domenica 23 ottobre 2011

Strane rondini sulle primavere arabe

Svolazzano come avvoltoi e raggelano l’aria come certe mattine di fine autunno. E di avvoltoi e di iene ne stiamo osservando parecchi in questi giorni attratti dall’odore di sangue misto a petrolio. La cattura e il linciaggio di Gheddafi, il tiranno del popolo libico, occupa le prime pagine dei giornali altrimenti distratti dalla crisi finanziaria che incombe sul mondo occidentale. Quelle immagini crude, rese ancor più concitate dalle riprese malferme dei cellulari, vengono continuamente riproposte come la coazione a ripetere di un evento ove il sacro incontra il profano, ove banalizzando ciò che è solenne forse in qualche modo si cerca di esorcizzare quello che appare il destino non solo dell’uomo-Gheddafi ma dell’uomo in quanto uomo, del suo incerto futuro. E allora le risate concitate attorno alla preda turbano come il latrato delle iene nella notte, foriero di accadimenti tutt’altro che rassicuranti.

Si sta anche scrivendo di tutto sull’argomento. Tra le riflessioni che ho più apprezzato per la loro capacità di sintesi c’è il post di Massimo Gramellini dal titolo “Gloria Mundi”, pubblicato sulla Stampa di due giorni fa. Scrive Gramellini nel suo primo capoverso: “Non c’è mai nulla di glorioso nell’esecuzione di un tiranno. La vendetta resta una pulsione orribile anche quando si gonfia di ragioni. Ci vogliono Sofocle e Shakespeare, non gli scatti sfocati di un telefonino, per sublimarla in catarsi. Gli sputi, i calci e gli oltraggi a una vittima inerme - sia essa Gesù o Gheddafi - degradano chi li compie a un rango subumano”.

Gramellini poi prosegue magnificando la grandezza, la coerenza e la sensibilità dei nostri governanti che pocanzi baciavano la mano al beduino della Sirte e lo definivano “un grande alleato dell’Italia”, e adesso di fronte al suo corpo morente, trascinato sull’asfalto, ridotto in un cencio sporco di sangue, si complimentano con i vincitori e si abbandonano in esternazioni tipo: “Dobbiamo gioire” o “Una grande vittoria del popolo libico”.

Un sodalizio basato sui valori quello tra i nuovi padroni dei pozzi e i loro clienti, davvero incoraggiante per il nostro futuro. I commenti dei lettori, di fronte all’evento straordinario e solenne, colgono in qualche modo la condizione dell’uomo incastrato in mezzo al guado. Della bestia famelica che aspira alla condizione angelica ma l’unica evoluzione che riesce a compiere è quella tecnologica. Prima le sue battute di caccia le incideva sulle rupi, adesso le fissa con i telefonini ma la sua natura è rimasta quella dell’assassino e del predatore spietato e infingardo.

C’è chi si sforza di comprendere la reazione della folla (“Mi aiuto pensando a quello che hanno fatto loro, per anni e anni, ad altre persone uomini, donne, vecchi, bambini”). Ce persino chi giustifica pienamente il comportamento di un popolo che si libera del tiranno (“Beh io invece sono contenta per la fine che ha fatto. Anche se avrei preferito una morte peggiore, più atroce e lenta. perché sono una mamma anch'io e non posso non ricordare le vittime che ha mietuto senza pietà. Le sue parole, Gramellini, sono proprio penose. Si vergogni”).

Ma un buon numero di lettori, invece, coglie il brutto segnale che lancia chi combatte la tirannia usando i suoi stessi metodi. Pur essendo doveroso ricordare le vittime del dittatore, e i parenti delle vittime che tanto dolore hanno provato sulla loro pelle, è ancor più doveroso per chi spera in un’umanità più “umana” distinguersi dal tiranno. Gheddafi non andava trucidato ma processato e messo in prigione a vita. “Noi dobbiamo essere DIVERSI controllando i nostri istinti più feroci. Come possiamo pretendere di essere autorevoli e dimostrare che esiste un altro modo di essere uomini, più alto e meno vicino alla bestialità, se non ci distinguiamo dai carnefici?”. “Come al solito manca quel sentimento per i vinti che si chiama pietas che dovrebbe differenziarci dalle bestie!”. “Non è mai vittoria la violenza che vince sulla violenza!”. “Chi uccide non è mai un vincitore ma una vittima egli stesso”. “Che moralità è quella di chi, per la ragione più giusta, pesta e ammazza un uomo inerte? Come si può esaltare la vittoria del bene sul male quando questa avviene per mezzo della violenza?”. “È agghiacciante il binomio festa/uccisione. Legittima il sospetto che un piccolo dittatore violento alberghi anche in noi”. “Alla fine non c'è differenza tra tiranni e tiranneggiati: la differenza la farebbe il diverso comportamento di chi è stato vessato e perseguitato… invece quando i ruoli si invertono il perseguitato si comporta come il peggiore dei tiranni. Forse siamo tutti uguali: non è la ragione che ci guida ma sono le circostanze”.

