sabato 20 dicembre 2008

Winter Light Festival

Nei primi giorni di novembre è circolata notizia che il consiglio comunale di Oxford ha deliberato la cancellazione del Natale tra le ricorrenze cittadine sostituendola con il Winter Light Festival, la Festività della Luce Invernale. Ed Turner, vicesindaco dell’illustre cittadina universitaria, ha però tenuto a precisare che le celebrazioni con i cori natalizi ed anche il grande albero nella piazza principale non saranno negati alla cittadinanza. Tei Williams, portavoce dell’associazione Oxford Inspires che ha ispirato il provvedimento, ha cercato di tranquillizzare i perplessi assicurando che il Winter Light Festival è ben più del Natale poiché per due mesi è prevista una ricca programmazione di spettacoli ed eventi vari che daranno il giusto contributo alle attese economiche e d’intrattenimento legate alle festività di fine d’anno. Ciò che insomma verrebbe a mancare è “solo” l’esplicito riferimento alla specifica festività religiosa del Natale al fine di “ridimensionare l’eccessiva risonanza della festività cristiana a discapito delle altre religioni”. L’obiettivo, all’insegna del “politically correct”, sarebbe pertanto quello di rendere l’evento festivo “più inclusivo” in omaggio allo spirito multietnico del Paese e al rispetto delle minoranze religiose. Evidentemente queste rassicurazioni non sono bastate, poiché la comunità cristiana locale, a cominciare dalla Chiesa anglicana, ha criticato con fermezza il provvedimento. È significativo il fatto che anche le minoranze religiose hanno disapprovato la decisione, smentendo così di fatto la motivazione ufficiale che la voleva determinata dal desiderio di non ferire la sensibilità religiosa delle altre culture e di essere “più inclusivi verso le comunità non cristiane”. “Semplicemente ridicola”, la giudica Sabir Hussain Mirza, presidente del Muslim Council di Oxford; e prosegue: “Sono molto dispiaciuto da questa situazione. Il Natale è speciale. Cristiani, musulmani e fedeli di altre religioni, guardiamo tutti a questa festa e siamo felici di aspettarla”. Tra l’altro, anche i musulmani conoscono il Natale che chiamano “Aid al Ualid”. Sebbene non lo festeggino come le altre feste islamiche, non va dimenticato che essi considerano Issa-Gesù uno dei profeti. Anche per il rabbino Eli Bracknell, insegnante presso il locale Jewish Educational Centre, “è importante conservare la tradizione natalizia, diluirla fa solo male all’identità di questo Paese”.

Ma allora, se le minoranze religiose non c’entrano con questa decisione, qual è la vera ragione che l’ha determinata? Invero il comune di Oxford non è la prima amministrazione civile che si sbarazza del Natale. Qualche anno fa Manchester l’aveva ribattezzato Winterval, e una municipalità di Londra l’aveva eliminato persino dalle decorazioni. Due anni fa il ministero britannico degli Interni decise di scrivere sui suoi biglietti d’auguri: “Season’s Greetings”, cioè auguri di stagione. Vi era raffigurato l’albero di Natale collocato a Trafalgar Square, ma la parola Christmas era sparita per non turbare chi cristiano non era. Tuttavia nell’immaginario collettivo il provvedimento preso da Oxford, la capitale britannica della cultura, assume un significato particolare: è come se l’identità culturale del Paese si dissociasse dal simbolo più caratteristico della cristianità. Davide Rondoni scrive su Avvenire che uccidendo la parola Christmas la città dei sapienti vuole sbarazzarsi di Christ. Cancellano Christmas per provare a cancellare Christ, perché quel nome è al di sopra di ogni altro nome, e ciò dà fastidio ai saggi: gli ricorda che la signoria del mondo non è nelle loro mani, gli rammenta che è lui il vero Lord. I saggi di un tempo sobillarono il popolo, si appellarono a Cesare, lo vollero morto. I saggi di oggi, quelli che imprimono i loro nomi sui libri e sulle targhe dei loro studi, trovano nuovamente opprimente il nome di Christ, e accampano ogni scusa per cancellarlo, persino la preoccupazione di non escludere coloro che invece non si sentono affatto esclusi e, sebbene non cristiani, attendono volentieri quel giorno.

