martedì 26 agosto 2008

La nostalgia dell'Orso

Ci risiamo. Ecco che l’orso russo torna a mostrare i denti. Le sinistre colonne di carri armati lungo le strade dello stato sovrano della Georgia richiamano inevitabilmente Budapest ’56 e Praga ’68. Certo, complice la politica muscolare e miope dell’amministrazione Bush, tutta smaniosa di affermarsi nel ruolo di superpotenza egemone circondando l’orso d’un recinto NATO e di sistemi missilistici, d’imporre l’indipendenza del Kosovo, provincia serba, aprendo così un pericoloso precedente: perché ai contrabbandieri kosovari sì e ai contrabbandieri osseti no? Ma resta il fatto che l’orso ha aggredito uno stato sovrano, riprendendo l’abitudine molto sovietica di confinare con chi gli pare e di considerare i paesi limitrofi come entità politiche a sovranità limitata.

Quest’evento, che non si verificava da molti anni, viene avvertito come l’affermazione esplicita di una linea finora solo minacciata. Le sue implicazioni simboliche superano il fatto circoscritto al Caucaso, e qualcuno lo ha definito una vera svolta: la più decisiva della storia europea dalla caduta del Muro di Berlino. I Paesi ex satelliti (interni o esterni) hanno ben capito il cambiamento di prospettiva e i presidenti di Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania e Ucraina sono volati a Tbilisi per solidarizzare con Saakashivili. Quanto all’Europa occidentale, beh, il discorso è più complesso. La loro integrità territoriale per il momento non è in gioco e il petrolio russo costituisce un’arma ricattatoria efficacissima. Eccoli così tentare un’opera di composizione che ci auguriamo tutti non somigli a Monaco 1938 quando, con la finta mediazione dell’Italia, Gran Bretagna e Francia concessero ad Hitler giusto quel che egli s’aspettava, cioè i Sudeti e di fatto tutta la Cecoslovacchia. Allora il Duce si presentò al mondo come salvatore della pace per aver “indotto” il dittatore tedesco alla trattativa e, per inciso, suona inquietante il parallelismo con Berlusconi che avrebbe affermato: “Grazie a Dio il mio amico Putin mi ha ascoltato”. Quanto a Daladier e Chamberlain, tornarono a casa nel tripudio generale come salvatori della patria (piccolo dettaglio: sulla pelle degli altri). Tra le poche voci critiche quella di Churchill che, in un discorso alla Camera dei Comuni, si disse convinto di non prevedere la fine dell’incubo bensì l’inizio: “Regno Unito e Francia potevano scegliere tra la guerra e il disonore. Hanno scelto il disonore. Avranno la guerra”.

Il Cremlino sa benissimo che di fronte agli interessi nazionali non esiste alcuna “unione europea”, ma solo rivalità nazionali manovrabili a suo piacimento e reciprocamente paralizzanti. Gli basta solo agitare la siringa dei suoi oleodotti come un novello soma di Huxleyana memoria: “Mezzo grammo per un riposo di mezza giornata, un grammo per una giornata di vacanza, due grammi per un’escursione nel fantasmagorico Oriente” e, per i dissidenti che protestano, direttamente spruzzato nell’aria come aerosol. Si accomodino i mediatori gasolio-dipendenti. Una siffatta mediazione sa agli europei orientali di complicità, più o meno riluttante; così essi finiscono per correre sotto l’ombrello protettivo degli americani, di coloro cioè che finora hanno giocato con le paure e con le nevrosi del plantigrado russo.

Grazie al Cielo l’amministrazione Bush è giunta alla scadenza del suo mandato. Ma questa sana diffidenza nei confronti di Washington non deve servire da pretesto per non diffidare ancor più di Mosca che per l’Occidente, ormai è chiaro, non rappresenta un partner affidabile né, tanto più, una potenza amica. Ci eravamo illusi che la Russia, piegata dal crollo dell’impero comunista, imboccasse un percorso di democratizzazione e di integrazione con la comunità occidentale. D’altra parte non c’erano anche le comuni radici cristiane? Ma, a parte il fatto che il Patriarcato di Mosca, tra quelli ortodossi, è il più ostile alle chiese occidentali, il vero acclarato problema da cui il popolo russo non s’è mai liberato è il nazionalismo. Facendo leva su questa debolezza, Putin ha saputo stabilizzare il Paese imprimendo tuttavia una svolta autoritaria al regime e interrompendo il processo di democratizzazione. E siccome per legittimarsi un regime autoritario ha bisogno sempre più di far leva sul nazionalismo, eccolo avvitarsi in un circolo vizioso con la manifestazione di atteggiamenti sempre più aggressivi.

Mosca ha di nuovo fame d’impero. Le divisioni in Occidente e gl’interessi di bottega della “disunione europea” non fanno che rendere più baldanzosi i nostalgici delle trascorse glorie di sovietica memoria. La remissività delle democrazie gasolio-dipendenti non fa che accrescere l’arroganza e l’uso dei toni ultimativi di cui il regime di Putin fa sempre più sfoggio. Eccoci così tornare alla guerra fredda. La pausa di riflessione causata dal crollo dell’impero sovietico, chiamata anche “pace fredda”, non ha indotto i regimi strutturalmente autoritari ad avvicinarsi alla democrazia. In questi anni è sembrato che l’unica linea di frattura tra i popoli corresse tra modernità e tradizione, tra fondamentalismo islamico e Occidente democratico. In realtà le superpotenze autocratiche come Russia e Cina non stavano avvicinandosi all’Occidente ma stavano ripensandosi per non cedere ad un modello di cui esse, nazioni vaste e poco omogenee, non credono d’aver bisogno. Così la Cina ha liberalizzato solo la propria economia e la Russia si è affrettata a tornare all’autocrazia dopo un iniziale liberalismo imperfettissimo sia in campo economico che politico. Adesso è chiaro che gli assi di frattura tra le nazioni sono due, e il confronto/scontro di cui le democrazie occidentali devono prendere atto è con il fondamentalismo islamico ma anche con i regimi autocratici. E dato che questa contrapposizione è in entrambe i casi finalizzata in chiave antioccidentale sta avvenendo che i due rami, fondamentalista e autocratico, si alleino e in parte si sovrappongano.

La sede istituzionale di questa convergenza è la Shanghai Cooperation Organization, dal nome della città cinese che ha visto la sua rifondazione nel giugno del 2001. Fanno parte di questa organizzazione intergovernativa, oltre a Cina e Russia, le repubbliche ex sovietiche di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. Ufficialmente l’esistenza dell’organizzazione è motivata dall’azione congiunta contro le minacce del terrorismo, del separatismo e del fondamentalismo. Ma è una motivazione di facciata in quanto nel 2005 è stato assegnato lo status di osservatore a Pakistan e Iran, stati risaputamente fomentatori di terrorismo e fondamentalismo. Questi paesi, insieme a Mongolia e India, dovrebbero presto divenire membri a pieno titolo dell’organizzazione. Con il Gruppo di Shanghai la Russia si sta ponendo alla testa di una coalizione di stati, per tanti versi eterogenei, ma uniti dal potenziale militare che potrebbero dispiegare in chiave antiamericana e, più in generale, antioccidentale. A questa capacità di coalizzare si associa il potere d’interdizione, due strumenti adoperati alla grande dall’Unione Sovietica per ricavare peso e influenza nel consesso internazionale, e che da qualche anno Putin sta nuovamente utilizzando al servizio del neo-imperialismo russo.

Con tali premesse com’è possibile parlare ancora di “comunità internazionale”? L’esistenza di una comunità presuppone la condivisione di norme comuni basate su una morale e persino su una coscienza condivise. Si era pensato agli inizi degli anni Novanta che questa visione comune potesse raggiungersi, ma così non è stato. L’esempio più evidente ce lo offre il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che sembrava stesse riprendendo a funzionare ma che è in breve ricaduto nella sua ordinaria condizione di paralisi dovuta ai continui veti incrociati. Sui temi più importanti è evidente il completo disaccordo tra le nazioni democratiche e quelle autocratiche. E ci riferiamo in primo luogo a decisioni con forte valenza morale e umanitaria, quali potevano essere gl’interventi per fermare lo sterminio di popolazioni inermi in Ruanda, Darfur e Birmania. L’intervento in Kosovo fu deciso unilateralmente dalla NATO. Ciò fa pensare ad alcuni studiosi di politica internazionale che la crescente tensione tra le nazioni democratiche e quelle autocratiche, Russia in testa, porterà ad una maggiore coesione all’interno dei rispettivi gruppi di riferimento. Fa altresì prospettare la nascita di nuove istituzioni internazionali quali una lega delle Nazioni democratiche, che non si sostituisca all’ONU ma lo affianchi, aperto ai Paesi effettivamente democratici del pianeta, ove ci si consulti regolarmente allo scopo di discutere e risolvere quelle istanze che non trovino spazio al tavolo delle Nazioni Unite perché avversate dai regimi autocratici. Che poi le nazioni attualmente democratiche non rischino un’involuzione di tipo autoritario con l’avvicinarsi di gravi crisi planetarie, quali quella petrolifera, climatica, alimentare o demografica, è tutto da vedere. Ma quello è già un altro discorso.

Per approfondire: La Russia nella profezia escatologica

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