C’è persino chi per questa violenza generalizzata, che emerge sempre uguale a se stessa, s’interroga sul destino non solo del singolo, o anche d’un popolo, ma dell’intero genere umano. “La storia è fatta di cicli, anche il nostro sta per concludersi, non abbiamo imparato nulla e siamo rimasti le bestie di uomini che eravamo, altro che esportare la democrazia”. Qualcuno vede una luce solo in un remoto futuro. “La violenza è parte del patrimonio genetico dell'essere umano e ci vorranno secoli se non millenni per ridurla, tramite la cultura, a livelli bassi”. Come dire: se l’evoluzione è solo migliorativa, alla luce di un presente che sembra negare quest’evoluzione, non resta che spostare in un futuro sempre più lontano l’attesa di quest’ipotetico evento migliorativo. Ma altri temono che l’umanità non farà in tempo ad assistere all’improbabile accidente evolutivo che estirpi dal codice genetico i nostri istinti più bestiali. “Ormai tutto il mondo è in rivolta, una feroce ribellione senza fine, senza vinti e vincitori. Negli uomini del 21° secolo emerge l’istinto bestiale di uccidere e godere uccidendo, istinto che credevamo ormai domato dalla civiltà e dalla cultura. Invece no, purtroppo. Che sia questa la vera fine del mondo? Non terremoti, vulcani e altre calamità naturali, bensì l’uomo che uccide se stesso?”.

Non mancano poi quelli che la buttano in politica, che si soffermano sull’atteggiamento vile, opportunistico e cinico dei nostri governanti. “Mai articolo è stato così denso come questo. Bravissimo per aver dipinto uno stato, quello italiano, dalla morale incerta, dal senso di pudore di una sfatta baldracca e dalla civiltà perduta. Questa è l'ennesima dimostrazione che buona parte degli italiani, quelli che ora festeggiano la morte di Gheddafi, non solo è inaffidabile, ma dimostra il prezzo della sua codardia”. “Davvero ancora una volta questi politicanti dal mediocre profilo etico hanno perso una preziosa occasione per dimostrare di possedere un briciolo di umanità in più e un po’ di ipocrisia e di cinismo in meno. Ancor più alla luce delle loro recenti frequentazioni con il Rais. Che tristezza...”

Ma anche il giudizio sui governanti altrui non è meno critico. Costoro più attenti dei nostri a esternare ma nei fatti non meno cinici. “Ma tu guarda: questa guerra è stata combattuta per il petrolio! Meno male che me l’hanno detto…. Altrimenti avrei continuato a pensare che fosse per motivi umanitari, per esportare un po’ di democrazia. Tanto da noi se ne produce parecchia!”. La stessa eliminazione del rais insieme ai suoi scomodi segreti viene sospettata come pilotata dall’alto. “Troppo comodo ucciderlo, troppi segreti spazzati via con la sua morte”. “Il Rais alla sbarra sarebbe stato assai “imbarazzante” per europei e americani e viceversa molto illuminante per la Storia”. “Arrivati alla fine, i dittatori fanno più “comodo” morti che processati. A tanti conviene più Gheddafi morto con i suoi segreti, che non Gheddafi sotto processo pronto a parlare per aver clemenza: conviene a molti governi, con cui il Rais ha intrallazzato non sempre alla luce del sole”. “Non è proprio vero che all'estero siano così più "sensibili" di noi… e basta con questa esterofilia così italianeggiante… La primavera araba è cominciata e continua sotto i peggiori auspici”.