E così questi saggi, falsi portavoce di musulmani ed ebrei, si sbarazzano del Natale sostituendolo – essi affermano – con qualcosa di più utile e corretto politicamente. Ed ecco allora coniare formule più “laiche” quali: stagione festiva o festa della luce d’inverno. Perché non allora – suggerisce un lettore – festa dell’insostenibile leggerezza dell’essere o festa del vuoto interiore nel pieno del nulla autunnale? da aggiungere alle tante altre eccitanti e disimpegnate quali Halloween, carnevale, festa del telecomando, di Harry Potter, del vuoto pieno, dello sballo, ecc.? Anche mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, sottolinea la discrepanza tra ragioni addotte e ragioni profonde che stanno alla base del provvedimento di Oxford. Le ragioni apparenti sono inconsistenti non solo perché smentite dalle minoranze chiamate in causa, ma soprattutto perché l’eventuale desiderio di stabilire un dialogo che non prevarichi non può non tenere conto, per compiacere gl’interlocutori, della cultura cristiana in cui si riconosce la parte prevalente. Il vero dialogo lo si costruisce proprio attraverso le identità e non stingendo fino al punto di estinguere la propria identità. Allora ecco che bisogna desumere una diversa ragione, ben più profonda di quella che appare sul momento come una semplice stravaganza, e più o meno consapevole di una grandezza che sta alle proprie spalle, che costruisce il proprio stesso volto. "Mentre in passato, quando si combatteva la presenza dei segni religiosi, lo si faceva con delle argomentazioni, persino con il desiderio di opporre un sistema del tutto alternativo, ora, invece, tante volte, questa avanzata della negazione è una specie di onda grigia, di nebbia; si vuole introdurre proprio una componente così fluida ed inconsistente che è la caratteristica della secolarizzazione attuale", afferma Ravasi. "Dio non viene negato, viene del tutto ignorato e l'impegno pastorale è ancora più complesso perché di fronte ad una negazione si possono apportare le argomentazioni. Di fronte invece a questa sorta di 'gioco di società' incolore, inodore, insapore, c'è, alla fine, l'impossibilità di una reazione". "Ora noi non abbiamo più l'ateismo nel senso forte, qualche volta drammatico del passato. Noi ora abbiamo l'indifferenza. Questa indifferenza stempera tutto, stinge, scolora, e alla fine, forse impedisce all'uomo anche di interrogarsi - come fanno tutte le grandi religioni - sui temi fondamentali, temi capitali che vengono invece dissolti nell'interno di un'atmosfera così inconsistente".

Certo, è legittimo chiedersi a questo punto se le Chiese non abbiano le loro colpe per la situazione di indifferenza in cui ci troviamo. Non raccogliamo oggi il frutto di una pratica religiosa formale e superficiale che ha trascurato di formare le menti dei fedeli e di conquistare i loro cuori? E nella fattispecie – si domanda un altro lettore – «quanti inglesi vanno a messa tra i cattolici o al culto domenicale tra gli anglicani e gli altri riformati nella cittadina di Oxford? Sarebbe interessante stabilire se esiste una correlazione tra lo svuotarsi dei templi e delle attività di culto e di catechesi e questa improvvida, per nulla "politically correct" (essendo scorretta nei confronti del cristiani) iniziativa, che di "laico" non ha nulla». È certo che l’indifferenza religiosa, quando di non vero ateismo militante, in Inghilterra ha raggiunto livelli sconosciuti persino da noi, che pure non scherziamo. Il giornalista Pigi Colognesi al fatto di Oxford ha voluto collegare un’altra notizia proveniente dall’Inghilterra in quegli stessi giorni. Riporto buona parte del suo articolo che ritengo molto significativo e appropriato: «Sui bus e nelle metropolitane di Londra è comparsa nelle scorse settimane la seguente scritta pubblicitaria: “Probabilmente Dio non esiste. Dunque smettete di preoccuparvi e godetevi la vita”. L’iniziativa è partita da un blog del giornale progressista Guardian e, dicono gli organizzatori, ha avuto un successo clamoroso: si dovevano raccogliere cinquemila sterline per una piccola campagna pubblicitaria e ne sono arrivate oltre centodiciassettemila. Scopo del messaggio è quello di "rassicurare" chi si sente minacciato dal ritorno del fervore religioso. È chiaro, infatti, cosa i sostenitori dell’iniziativa (tra loro figura Richard Dawkins, diventato celebre per un libro sulle "ragioni per non credere") intendano per Dio: un nemico della vita. Coi suoi precetti e divieti, con la minaccia della punizione eterna, con le sue regole soffocanti questo simulacro di Dio appare evidentemente un ostacolo per la realizzazione dell’uomo. E quindi la constatazione che "probabilmente" non esiste fa tirare il fiato. Ma siamo così sicuri che, senza Dio, noi possiamo “goderci la vita”? Come dovremmo fare? Occorrono un sacco di condizioni di non facile raggiungimento (e questo lo slogan ateistico tende a nasconderlo): bisogna avere la salute e un lavoro soddisfacente, disporre di un minimo di agiatezza economica, essere capaci di instaurare rapporti interpersonali ed affettivi appaganti. E poi è necessario che la situazione intorno a sé consenta di godersela, la vita. Se sei seduto sul bus (magari quello con la scritta ateistica sulla fiancata) e ti schiacciano un piede, tutto il tuo godimento se ne va. E non basta. Siamo sicuri che uno possa tranquillamente godersi la vita quando legge quello che legge sui giornali? Le migliaia che fuggono dai loro villaggi in Congo o quelli che perdono il posto di lavoro perché la banca fallisce; i cristiani ammazzati in India e la bambina lapidata in Somalia. Ci vorrebbe un po’ di giustizia perché questa vita sia davvero godibile. Ma anche guardando più da vicino: come farei a “non preoccuparmi” se una persona che mi è cara soffre, è scontenta, magari un pochino depressa? Insomma “godersi la vita” è un affare complicato. Ma, soprattutto, cos’è questa vita che dovrei godermi? È la somma di salute, affetti, lavoro, soldi, circostanze più o meno favorevoli? È il susseguirsi di raggiungimenti parziali e sempre effimeri? Non c’è, invece, in ognuno l’urgenza di trovare qualcosa che dia consistenza e durata a tutti quei fattori? Non vive ognuno lo struggente bisogno di un “godimento” che non lasci fuori nulla e che sia permanente? Della felicità, insomma. Questa esigenza non apre forse la prospettiva su un orizzonte infinito e misterioso, quello che gli uomini hanno sempre chiamato Dio? Limitare simile apertura non è un rimpicciolimento della persona, una sua riduzione a misure meschine, quelle facilmente gestibili da un potere prodigo di “godimenti"? L’uomo che è nato quel giorno di duemila anni fa ha detto che proprio per camminare verso la felicità ogni uomo è venuto al mondo e che la misura del suo desiderio è infinita. È per questo che gli amministratori di Oxford vogliono farci dimenticare il suo Natale?» (P. Colognesi, Da Oxford agli autobus, l'illusione di essere felici eliminando Dio, ilSussidiario.net, 7/11/08).

Allora questa cultura che produce indifferenza per Dio, o persino ostilità; che ne fa un simulacro soffocante e minaccioso, un nemico della vita, un ostacolo per la realizzazione dell’uomo; alla fine è logico che ne provochi pure la rimozione nel nome delle pari opportunità a favore delle minoranze etniche ma, in realtà, della maggioranza indifferente e persino dichiaratamente atea. Un’altra recente notizia è quella che la commissione britannica per le pari opportunità ha denunciato l’associazione Scout per discriminazione nei confronti degli atei. Il loro motto recita infatti: “Sul mio onore prometto che farò del mio meglio, il mio dovere al cospetto di Dio e della Regina, per aiutare altre persone e rispettare la legge degli Scout”. Come la mettiamo con i due terzi degli adolescenti che si dichiara non religioso? Per entrare negli Scout non resta loro che mentire. La Humanist Association e la National Secular Society sono indignate ed auspicano che quanto prima l’associazione rimuova dal suo motto la frase “fare il mio dovere nel cospetto di Dio”. Come sorprendersi allora di questo diffuso imbarbarimento delle giovani generazioni private degli ideali cristiani e, con il fallimento delle ideologie, di ogni ideale? Tranne che vogliamo considerare ideale quello legato al consumismo: il sesso, l’abbigliamento più o meno stravagante, lo scooterino; o i rituali del gruppo: ubriacature, prove di coraggio e di destrezza, accoltellamenti. Sono i dati che parlano: in Inghilterra negli ultimi sei anni la criminalità minorile è aumentata del 27%; un numero sempre crescente di teenager si ritrova ad avere a che fare con la giustizia ben prima della maggiore età. In alcune aree del paese i baby delinquenti sono pressoché raddoppiati e i loro crimini, spesso omicidi per futili motivi, ormai non fanno quasi più notizia. E non è che altrove in Europa le cose vadano molto meglio.

Quel Winter Light Festival suggerisce, inoltre, altri richiami. L’uomo ha bisogno di credere in qualcosa e se al Natale si toglie Gesù Cristo esso torna ad essere ciò che era una volta, prima che i cristiani ne facessero la loro festa più bella. Torna ad essere la festa del solstizio d’inverno, il natale del sole. Nell’Inghilterra scristianizzata, oltre agli indifferenti e agli atei, sono in aumento i culti neopagani. La festa della luce invernale è un modo per richiamare l’uomo preistorico che dorme dentro di noi. Eliminando Dio divinizziamo i suoi strumenti di vita. I celti, gli antichi abitanti delle isole britanniche, adoravano il sole. Tacito descrive le danze dei druidi inglesi all’interno del cerchio di pietre quando il sole nascente del solstizio d’estate colpiva con i sui raggi l’altare centrale di Stonehenge. Ed oggi attorno al complesso megalitico, ogni anno nel giorno più lungo si danno appuntamento oltre 20 mila neopagani. Ma i celti, come tutti i popoli del nord, celebravano i loro riti anche nel solstizio d’inverno. Presso germani e scandinavi in questo periodo ricorreva la festa di Yule, durante la quale venivano evocati demoni e spiriti dei morti. Vischio e agrifoglio che decorano il Natale nordico provengono da quella ricorrenza pagana che in Islanda si protrasse per tutto il medioevo. Ma è l’Inghilterra che ha rappresentato uno dei più forti epicentri della rinascita pagana, frammischiata all’occultismo, a partire dal XIX secolo con la continuazione dell’antica religione celtica, divisa in numerose organizzazioni e chiamata nel suo complesso Druidismo o Celtismo. Sempre in Inghilterra, fondata dall’esoterista Gerald Gardner, è sorta la Wicca, la più seguita religione neopagana che si riallaccia all’antico culto della Dea Madre. Oggi che la fede cristiana si sta ritirando, il vecchio paganesimo sta riprendendo inatteso vigore e cresce con un tasso stimato al 143% annuo su scala mondiale: il più alto in termini relativi rispetto alle altre fedi. Un vero schiaffo per le Chiese cristiane che appaiono aver fallito miseramente il loro compito di educare gli uomini alla fede viva. D’altronde non fu Gesù che, guardando avanti nei secoli, si chiese sconsolato se al suo ritorno avrebbe ancora trovato fede sulla terra (Lc 18:8)? E allora anche questa Festività della Luce Invernale, se vogliamo, è un segnale che andiamo in quella direzione. Questi adoratori del sole anglosassoni, che detestano visceralmente la nascita di Cristo, che desiderano ridimensionarne l’eccessiva risonanza, come ha detto qualcuno, “speriamo almeno che per i sacrifici umani aspettino ancora un po’”.

Per approfondire: Natale, vale o non vale?

Lascia un commento

domenica 30 novembre 2008

Obama e la religione

Se ne sono sentite tante sulla fede di Barack Obama: che segretamente è musulmano, che fa ostentazione opportunistica di fede cristiana, che condivide le posizioni antiamericane di Jeremiah Wright, leader della Chiesa in cui s'è battezzato e s'è sposato. Dando una scorsa alla sua biografia queste accuse appaiono infondate. Sebbene il padre (un medico keniota) provenisse da un ambiente musulmano, si dichiarava agnostico e comunque ha influito molto poco sulla vita del figlio giacché divorziò dalla madre di Barack jr. quand’egli aveva ancora due anni. I nonni materni del neopresidente erano cresciuti in famiglie battiste e metodiste ma, come egli afferma nella sua autobiografia, “la fede non ha mai veramente messo radici nei loro cuori”; la stessa madre, per le esperienze vissute, non fece che rafforzarsi in “questo scetticismo ereditato”. Fu quand’egli aveva circa vent’anni, collaborando con alcune chiese locali, che si verificò il suo avvicinamento alla fede cristiana; grazie all’accento che la tradizione afro-americana poneva nel cambiamento sociale, un tema a cui già allora egli era particolarmente sensibile. Come egli stesso raccontò, “fu a causa di queste nuove comprensioni, cioè che l'impegno religioso non richiedeva di sospendere il pensiero critico, di smettere di lottare per la giustizia economica o sociale, o di ritirarmi da quel mondo che conoscevo e amavo, che fui finalmente capace di camminare nella navata della Trinity United Church of Christ ed essere battezzato. Fu una scelta consapevole, non una rivelazione; le domande che mi ponevo non sparirono di colpo. Ma inginocchiandomi sotto la croce nel South Side di Chicago, sentii lo spirito di Dio che mi attraeva. Mi piegai alla Sua volontà, e mi dedicai a scoprire la Sua verità”.

È una vera professione di fede cristiana che, in qualche modo, lo accomuna al presidente uscente. D’altronde anche Bush ha raccontato della propria conversione avvenuta in età adulta che ha costituito un momento di svolta della sua vita. Inoltre, lo stesso Obama ha dichiarato che la fede non è un aspetto da tenere separato dal dibattito sulla cosa pubblica e dalle decisioni in politica. Egli si è pronunciato più volte sull’argomento, ma, detto questo, le convergenze con il presidente uscente finiscono qui. La novità espressa da Obama è avvertita anche nella scettica Europa, abituata alla separazione tra politica e sfera religiosa privata. Infatti i nostri politici, mentre storcono il naso quando sentono George W. Bush menzionare Gesù da cui trarrebbe ispirazione, appaiono più condiscendenti quando Barack Obama fa la stessa cosa. Perché? La ragione deriva evidentemente dalle conseguenze che egli fa derivare da questo accostamento. Lo ha spiegato chiaramente in un discorso tenuto nel mese di giugno: “Penso che sia un errore – ha affermato il senatore dell’Illinois – non riconoscere la forza della fede nella vita degli americani e non addentrarsi in un dibattito su come conciliare la fede e la nostra democrazia moderna e pluralistica. È un assurdo pratico dire che uomini e donne non dovrebbero far confluire la propria morale personale nei dibattiti pubblici”, giacché “il nostro diritto è per definizione una codifica della morale, basato in larga misura sulla tradizione giudaico-cristiana: se noi progressisti riuscissimo a disfarci dei pregiudizi, potremmo riconoscere l’esistenza di valori convergenti, condivisi da credenti e laici quando si tratta della direzione morale e materiale del nostro paese”.

Per afferrare in tutta la sua portata la novità espressa in questa dichiarazione, bisogna inserirla nel contesto socio-culturale a cui è indirizzata. Al contrario di quanto avviene in Europa, sia Bush che Obama non potrebbero mai dissociare la loro immagine politica da quella religiosa, oggi men che mai. Sebbene si muovano in uno spazio politico che non potrebbe essere più divergente, essi sono comunque vincolati alle comuni radici rappresentate dal cosiddetto americanismo religioso. Gli Stati Uniti, al contrario delle democrazie europee, non sono sorti a dispetto della religione. La democrazia si fece largo in Europa combattendo la Chiesa e la religione, senza distinguere tra le due, e maturando pertanto una forte avversione per entrambe. Altrettanto non è avvenuto in America dove la democrazia è da sempre sorretta da una forte sensibilità religiosa. Ancora oggi l’80% degli americani dichiara di credere in Dio, e il 60 afferma che “la religione svolge un ruolo importante” nella sua vita. I vari emendamenti alla Costituzione in materia di religione non sono stati concepiti per tener lontana la fede dalla gestione della cosa pubblica ma per impedire alle assemblee civili di legiferare a danno della libertà di coscienza. Quest’identificarsi in valori comuni fortemente determinato dal prevalente sentire religioso, e da cui non possono prescindere né la codifica del diritto né il dibattito politico, è anche definito “religione civile”.

Il fatto stesso che i legislatori americani abbiano dovuto integrare la Costituzione, poco dopo la sua promulgazione, con emendamenti che garantissero dall’ingerenza della legislazione civile nella libertà di culto e di coscienza, e gli innumerevoli tentativi volti ad abolire o a depotenziare tali emendamenti, sono la prova che le interferenze della religione nel dibattito politico ci sono sempre state. Talvolta tali interferenze erano determinate da movimenti organizzati in associazioni, e ciò accadeva già nei primi decenni dell’800. A cavallo tra la prima guerra mondiale e la guerra del Vietnam si era avuta l’impressione che l’America si stesse secolarizzando e lo stesso mondo accademico vide rafforzarsi al suo interno forti correnti laiciste. Il movimento per i diritti civili, consolidatosi tra gli anni ’60 e ’70, pose nuove domande sulla scena politica spesso in contrasto con le posizioni del conservatorismo religioso. Ciò che nessuna maggioranza politica avrebbe potuto compiere, nonostante questa nuova sensibilità, fu realizzato dalla Corte Suprema. Essa infatti, con una serie di memorabili sentenze, incise profondamente su aspetti importanti della vita sociale connessi alla sfera morale e personale. Tra l’altro, rispettivamente nel 1962 e nel 1963, essa decretò l’incostituzionalità della preghiera e della lettura della Bibbia nelle scuole pubbliche e, nel 1973, l’incostituzionalità delle norme che vietavano l’interruzione volontaria della gravidanza. Sempre nel verso di una più marcata laicizzazione delle istituzioni civili s’indirizzarono le scelte del presidente Kennedy già nei primi giorni della sua lunga campagna elettorale. Nel suo famoso intervento presso la Greater Houston Ministerial Association nel 1960, egli auspicò “un’America ove la separazione tra Stato e Chiesa fosse assoluta”. Egli dichiarò con fermezza che la fede di un presidente dovrebbe essere “un suo affare privato”, intendendo così che la fede del primo cittadino non avrebbe dovuto avere alcuna influenza nelle politiche pubbliche. Tra l’altro, egli si disse contrario ad ogni sovvenzione governativa alle scuole parrocchiali così come al mantenimento di un ambasciatore americano presso la Santa Sede. Per Kennedy questa dichiarazione di principio era in realtà una presa di distanze dal Vaticano che d'altronde, a quel tempo, non aveva ancora riconosciuto il diritto alla libertà religiosa e rimaneva ambiguo rispetto al concetto di democrazia; egli era il primo candidato cattolico alla presidenza e doveva far passare il messaggio che non avrebbe preso ordini dal Papa. Per stessa ammissione del suo entourage, Kennedy portò i principi di laicità più lontano di quanto egli stesso avrebbe voluto. Così la sua presidenza divenne una sorta di spartiacque con il passato; e le sue affermazioni fondarono una nuova ortodossia che per molti decenni ha sanzionato come politicamente scorretta l’intrusione nel dibattito pubblico di tutti coloro che erano mossi da motivazioni religiose. Il discorso di Houston, definito in seguito anche Concordato del 1960, ha soprattutto condizionato le linee guida del partito democratico che da allora ha assunto un taglio laicista e ha condotto molti credenti democratici fuori dal loro partito.

Questa impostazione laicista toccò meno il partito repubblicano perché esso nel frattempo cominciava a comprendere l’importanza del bacino di voti costituito dalla cosiddetta “America profonda”, quella rurale degli stati interni e del sud conservatore. Quella posta in ombra dalle élites secolarizzate delle città costiere ma nient’affatto annichilita. Essa, allarmata dalle vittorie ottenute dal movimento per i diritti civili viste come un attacco ai valori tradizionali e all’ordine sociale e familiare, cominciò ad organizzarsi in numerose associazioni di base. Ci si accorse di quest’America per lungo tempo silenziosa, nel 1976, con l’elezione di Jimmy Carter, politicamente un progressista ma esponente di quel mondo religioso evangelical considerato bigotto e illetterato. Furono però esponenti repubblicani a creare l’embrione di quella che oggi conosciamo come Destra Cristiana dal cui seno sono scaturite importanti organizzazioni tra cui la più nota, per buona parte degli anni ’80, fu la Moral Majority di Jerry Falwell. Possono considerarsi tre le tappe che portarono la Destra Cristiana a introdursi sempre più autorevolmente nei palazzi della politica e del potere. In una prima fase, durante la stagione reaganiana, essa agiva prevalentemente fuori dalle sedi istituzionali, con l’attivismo di base, facendo pressione sui politici ad essa culturalmente più vicini e disposti a sponsorizzare il suo programma di lotta contro l’aborto, la parità dei sessi, i diritti degli omosessuali, l’insegnamento dell’evoluzionismo e dell’educazione sessuale, per la reintroduzione della preghiera nelle scuole e l’appoggio incondizionato ad Israele. Ma questa strategia si rivelò poco remunerativa. Più risultati si ottennero con la seconda fase, che fece perno sulla Christian Coalition di Pat Robertson, che si fece essa stessa movimento politico, appropriandosi degli strumenti e del linguaggio della politica. Essa s’infiltrò pervasivamente all’interno del partito repubblicano, prendendone il controllo in molti stati, come fu evidente durante la convention repubblicana per le presidenziali del 1992. Allora il movimento portò il 40% dei delegati e impose a Bush padre il vice presidente (Dan Quayle) e la linea del suo programma elettorale. Ma fu nella terza fase, durante le elezioni presidenziali del 2000, che la Destra Cristiana riuscì a giocare un ruolo decisivo nella politica americana e, persino, internazionale. Dapprima nella lotta per le primarie, quando si spese con forza a favore di George W. Bush (ritenuto dal movimento “uno dei nostri”) e contro John McCain, giudicato troppo liberal. Quel confronto nel partito repubblicano rese evidente la perdita di peso della corrente liberale e progressista interna a quel partito. La destra religiosa ebbe altresì un ruolo decisivo nella successiva campagna presidenziale che portò alla vittoria di Bush su Al Gore, sia pur di misura. Ed ebbe un ruolo ancor più determinante nella sua rielezione che lo vide trionfare, nonostante gl’insuccessi della guerra in Iraq, proprio per l’impostazione che egli diede a difesa della fede e dei valori tradizionali.

Bush, “uno dei loro”, che ben conosce e sa perfettamente manipolare la semantica di questa subcultura religiosa. Egli ha dimostrato di saper usare il linguaggio fondamentalista e di rimanerne a sua volta influenzato. Come ha osservato Newsweek, infatti, egli è un uomo che “fa sempre affidamento sulle sue credenze per sapere ciò che è giusto”. Non che sia il primo presidente a insistere sulle proprie radici religiose e a citare versetti della Bibbia, ma certamente mai prima di lui alla Casa Bianca la religione aveva esercitato un peso così schiacciante. È anche vero che la sua posizione non si può perfettamente sovrapporre a quella della Destra Cristiana che lo ha finora supportato. Se non altro perché questo non è un movimento monolitico ma rappresenta l’opinione conservatrice di molte fedi: degli evangelici, di parte dei protestanti ed anche dei cattolici che in passato votavano democratico ed ora con Obama son tornati a farlo. Non del tutto interpretabile è stato l’appoggio alla cosiddetta “guerra del terrore”, in risposta agli attentati del 2001, vera ossessione dell’amministrazione Bush. Sia Falwell che Robertson hanno infatti visto negli eventi dell’11 settembre la punizione divina contro un paese immorale e corrotto, pertanto il sostegno alla guerra non è stato così unanime e convinto. Però certamente una buona parte di questa destra confessionale ha appoggiato l’amministrazione Bush nella sua crociata antiterrorista, significativamente chiamata “Operazione giustizia infinita”, che esalta le attività belliche americane come preordinate da Dio.

E su questa percezione che certa America religiosa ha di sé è utile soffermarsi un attimo. Dal momento che gli americani applicano una “giustizia infinita”, sottintendono che i loro nemici sono infinitamente colpevoli mentre essi sono infinitamente innocenti, quando invece infinito nel linguaggio biblico fa riferimento soltanto alle qualità di Dio e mai a quelle delle creature. Si potrebbe pensare che queste definizioni siano volutamente iperboliche, ma non è così: esse intendono proprio quel che dicono. