potrà sprigionare, riguarda anche gli interessi delle nuove potenze asiatiche emergenti. Si prospetta pertanto, sulla base dei prossimi sviluppi, un rimescolamento di accordi e alleanze, complicate dalla presenza dello stato d’Israele e del conflitto irrisolto con le popolazioni arabe confinanti. Affronteremo questo tema in una prossima riflessione.

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domenica 9 gennaio 2011

Concezione americana della decenza

Le gambette nella foto, tenute insieme da una catena per detenuti pericolosi e coperte da un paio di pantaloni abbondanti, sono quelle di Joseph McVay, un bambino di 10 anni che ha ucciso la madre con una fucilata alla testa. Per ragioni futili, a quanto pare: questa gli avrebbe chiesto di andare a raccogliere la legna da ardere. Joseph non è nuovo a scatti d’ira. Nel 2007 aveva colpito il direttore della scuola elementare con una paletta e per questo motivo era stato trasferito in un istituto per minori con problemi di comportamento. Anche se i vicini non lo descrivono come un bambino cattivo ci si chiede come sia possibile avergli lasciato la disponibilità di un’arma. Più d’una, in realtà. Nella sua cameretta, infatti, la polizia ha trovato, oltre all’arma del delitto, un fucile da caccia calibro 12 e, in una rastrelliera appesa alla parete, altre due carabine calibro 22. Peraltro la carabina con cui Joseph ha ucciso la madre gli era stata donata dal nonno, oggi defunto. Deborah, la madre, non era una persona eccentrica. Il figlio maggiore l’ha definita una donna molto affettuosa; come lavoro gestiva un centro d’assistenza sanitaria e insegnava a bambini disabili. E allora? Cosa non ha funzionato?

La sensazione è che sia proprio l’America che non funzioni. Essa fa dei suoi cittadini dei mostri e poi li distrugge. Con tutte le incongruenze di cui gli uomini sono capaci. Lì per farsi una birra ci vogliono 21 anni ma le armi si possono detenere liberamente. Ormai avviene così spesso che non fa più notizia; un ragazzino entra in classe e spara ai compagni e agli insegnanti. Subito viene mobilitata una squadra di psicologi per curare i traumi alle persone coinvolte ma a rivedere le leggi sul libero acquisto e la detenzione delle armi neanche a parlarne. C’è chi ci ha provato ma subito viene messo a tacere non solo dalle lobby delle armi ma dalla stessa opinione pubblica per la quale il Secondo Emendamento è intangibile e il possesso delle armi fa parte dei diritti individuali. Anzi la tendenza è quella di rafforzare ulteriormente questo diritto e quando, nel giugno del 2008, una sentenza della Corte Suprema ha compiuto un passo ulteriore in tale direzione, gli americani apprezzarono così tanto l’orientamento di quest’organo che d’un balzo la sua popolarità crebbe di sette punti. Quest’esercizio del diritto individuale alla violenza, sia pure per legittima difesa, è così radicato da non ritenersi in conflitto con l’insegnamento cristiano di cui gli americani si ritengono i migliori depositari. Ci sono chiese che giungono a organizzare l’Open carry celebration, una singolare manifestazione durante la quale tutti i fedeli sono invitati a venire alla funzione religiosa portando in tasca una pistola. Dopo il sermone segue il buffet e la lotteria che mette in palio pistole, fucili e videocorsi sull’uso delle armi. “Non vedo nessuna contraddizione fra possedere armi ed essere cristiano, – afferma Ken Pagano, pastore della New Betel Church di Louisville – Dio e le pistole sono parte della storia di questo paese… Il diritto a possedere armi non è vietato dalla Bibbia né è incostituzionale. Non tutti i cristiani devono essere per forza pacifisti”.

Quando poi il diritto alla violenza privata si trasforma in violenza agìta, soprattutto dalle persone più fragili per struttura mentale, per educazione o per età, allora non scatta la solidarietà collettiva, l’azione di recupero, bensì la pubblica vendetta. I minori sono le prime vittime di questo meccanismo perverso. La giustizia americana a malapena si accorge della loro peculiarità; le Family Court sono qualcosa di diverso dai tribunali minorili e ancor oggi negli U.S.A. in molti casi i minorenni vengono giudicati dai tribunali per gli adulti. Gli Stati Uniti, in buona compagnia della Somalia, sono l’unico paese a non aver ratificato la Convezione dei diritti del fanciullo approvata dall’ONU nel 1989. Anzi proprio in quell’anno la Corte Suprema stabiliva che era accettabile l’esecuzione di criminali di 16/17 anni, affermando che gli standard internazionali erano irrilevanti e che ciò che contava davvero era la “…concezione americana della decenza”. Lo stesso giorno sempre la medesima Corte stabiliva l’ammissibilità della pena di morte per gli imputati mentalmente ritardati. Da allora si è assistito ad un timido avvicinamento ai principi di diritto penale minorile portati avanti dagli “Stati industrializzati occidentali” per attenuare l’isolamento internazionale che vede gli Stati Uniti unica democrazia a consentire la “juvenile death penalty” per usare le parole di un giudice della Corte Suprema. Ma le distanze rimangono ancora abissali. Attualmente 24 Stati dell’Unione consentono l’esecuzione di minorenni all’epoca del reato. Il XXI secolo è cominciato con l’esecuzione di tre ragazzi 17enni al momento del crimine e tuttora sono detenuti un’ottantina di minorenni al momento del reato in attesa di esecuzione.