E qui, lasciati i governanti senza valori che implicano società senza valori solo superficialmente libere e democratiche, passiamo al timore molto diffuso che anche queste cosiddette primavere arabe di primavera abbiano ben poco. C’è chi osserva l’evento dalla prospettiva cinica (definita, con termine neutro, “realismo politico”) che è propria della cultura dominante. “Gheddafi era quello che era, ma in ogni caso fungeva da argine contro i fondamentalisti islamici. La stupidità di Obama, degli Inglesi e dei Francesi ha aiutato gli oppositori Tunisini ed Egiziani. Con la caduta di Ben Alì, di Mubarak e Gheddafi, si è regalato tre stati chiave ai fondamentalisti. Abbiamo perso degli alleati e guadagnato dei nemici. L'idiozia umana non ha limiti”. Ma, cinismo a parte, è comprensibile la preoccupazione di chi si chiede dove condurrà questo moto di ribellione contro le dittature laiche che hanno fatto comodo ai governi occidentali ma che hanno anche impedito che questi popoli cadessero sotto il giogo medievale di ancor più opprimenti dittature confessionali. Abbiamo guardato con simpatia a questi giovani “indignados” dell’altra sponda che usavano Twitter e Facebook per rivendicare il loro diritto alla libertà, ma quei popoli non son fatti solo di giovani e non tutti i giovani hanno ben presente che la libertà è tale quando include quella altrui. L’emancipazione delle donne, la libertà di pensarla diversamente, di professare un’altra fede (o di non professarne alcuna) e di farne propaganda sono proprio concetti ardui da afferrare presso le società islamiche. Nella “laica” Tunisia vigeva il reato di apostasia e chi andava in giro con una Bibbia in borsa rischiava l’arresto. Persino nella Turchia di Atatürk, non dico di Erdogan, era praticamente impossibile fare proselitismo. Il recente massacro di cristiani copti in Egitto è davvero un cattivo segnale. In Tunisia il partito che si appresta a vincere l’elezione dell’assemblea costituente è l’Ennahda islamico. I suoi esponenti dicono d’ispirarsi a quello moderato di Turchia, l’Akp, ma stando ad altre loro dichiarazioni c’è poco da essere ottimisti sulla nuova costituzione che uscirà da quell’assemblea. E tornando alla Libia, pensando al modo sbrigativo in cui si eliminano i nemici di oggi c’è da preoccuparsi sul trattamento che sarà riservato agli avversari di domani. “Che paese verrà fuori da inizi così selvaggi?”, si chiede un lettore. Un altro osserva: “Io prima di cantare vittoria, aspetterei di vedere come si svilupperà la futura Libia. Speriamo in bene. Ma attenzione al fondamentalismo, che ha impiegato molti uomini in questa guerra: chiederà la sua parte. A vedere le esecuzioni senza processo, qualche dubbio sul futuro democratico di quel paese è legittimo. Solo il tempo dirà chi era il Rais, e chi saranno i suoi successori”. Analogamente un altro afferma: “Fa impressione l'esultanza di un popolo che per 42 anni lo ha appoggiato ed osannato. C'è il conformismo, c'è la paura del momento, c'è il legittimo risentimento di alcuni per una oppressione durata troppo a lungo. Ma lo strèpito attuale non deve far dimenticare il silenzio dei molti che in Libia non festeggiano. La prospettiva di una Libia in mano a fanatici islamici non è irrealistica”. Poco rassicuranti a tal proposito sono le dichiarazioni di Mustafa Abdel Jalil, presidente del Consiglio Nazionale di Transizione libico, sulla volontà di fare della sharia la fonte del diritto della nazione che sta nascendo. “Ogni norma che contraddica i principi dell’islam non avrà più valore”, ha rincarato il medesimo. E questa seconda dichiarazione è ancora più inquietante, perché in qualche modo tutte le società musulmane si ispirano alla sharia (cioè alla Legge di Dio che ha come fonte il Corano e la Sunna) però non tutte le legislazioni nazionali accettano di farne una sorta di costituzione insindacabile. Quando ciò avviene abbiamo lo stato confessionale che per definizione è antidemocratico in quanto trae la sua legittimazione da "Dio" anziché dal popolo, con tutte le conseguenze possibili e immaginabili sul pluralismo e sul rispetto delle libertà individuali.

Quel che sta accadendo in Nordafrica e in Medio Oriente merita la massima attenzione perché si prospetta come un avvenimento epocale; una sorta di spartiacque con il passato così come fu la caduta del muro di Berlino. Porterà libertà o maggiore oppressione per quei popoli? In qualche modo hanno ragione coloro che sostengono che la democrazia non è un bene esportabile, tout court? Anche se spesso, come ben sappiamo, questa affermazione serve a giustificare il cinismo e la rapacità dei cosiddetti paesi sviluppati; o, al contrario, posizioni puramente ideologiche in funzione antioccidentale. D’altronde se consideriamo il disprezzo che noi stessi sembriamo riservare alle libertà democratiche, nonostante il prezzo con cui esse siano state conquistate, come non temere per la loro affermazione in contesti culturalmente a loro lontani? Eppure quel che accade lì ci riguarda molto da vicino. E purtroppo, per gli attriti che potrà sprigionare, riguarda anche gli interessi delle nuove potenze asiatiche emergenti. Si prospetta pertanto, sulla base dei prossimi sviluppi, un rimescolamento di accordi e alleanze, complicate dalla presenza dello stato d’Israele e del conflitto irrisolto con le popolazioni arabe confinanti. Affronteremo questo tema in una prossima riflessione.

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