L’affermazione esasperata della libertà individuale e la giustizia muscolare sono in America le due facce di una stessa medaglia. L’uomo che si costruisce e che si difende da sé è anche l’uomo che disprezza chi fallisce nel realizzare questo progetto di autoaffermazione. Quella americana non è una società solidale e in ciò non trova contraddizione con la sua professione di cristianesimo. Perché in fondo l’etica degli americani è quella calvinista del successo come segno esteriore della predestinazione alla salvezza. Perciò chi fallisce non merita aiuto portando egli il disprezzo di Dio ancor prima di quello degli uomini. Poi va da sé che l’individualismo esasperato porta all’egoismo più sfrenato che si realizza pienamente nella più bieca economia di mercato. Nel nostro immaginario collettivo del dopoguerra gli americani sono quelli che si contrapponevano ai tedeschi delle razzie, sono quelli che lanciavano cioccolata ai ragazzini, sono quelli del piano Marshall, quelli che distribuivano farina, margarina, latte in polvere e indumenti. Perciò si fa fatica a credere all’anima profondamente egoista di questo popolo, ma è così (o, almeno, è sempre più così). Gli americani quando t’invitano al ristorante non offrono ma ognuno paga per sé. Gli americani sono quelli che hanno osteggiato ferocemente la riforma sanitaria voluta da Obama, approvata con mille compromessi, e che ora sono determinati ad abrogare.

Con ciò non intendo dire che quello americano sia il popolo più egoista e spietato al mondo. Dappertutto troviamo esempi che fanno rabbrividire. Se il modo in cui si trattano i bambini è la cartina di tornasole del senso morale di una società (per rifarci ad una constatazione del Bonhoeffer), allora ne troviamo di esempi ben più raccapriccianti. In Africa i bambini vengono scacciati ed anche uccisi se si pensa che portino sfortuna, vengono rapiti per farne milizie di assassini. In Pakistan gli scolari delle madrasse poco diligenti vengono bastonati a morte, in Iran il bambino che ruba un dolcetto si vede amputare la manina o stritolarla sotto le ruote di un camioncino. Però gli Stati Uniti sono quelli che si ritengono la prima democrazia al mondo e che ne fanno un modello d’esportazione. Tuttavia ancora mantengono la pena di morte, anche per i minori. E mentre vedono il welfare state come fumo negli occhi non si fanno problema a salvare con i soldi dei contribuenti quelle stesse banche che sbattono in strada chi non può più pagare il mutuo della casa.

Ma se Atene piange Sparta non ride. Noi europei troviamo rozzo il modello americano anche perché veniamo da un’evoluzione storica diversa. Gli stati Uniti, in senso stretto, non sono neppure la patria del capitalismo che è nato in Inghilterra, cioè in Europa. Un capitalismo spietato, senza alcuna tutela per i lavoratori, così ben descritto nei romanzi sociali di Dickens. Però l’Europa ha dovuto fare i conti con l’idea marxista, prima, e poi con una rivoluzione comunista davanti alla porta di casa. Il timore di finire travolti dall’onda rivoluzionaria fece reagire le classi dominanti prima con l’introduzione di timide riforme previdenziali rivolte a specifiche categorie e, nelle situazioni più esasperate, aprendo alla repressione dei vari nazionalfascismi. Poi, con il fallimento di questi regimi, introducendo lo stato sociale che mitigava le distorsioni dell’economia di mercato con politiche redistributive nell’ambito della previdenza, della salute e dell’educazione in senso universalistico, cioè non più diretto a determinate categorie ma come diritto di cittadinanza. Questo passaggio, che ha garantito in Europa una maggiore giustizia sociale, è avvenuto negli Stati Uniti in modo molto più attenuato anche perché meno esposti alle sirene delle teorie marxiste abbastanza lontane sia geograficamente che culturalmente dalla realtà americana. Ma sono anni ormai che la situazione sta mutando pure in Europa. Il crollo dei regimi comunisti, ben rappresentato dalla caduta del muro di Berlino, e le distorsioni in termini di sostenibilità dei sistemi di protezione sociale stanno portando a un ripensamento delle politiche di welfare, che di fatto si sta concretizzando in un loro graduale smantellamento. La parola d’ordine è privatizzazione: dei servizi pubblici e persino dei beni indisponibili come l’acqua. Affidando all’economia di mercato i servizi pubblici, i governi di centrosinistra e ancor più di centrodestra stanno introducendo una distorsione in senso contrario e ancor più grave di quella provocata dalle politiche di welfare. Infatti il processo di privatizzazione dei servizi non si limita a sottrarre questi a un ripianamento dei costi mediante i fondi pubblici ma introduce l’elemento del profitto, peraltro massimizzato grazie alle connivenze con la sfera politico amministrativa. Gradualmente i paesi occidentali stanno precipitando in un’economia di mercato senza regole e senza tutele per il cittadino e per il consumatore, con un allontanamento tra loro delle classi sociali e con un accentramento delle ricchezze in mano a pochi come non si verificava dal XIX secolo. Mala tempora currunt!

La giustizia sociale è strettamente connessa alla giustizia dei tribunali. L’adeguamento dei codici e le sentenze dei giudici rispecchiano inevitabilmente il contesto sociale di riferimento. Il nostro sistema giudiziario ha già le sue contraddizioni storiche che lasciano convivere una scarsa repressione del crimine con un sistema carcerario medievale, per nulla volto al recupero del detenuto. Se a queste contraddizioni aggiungiamo quelle che si vanno affacciando nel corpo sociale in termini antisolidaristici e giustizialisti, dobbiamo aspettarci un incrudimento dei rapporti interpersonali e, a seguire, delle norme che li disciplinano. Forse da noi non vedremo mai un bambino incatenato mentre viene condotto davanti ai giudici, forse nemmeno un adulto, perché queste prassi sono troppo lontane dalla nostra sensibilità, dalla nostra “concezione della decenza”; anche se la sensibilità può cambiare quando cambiano le circostanze. Ma al di là delle forme è il mutamento dei contenuti che dobbiamo aspettarci e temere di vedere. Dopo due secoli di crescita, le società occidentali sono in evidente fase di declino rispetto alle economie emergenti dell’estremo oriente. Va anche male lo scontro di civiltà contro il mondo di cultura islamica. I popoli occidentali non accetteranno pacificamente questo inarrestabile declino e ognuno si difenderà a modo suo. Quella americana è una società violenta e lì una recrudescenza di violenza fisica dobbiamo attenderci ad ogni livello, anche istituzionale. Emblematico l’attentato di ieri contro la deputata democratica Gabrielle Giffords, gravemente ferita da un pistolero squilibrato e nella lista di proscrizione della leader dei Tea Party, Sarah Palin, distintasi per la violenza verbale con cui il suo gruppo ha condotto la recente campagna elettorale. Qui troviamo insieme i due elementi delle armi facili e dell’intolleranza esasperata che trasforma gli avversari in nemici. Odio e bigottismo spingono verso le leggi speciali e le rendono plausibili. Il maccartismo insegna. Quella europea è una civiltà più vincolata sotto questo aspetto. Alcuni fanno notare l’analogia che c’è tra il nostro tempo e quello che precedette l’avvento del fascismo: l’ingiustizia sociale, l’irrequietezza della classi impoverite, il desiderio di difendere a tutti i costi i privilegi acquisiti, l’inettitudine e la corruzione della classe politica, la voglia di mettere il bavaglio alla libera informazione. Questo non si può negare. Però è anche vero che allora si dava credito alle dottrine sulla razza, si vedeva nella guerra uno strumento legittimo per dirimere le controversie, per accrescere lo “spazio vitale”, per estendere la propria civiltà. Allora non c’era l’Unione Europea. Tutto questo comporta dei vincoli maggiori, sia culturali che giuridici. Pertanto ciò che io m’attendo è sì uno sviluppo della violenza, soprattutto in ambito interpersonale, che è inevitabile con l’aumento delle ingiustizie e con l’impoverimento del contesto sociale; ma in ambito istituzionale tale violenza, che pur produrrà i suoi effetti, si tradurrà in un imbarbarimento dei contenuti ancor più che delle forme, da noi più vincolate ai codici e ai trattati internazionali. Di recente è stato chiesto a Lucio Caracciolo, direttore di Limes, se ritenesse che la Russia di Putin, formalmente una democrazia, possa avvicinarsi col tempo, in tema di libertà e di diritti umani, agli standard delle democrazie occidentali. La sua risposta è stata: “Dato il vento che tira, temo purtroppo che saremo noi ad avvicinarci agli standard della Russia”.


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mercoledì 5 maggio 2010

Studentessa aggredita al Colosseo

Di questo lunedì la notizia d'una ragazza in gita scolastica aggredita da uno sconosciuto. È accaduto in piazza del Colosseo dove la studentessa stava giocando con alcuni compagni. Ha spintonato un amico, che accidentalmente ha urtato un passante, facendolo cadere per terra. La ragazza si è prontamente scusata ma ciò non è bastato all’uomo, 38 anni, che dopo essersi rialzato l’ha insultata, l’ha sbattuta a terra con uno schiaffo e ha cominciato a darle pugni sulla testa. Solo l’intervento di alcuni poliziotti ha posto fine all’aggressione. Portata al pronto soccorso la malcapitata è stata medicata e le è stato diagnosticato un trauma contusivo cranico. L’aggressore è stato denunciato a piede libero per lesioni personali.

Ormai la violenza non fa più notizia, è questo è già indicativo di un malessere diffuso. È il sintomo del fallimento di quel supposto processo di evoluzione etico-culturale che, si diceva, stesse conducendo l’uomo fuori dal suo retaggio animale. Sono però ancora in grado di suscitare inquietudine quelle notizie che raccontano di una violenza che supera persino quella presente nelle specie animali più aggressive, ove in genere è presente l’istinto di protezione degli elementi più fragili a cominciare dai cuccioli.

È un po’ come se l’umanità stesse degradando in una sorta di analfabetismo relazionale di ritorno. Qualcosa di analogo a ciò che avviene a quei branchi di cani inselvatichiti che hanno perso i condizionamenti della domesticazione e al contempo, in parte, gl’istinti ancestrali del loro cugino, il lupo. Così, ecco, che privati anche della regolazione dei comportamenti geneticamente determinati risulta molto più rischioso imbattersi in un branco di cani che in un branco di lupi.

Come sempre, trovo interessanti i commenti all’articolo lasciati dai lettori, sia per gli spunti di riflessione che offrono sia perché essi rappresentano il polso e la sensibilità dell’opinione pubblica. Consentono di osservare l’impatto della notizia sulle coscienze, come essa viene spiegata e interpretata dall’uomo della strada che legge i giornali. In questo caso i lettori si sono divisi quasi a metà tra chi condanna il comportamento dell’uomo iperreattivo e tra chi condanna la ragazza che ne ha provocato la caduta. Diverse le spiegazioni e gli scenari prefigurati da questi ultimi, anche a causa della stringatezza con cui i giornali hanno riportato la notizia. Alcuni si son chiesti se davvero quella caduta sia stata accidentale o se piuttosto non sia stata provocata di proposito. Essi fanno notare il modo selvaggio in cui si comportano molti dei ragazzini in gita, ma anche in aula e ovunque fanno gruppo. Fanno notare che il problema parte dalle famiglie, dai genitori che non sanno educare i figli alla convivenza civile e al rispetto del prossimo; mai un rimprovero o una punizione dati al momento opportuno; genitori che spesso sono completamente assenti, salvo quando si tratta di prenderne la difesa acritica contro gl’insegnanti e chiunque altro osi eccepire sull’educazione e la bontà delle loro creature. Tutti d’accordo pertanto in questo gruppo sull’indignazione provata dall’aggressore mentre dei distinguo vengono fatti sulla sua reazione. Alcuni giustificano anche questa. “Magari quest’uomo aveva le cose sue per la testa, era già nervoso di suo”, affermano. Altri convengono che la reazione sia stata eccessiva e che questi si sarebbe dovuto fermare al sonoro ceffone. Altri ancora ritengono che l’uomo avrebbe dovuto limitarsi al rimprovero ed, eventualmente, a segnalare il comportamento agli insegnanti. Senza voler escludere la punizione. Qualcuno propone la pulizia dei bagni della scuola per 6 mesi: “Lo fanno già le donne delle pulizie… e ancora campano. Anzi, i figli dei borghesi, che teoricamente sono più ben educati e colti, dovranno pulire i cessi insieme al papà, che ne so, primario in cardiologia”.

Il secondo gruppo di lettori, polemizzando con il primo, parte da un presupposto del tutto diverso che prescinde dal grado di colpevolezza della ragazzina. Anche quando si ha ragione, l’uso della violenza pone subito dalla parte del torto. Questa è la prima regola di una società civile (“Se per accidente io la urtassi, anziché accettare le mie scuse lei mi prenderebbe a schiaffi e calci per insegnarmi che cos’è l’educazione? È questa la sua idea di civiltà?”). La seconda regola è che le donne non si toccano. Men che mai una ragazzina. “Un trentottenne che gonfia di botte una ragazzina… e c’è pure chi lo difende!”. “Avrebbe potuto agire in mille modi civili anche per insegnare la civiltà. Così ha insegnato solo la violenza”. “Non ho letto un commento sull’azione assurda dell’individuo, urtato senza intenzione e che aveva per giunta ricevuto le scuse dalla ragazzina”. “Tu mi hai urtato, presumo che tu lo abbia fatto apposta, quand’anche tu non lo abbia fatto apposta sono arrabbiato lo stesso, quindi ti gonfio di botte… tanto più che sei una ragazzina e non puoi difenderti più di tanto: questo il paradigma di collegamenti neuronali di elevatissimo livello. Quale esempio di civiltà, uno splendore”. “Quanta violenza! Se per un semplice urto si arriva a malmenare una ragazza, invece di sgridarla semplicemente, vuol dire che siamo proprio non alla frutta, ma al digestivo in questo tempo disgraziato”.

C’è anche chi la butta in politica. “Strano che accada a Roma, dove sindaco e giunta rappresentano il partito dell’AMOOORE, città pregna di cortesia, civiltà, educazione e rispetto per il prossimo, strano davvero!”. A questa provocazione, un lettore d’opposta appartenenza politica risponde: “Mi faccia capire il suo ragionamento illuminato, per cortesia. Se al governo del paese e della capitale ci fossero stati i suoi padroni in rosso, il tizio anziché schiaffeggiare la ragazzina le avrebbe porto una dozzina di rose rosse?”. Ma una lettrice trova un nesso: “Un paese di cafoni, maneschi, nevrastenici e stupidi. Davvero un bel paese! Forse la base vuole sempre più somigliare ai suoi rappresentanti ‘legittimamente eletti’”. È un nesso circolare tra eletti ed elettori, una gara per far prevalere sempre più l’egoismo, il tornaconto, la rapacità e le ragioni del più forte. Un altro lettore coglie ancor meglio quest’elemento disgregativo: “Quel che è peggio è l'inabissarsi di certe notizie nel mare della normalità, tra mamme che gettano i figli dal balcone, autisti che uccidono in stato d'ebbrezza e fanciulli che si alcolizzano per esser grandi. Oramai siamo tornati alla legge del più forte, soli od in branco non ci si rispetta più, si cerca di vincere a qualsiasi costo”.

Attenuandosi sempre più le consuetudini di cooperazione e buona convivenza, prende il sopravvento l’aggressività che è molto forte nella specie umana. Così forte da tradursi in comportamento predatorio nelle relazioni intra-specifiche: evento insolito nelle altre specie animali. Si traduce anche in comportamento competitivo, che invece è comune nel mondo animale tra individui della stessa specie per stabilire uno status, la precedenza o l’accesso a una risorsa. Però anche la competitività è tenuta sotto controllo nel mondo animale da vari comportamenti e meccanismi, perché porta vantaggi solo indiretti alla collettività, che tendono ad annullarsi con l’esasperazione dei comportamenti individualistici. Anche in questo gli animali danno dei punti agli uomini. Solo l’educazione alla cooperazione e alla solidarietà può far superare all’uomo il proprio retaggio animale. Mancando questa, l’uomo si ritrova subito al di sotto della naturale animalità, così come avviene nei cani inselvatichiti incapaci di regolare la propria aggressività. È stato dimostrato che maggiori sono le capacità cognitive di una specie, maggiore importanza assume l’ambiente di sviluppo nel determinare il livello di aggressività degli individui di quella specie. Pertanto, a maggior ragione nell’uomo, se già egli su base genetica ha un ottimo potenziale d’aggressività, possiamo immaginare quanto questa possa essere ulteriormente esaltata dagli stimoli ambientali e dall’addestramento. L’aggressività, al contrario della cooperazione, porta inevitabilmente alla disgregazione sociale. Sono ormai tanti i segnali che ci vedono puntare verso quest’esito di esasperato individualismo. La legge a cui tendiamo è quella del branco, d’un branco disgregato che non sa proteggere neppure i propri cuccioli.




lunedì 12 aprile 2010

Burattinai o burattini?

Di questi giorni la notizia che dodici disegni fatti dal giovane Hitler tra il 1908 e il 1909 a breve saranno messi all’asta. “I disegni, a carboncino e matita, sono molto ordinari. La mano non è sicura e le prospettive non sono perfette”, afferma Michael Liversidge, che insegna storia dell’arte all’università di Bristol. “Non v’è alcuna traccia di genio artistico. Però, se l’Accademia lo avesse ammesso, Hitler sarebbe potuto diventare un discreto pittore”. Il fatto è che l’Accademia non lo ammise. Egli ci provò per due volte di seguito ma in entrambe venne respinto. La bocciatura, per lui che sognava di diventare un grande e famoso pittore, fu un vero e proprio trauma. A giudizio degli storici, forse mai una bocciatura fu così gravida di conseguenze. Ma quei professori non potevano sapere, come pure lo stesso giovane Hitler non sapeva quel che sarebbe diventato, cosa avrebbe fatto della sua vita né tanto meno di quella altrui.

Generalmente le biografie degli uomini che soggiogano le nazioni, scritte per lo più a cose fatte, descrivono costoro come eroi sovrumani, con idee subito chiare e un destino ben delineato e ineluttabile. Ma i fatti veri, non quelli alterati dall’agiografia, raccontano cose diverse. Il famigerato dittatore tedesco non fa eccezione. Prendiamo il suo omologo italiano, Mussolini. Uomo dalla storia sanguinosa, misteriosa ma, soprattutto, contraddittoria. Diplomatosi dai Salesiani, provò per qualche tempo a fare il maestro di scuola, ma con scarsi risultati. Colui che vorrà “spezzare le reni” a mezzo mondo dovette arrendersi di fronte ad una seconda elementare perché, per sua stessa ammissione, non era stato capace “di risolvere sin dal principio il problema disciplinare”. Da apostolo del socialismo, che incita il popolo alla sommossa, si trasforma in un nazionalista intransigente, devoto all’ordine e amante della disciplina. Il futuro fautore dei Patti Lateranensi, scopre inizialmente la sua “strada” nel giornalismo rovente e anticlericale. Si firma “il vero eretico” e accusa i preti di essere i “gendarmi neri al servizio del capitalismo”. Un ordinario padre di famiglia, ma con amanti e figli illegittimi da internare in manicomio, se l’opportunità lo richiede. Non fu certo un campione di coerenza. Desiderava affermarsi nella vita più d’ogni altra cosa ma non per la forza delle sue idee, che potevano anche essere sacrificate. Fu un opportunista e certamente per lungo tempo fu alla ricerca della propria strada. Pensò persino di emigrare in Brasile come in tanti avevano fatto nel suo paese. Prese anche lezioni di violino (“se diventerò bravo ho un mestiere di riserva”) e dopo aver tentato di sfuggire all’arruolamento, chiese di essere ammesso a frequentare il corso di allievi ufficiali. La sua domanda fu respinta. Peccato. Meglio un cattivo ufficiale che un cinico dittatore. Meglio ancora un violinista: tutt’al più avrebbe ferito l’orecchio dei suoi ascoltatori.

E Stalin? Neppure lui sapeva cosa avrebbe fatto da grande. Nella sua gioventù è stato molte cose: rivoluzionario e giornalista, poeta e donnaiolo, un bravo corista e un prete mancato. Proprio così. Questo feroce protagonista del secolo scorso, che fece uccidere più russi lui dello stesso Hitler, non in guerra, ma solo perché non la pensavano come lui o potevano metterlo in ombra, che fece estender la pena di morte ai ragazzini di dodici anni; questo tiranno arido e privo di scrupoli, frequentò prima la scuola religiosa del suo paese e poi, dal 1894 al 1899, il seminario di Tiflis. Ce l’immaginiamo Stalin che studia religione e recita preghiere? Eppure fu così. Anzi, nel primo anno di seminario si distinse come studente modello, come apprezzabile tenore e come poeta. Un bravo poeta. Donald Rayfield, docente di letteratura russa e georgiana alla Queen Mary University di Londra, che ha tradotto i suoi versi in inglese, ha affermato senza sarcasmo che “sarebbe persino possibile trovare motivi non puramente politici per rimpiangere il suo passaggio dalla poesia alla rivoluzione”. Anche lui: se avesse fatto il prete o il poeta, non si troverebbe tanti omicidi sulla coscienza. 26 milioni, per la precisione. Rievocando il suo passato, egli stesso dirà: “Se non ci fosse stato Lenin, sarei rimasto un corista e un seminarista”. Come in una sorta di postilla, la mia mente corre pure a Putin che, almeno per il momento, non può neppur lontanamente compararsi al suo famigerato predecessore; ma che comunque nel suo regime di democrazia autoritaria, non disdegna di chiudere per sempre la bocca a chi gli si mette di traverso. Ebbene, con il terremoto del regime comunista, anch’egli neppure immaginava che avrebbe scalato la posizione più elevata della nazione, ed anzi pensò di sbarcare il lunario facendo il tassista o l’allenatore di Judo.

E infine consideriamo un tiranno dell’antichità, uno per tutti ma ben rappresentativo per la fama sinistra che lasciò ai posteri: Nerone. Fama, in realtà, tramandata più dalla classe dei patrizi che dalla plebe. Da attento leader populista, quale fu, egli lasciò un buon ricordo nel popolo che nel giorno della sua morte, ogni anno, fino al dodicesimo secolo portò fiori sulla sua tomba. Tradizione interrotta da papa Pasquale II che, per porre fine a quella consuetudine, ordinò la demolizione del mausoleo dei Domizi-Enobarbi. Di Nerone non può negarsi che il suo destino fosse delineato molto per tempo. Ma non per una sua vocazione, quanto piuttosto per la sfrenata ambizione della madre Agrippina. Anzi, se fosse dipeso da lui, probabilmente non avrebbe mai accettato il potere offertogli con tanti pericoli e tante preoccupazioni. Nei suoi primi anni, quando la madre era in esilio, egli fu allevato dalla zia paterna Domizia Lepida. Il suo primo precettore fu un ballerino, e da questi il piccolo Lucio imparò l’amore per la danza e per lo spettacolo. Ma non fu solo un fatto d’imprinting, il futuro imperatore era davvero inclinato per il mondo delle arti. Secondo Svetonio egli nutrì passione per la pittura e per la scultura ma, soprattutto, per la musica, il canto e la poesia. “Compose versi volentieri e senza fatica e non pubblicò mai, come insinuano alcuni, quelli degli altri spacciandoli per suoi”. Imparò pure a suonare la cetra e, curiosamente, se la cavava bene anche tra i fornelli. Durante i graditi soggiorni presso la residenza estiva di Torre di Giano, volentieri deliziava il palato dei suoi ospiti con delicati manicaretti da lui stesso preparati. Il suo famoso viaggio tra le isole della Grecia altro non fu che una tournée. A bordo di una lussuosa galea divertì i suoi ospiti, compresi gli stupefatti notabili delle città visitate, con le sue rappresentazioni artistiche. L’accusa più grave che gli mossero i suoi detrattori non fu la crudeltà bensì che gareggiò come auriga, che si esibì come cantante, che fece il ballerino. Se gli avessero lasciato seguire le sue inclinazioni, invece di costringerlo ad esercitare l’incombenza del governo presso la corrottissima corte di Roma, oggi il suo nome sarebbe associato ad una fama ben meno sinistra.

Sembra insomma che i dittatori non vengano su con una vocazione ben chiara e lineare, che non siano una specie a sé e predestinata rispetto al resto dei comuni mortali. Anche se storicamente va preso atto che molti di loro ebbero condizionamenti familiari e l’attitudine mentale (diremmo le physique du rôle) che li aiutarono a scalare il potere e a mantenerlo. La violenza non gli era estranea. Alessandro, il padre di Mussolini, era esponente del socialismo facinoroso, anarchico e violentemente anticlericale di Romagna. Vissarion, il padre di Stalin, aveva il vizio dell’alcol e un carattere litigioso. Nei momenti d’ira scatenava la sua violenza su moglie e figlio che, ancora imberbe, in una di queste liti non esitò a lanciargli addosso un coltello. E accoltellato morì in una taverna durante una rissa tra ubriachi. In una taverna morì anche Alois, il padre di Hitler, mentre beveva il suo solito bicchiere di vino. Era lì che preferiva stare quando non lavorava piuttosto che a casa. Fu descritto come uomo duro, sgradevole e collerico. In famiglia si comportava come un tiranno. Urlava, sgridava e picchiava i figli; quanto alla moglie, con lei era assai ruvido e raramente le rivolgeva la parola. Essi stessi, questi futuri dittatori, ebbero un carattere tutt’altro che facile. Il piccolo Adolf è descritto come un bambino intelligente ma caparbio e lunatico. In nuce erano già presenti in lui quei tratti che crescendo si esaspereranno: la sospettosità, la litigiosità, la collericità, l’insofferenza per la più piccola critica. Il giovane Benito era insofferente alle regole, aveva un carattere umorale e rissoso e giunse ad accoltellare un compagno di scuola più anziano. Di lui i coetanei dicevano “non discute, picchia”. Forse aveva innata una vena cinica ma lui non fece molto per contrastarla. Quand’era al fronte, durante la prima guerra mondiale, riuscì a lasciare esterrefatti i suoi superiori per la gratuità della sua violenza, come quando uccise con una granata alcuni austriaci che fumavano tranquillamente di notte nella loro trincea. Quando il capitano gli chiese il perché del gesto, dato che quei ragazzi in quel momento non costituivano un pericolo ma stavano solo fumando e parlando delle loro fidanzate, Mussolini rispose con macabra ironia: “Signor Capitano e allora andiamo tutti a spasso in galleria, a Milano, che è meglio”. Come stupirsi allora della cinica motivazione che diede anni dopo a Badoglio per giustificare l’ingresso in guerra: “Voi non capite, io ho bisogno di qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo di pace”. E non fu il più spietato dei dittatori; all’indomani della sua morte Stalin disse: “Con la morte di Mussolini scompare uno dei più grandi uomini politici cui si deve rimproverare solamente di non aver messo al muro i suoi avversari”. Del giovane Josif abbiamo già detto che, quantunque esasperato, tentò d’accoltellare il padre. In seminario, superato il primo anno d’ambientamento, manifestò insofferenza per i metodi e le regole medievali lì in uso ed acuì lo spirito ribelle già presente in lui. Invece di apprendervi la teologia, in quella scuola egli affinò le sue doti di cinismo, imparò la dissimulazione e i metodi di controllo delle persone e delle coscienze. Come osservò uno storico, in seminario egli imparò a maneggiare le idee “con l’indifferenza attenta di chi non cerca quella giusta ma quella utile”. A quel punto era pronto per mettersi al servizio della rivoluzione o, se preferiamo, per mettere la rivoluzione al proprio servizio. E nel nome di alti ideali da subito si diede ad azioni turpi e spregiudicate: alle rapine, alle estorsioni, agli incendi dolosi, all’assassinio, ecc.

Nonostante gli elementi negativi di contesto e caratteriali, fu il loro un percorso obbligato? La storia della loro infanzia e della loro gioventù indica che il loro fu un percorso tormentato ma non obbligato. Spesso ebbero delle madri affettuose e religiose. Ekaterina Geladze, la madre di Stalin, lavorò duramente come lavandaia, cuoca e sarta per consentire al figlio di studiare. Era molto pia e legata alla religione ortodossa, e suo grande desiderio era quello che il figlio abbracciasse la vocazione sacerdotale. L’abbandono del seminario da parte di Josif le arrecò un grande dispiacere che si portò sempre dietro. Quando il figlio le fece visita sul letto di morte, per spiegarle la propria posizione le disse: “Sono come uno zar”. E lei rispose: “Sarebbe stato meglio se tu fossi divenuto un sacerdote”. Anche Rosa Maltoni, la madre di Mussolini, era una donna di fede. Cercò di trasmettere i propri valori ai figli: andò meglio con Arnaldo ed Edvige ma ebbe poca fortuna con Benito. Fece anche dei sacrifici per farlo studiare presso il collegio salesiano di Faenza e sottrarlo in qualche modo all’influenza del padre. Klara Pölzl, la madre di Hitler si dedicò alla cura della casa e dei figli. Era una devota cattolica e frequentava la chiesa regolarmente. Il giovane Adolf le era molto legato. Oltre alla scuola della vicina abbazia, egli ne frequentava anche la chiesa. Attivamente. Servì la messa come chierichetto, fu un buon elemento della corale di voci bianche e prese lezioni di violino da un Padre benedettino. In seguito confesserà che durante quelle solenni liturgie, a cui anch’egli dava il suo contributo, provava delle forti emozioni. Nel 1904, quando aveva 15 anni, durante la catechesi per la cresima, Hitler per alcuni mesi meditò persino di farsi prete. Anche Nerone ebbe le sue possibilità. Non fu fortunato con la madre ma ebbe una zia che gli volle bene; e Agrippina, accortasi dell’influenza che la cognata esercitava sul ragazzo, pensò di eliminarla con l’accusa di complotto contro l’imperatore. Al processo fu chiamato a testimoniare contro la zia. Egli sapeva bene che con la sua falsa testimonianza avrebbe segnato il destino della congiunta e perso un caro affetto, ma sapeva anche che salvando la zia avrebbe messo a repentaglio la propria vita. Fece la scelta più facile, anche se dolorosa, e da allora iniziò il suo progressivo corrompimento. Almeno nei primi anni del suo impero, Nerone perseguì un programma politico finalizzato al miglioramento delle condizioni delle classi popolari, e non è da escludere che all’inizio le sue intenzioni fossero sincere e non inquinate, come in seguito, da intenti populistici e demagogici. Ma il continuo ricorso alla violenza e la vita dissoluta decisero il corso della sua parabola discendente.

Non si può pertanto affermare che questi uomini non fossero responsabili delle proprie scelte e quindi delle loro azioni. Perché se il loro percorso non fu obbligato non lo furono neppure le loro scelte, almeno quelle fondamentali. Il fatto che i loro percorsi non fossero obbligati non esclude, però, che fossero in qualche modo guidati. Colpisce infatti, scorrendo le biografie di questi uomini e ancor più le loro autobiografie, la presenza di circostanze che facilitarono certe scelte utili a conseguire (o, comunque, a creare le premesse per conseguire) tappe determinanti verso la conquista del potere. Prendiamo il libro di Adolf Hitler Mein Kampf che racchiude insieme il suo pensiero delirante, il suo programma politico e la sua autobiografia. Tra i tanti episodi, qui egli ne racconta uno che, come lui dice, decise in poche settimane del suo avvenire. Egli si sentiva attratto dall’arte; in particolare, come abbiamo detto, dalla pittura e dall’architettura. Suo padre, però, criticava queste velleità e più concretamente progettava per lui un destino d’impiegato. Prospettiva che il giovane Adolf semplicemente aborriva. Successe allora qualcosa che consentì agli eventi di assecondare le inclinazioni del ragazzo. Racconta egli: “Una malattia mi venne improvvisamente in aiuto, la quale decise in poche settimane del mio avvenire e pose fine al lungo conflitto. Una grave affezione polmonare consigliò a un medico di proporre a mia madre di non lasciarmi mai, a nessun patto, far vita d'ufficio. Per le stesse ragioni, la frequentazione della scuola tecnica doveva venir sospesa almeno per un anno. Ciò che avevo desiderato in silenzio per tanto tempo, ciò per cui mi ero sempre battuto, s'era fatto ora realtà, improvvisamente, quasi da sé. Sotto l'impressione della mia malattia, mia madre accettò di togliermi più tardi dalla scuola tecnica, e di lasciarmi frequentare l'Accademia”. Da sottolineare quel “quasi da sé”. L’Accademia, come sappiamo, non lo ammise e così egli si trovò in mezzo al guado. Andò anche lui a Vienna, come aveva fatto il padre da ragazzo, per cercarvi la sua realizzazione. I presupposti però erano diversi. Esclusa l’accademia, restava la scuola d’architettura; ma lui non poteva accedervi perché non aveva completato la scuola tecnica. Cercarsi un impiego, neanche a parlarne. La sua vita nella capitale imperiale fu pertanto caratterizzata dagli espedienti e dagli stenti. La miseria lo condusse ad alloggiare in abitazioni di fortuna e persino nel dormitorio pubblico, e la fame divenne la sua “fedele compagna”. Gli anni viennesi si rivelarono utili a incattivirlo e a fargli assorbire lo spirito del tempo, a cominciare dal pangermanismo e dall’antisemitismo, vera e propria “moda intellettuale” sulla bocca di tutti e propagandati da libri e riviste. Senza l’esperienza viennese sarebbero mancate la spinta e le basi ideologiche per fare di Hitler il Fürer del Reich tedesco. In quest’evento, come in molti altri, egli scorse una volontà trascendente che lo aveva predestinato a ricoprire quel ruolo. Egli si credeva eletto e protetto da Dio. Anche se verosimilmente aveva poco chiaro chi fosse questo “dio” che guidava il suo cammino. Per approfondire questo tema si rinvia all’articolo Il vero burattinaio. Pensando all’enorme potere che questi uomini “della Provvidenza” concentrarono nelle loro mani vien facile pensare a loro come degli incontrastati burattinai. Ma se il vero burattinaio è “Satana, il dio di questo mondo” (2Cor 4:4), allora va preso atto che anch’essi sono dei burattini. Burattini responsabili, però, delle loro azioni. Formati e usati con il loro consenso per fare il lavoro sporco, e poi gettati via. Intercambiabili. Perché anche il potere degli uomini è effimero. Interrogato ad esprimere il suo giudizio sulle celebrazioni per i vent’anni della caduta del Muro di Berlino, John Le Carré, lui che su quel Muro aveva costruito la sua fortuna di romanziere, affermò che quelle cerimonie gli avevano dato una tristezza infinita. “Quella sfilata di ex potenti del mondo che sembravano fantasmi, venuti da non si sa dove a commemorare qualcosa di cui parevano non ricordare più nulla”. Erano trascorsi solo vent’anni eppure quei grandi leader acciaccati e spaesati sembravano commemorare se stessi più che il Muro, sembravano dei morti viventi, un’ombra di ciò che furono. Erano trascorsi solo vent’anni pure quando Mussolini concesse la sua ultima intervista nel suo studio presso la Prefettura di Milano. Il suo volto portava visibili tracce di stanchezza; sembrava molto invecchiato. Sembravano pure molto lontani i giorni in cui risuonava lo slogan: “Se il destino è contro di noi… Peggio per lui!”. Le folle s’erano dileguate, il dialogo con le piazze s’era rivelato un reciproco inganno, un’illusione. “Ho concluso che ho sopravvalutato l’intelligenza delle masse. Nei dialoghi che tante volte ho avuto con le moltitudini, avevo la convinzione che le grida che seguivano le mie domande fossero segno di coscienza, di comprensione, di evoluzione. Invece, era isterismo collettivo...”. Il Duce e le folle si erano strumentalizzati a vicenda e tutti loro erano stati strumentalizzati dal “dio di questo mondo”.

Eh, sì, le folle! L’altro lato della piazza. Gli altri burattini, anch’essi responsabili delle loro azioni e a cui sarà ridomandato conto. Nessun tiranno potrà essere usato come alibi; non solo perché nessuno può costringere nessuno a violare la propria coscienza, ma soprattutto perché nessun dittatore può conquistare il potere e tenerlo senza una maggioranza che condivida i suoi stessi ideali, o che comunque non ne sia offesa. Dote indispensabile di un leader, e a maggior ragione di un despota, è quella di saper intercettare gli umori della sua gente. Egli sa cavalcare i loro pregiudizi, le loro paure, le loro aspirazioni. Sa convincerli che solo lui può realizzare i loro più profondi desideri. Disse Otto Strasser di Hitler: “Le sue parole colpiscono l’obiettivo come una freccia; egli mette il dito sulla piaga di ognuno, libera il suo inconscio, mette a nudo le sue più riposte aspirazioni, dice quello che ognuno più desidera ascoltare”. Tuttavia il consenso si crea solo se c’è una base comune d’interessi, se c’è un clima di complicità. Spesso il dittatore vince le elezioni, c’è una maggioranza che lo vota e che accetta il suo programma di prevaricazione. In genere si è complici in un’azione criminosa, a danno di qualcuno, in questo caso di una minoranza, o di qualcosa, quali sono i principi morali e le regole in cui non ci si identifica più e finiscono per star strette. La storia non è fatta da un uomo soltanto ma sempre da una comunità. All’indomani della morte di Mussolini, la scrittrice Elsa Morante scrisse una pagina di diario molto significativa, in cui individuava perfettamente questo rapporto di complicità tra gli italiani e il tiranno da cui s’erano lasciati governare. Ritengo utile a questa serie di considerazioni riportarne uno stralcio:

“Durante la sua carriera, Mussolini si macchiò più volte di delitti che, al cospetto di un popolo onesto e libero, gli avrebbe meritato, se non la morte, la vergogna, la condanna e la privazione di ogni autorità di governo (ma un popolo onesto e libero non avrebbe mai posto al governo un Mussolini). Fra tali delitti ricordiamo, per esempio: la soppressione della libertà, della giustizia e dei diritti costituzionali del popolo (1925), la uccisione di Matteotti (1924), l’aggressione all’Abissinia, riconosciuta dallo stesso Mussolini come consocia alla Società delle Nazioni, società cui l’Italia era legata da patti (1935), la privazione dei diritti civili degli Ebrei, cittadini italiani assolutamente pari a tutti gli altri fino a quel giorno (1938). Tutti questi delitti di Mussolini furono o tollerati, o addirittura favoriti e applauditi.

Ora, un popolo che tollera i delitti del suo capo, si fa complice di questi delitti. Se poi li favorisce e applaude, peggio che complice, si fa mandante di questi delitti. Perché il popolo tollerò, favorì e applaudì questi delitti? Una parte per viltà, una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse o per machiavellismo. Vi fu pure una minoranza che si oppose; ma fu così esigua che non mette conto di parlarne. Finché Mussolini era vittorioso in pieno, il popolo guardava i componenti questa minoranza come nemici del popolo e della nazione, o nel miglior dei casi come dei fessi (parola nazionale assai pregiata dagli italiani). Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è cosiffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo tornaconto.

Mussolini, uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo. Presso un popolo onesto e libero, Mussolini sarebbe stato tutto al più il leader di un partito con un modesto seguito e l’autore non troppo brillante di articoli verbosi sul giornale del suo partito. Sarebbe rimasto un personaggio provinciale, un po’ ridicolo a causa delle sue maniere e atteggiamenti, e offensivo per il buon gusto della gente educata a causa del suo stile enfatico, impudico e goffo. Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura, alla fine. In Italia, fu il Duce. Perché è difficile trovare un migliore e più completo esempio di Italiano”.

Una pagina di straordinaria attualità che non dimostra affatto i suoi 65 anni di distanza. La Morante coglie l’esprit d’un popolo che, a quanto pare, non impara dai propri errori e che pertanto è destinato a ripeterli. Non era ancora risalito dal precipizio e già subito vi si ributta a capofitto. Quel che ancor più fa paura è che i meccanismi della corruzione causano un circolo vizioso che accelera l’avvitamento verso l’abisso. Un popolo che si sceglie come leader un uomo corrotto e lo lascia legiferare, pone lui e il suo sistema a migliore esempio a cui ispirarsi, e così ancor più rapidamente la società si corrompe. Una società corrotta nei suoi esempi e nelle sue istituzioni non può che influire negativamente sugli individui che la compongono, anche su quelli non particolarmente portati al male ma che facilmente possono restare condizionati dalle sue regole e dai suoi valori. Il sociologo Philip Zimbardo ha chiamato quest’influsso che trasforma persone normali in persone malvagie Effetto Lucifero. “Non è abbastanza – egli afferma – focalizzare l’attenzione solo su chi compie il male, ma anche sulle condizioni del sistema che supporta e mantiene l’abitudine al male. Intendo dire anche i valori legati alla cultura, alla legalità, alla politica, alla storia, che legittimano le persone che si comportano in modo malvagio”.

Se Hitler, Mussolini, Stalin o Nerone avessero trovato realizzazione in un’arte, mestiere o professione per cui, s’è visto, avevano mostrato inclinazione o, comunque, interesse sarebbero stati uomini migliori? Forse sì, perché se il potere assoluto corrompe assolutamente, essi sono stati sottoposti a maggiori sollecitazioni e tentazioni. O forse no, perché il cammino del bene o del male si compie a piccoli passi, un passo alla volta. Prima di cedere alle grandi tentazioni, si cede a tentazioni minori. Ci s’incammina verso l’abisso a costo di molti compromessi con la propria coscienza, dapprima più difficili da compiere poi sempre più facili; magari cercando di convincersi che si sta facendo la cosa migliore, perché, come recita l’adagio, la strada dell’abisso è lastricata di buone intenzioni. E il mondo, senza di loro, sarebbe stato un luogo migliore? Non credo. Perché la loro opera sarebbe stata compiuta da altri. Da altre anime inquiete e ribelli che avrebbero ceduto a un disegno malvagio scorgendovi perfino il segno dell’elezione. Certo dà i brividi pensare che dietro qualunque pittore, poeta, violinista, giornalista, cuoco o prete possa nascondersi in potenza un despota efferato, ma così è. Fa parte del solenne gioco della vita; dell’uso che facciamo della libertà che a noi tutti viene concessa e di cui un giorno dovremo rendere conto.

Per approfondire: Il vero burattinaio

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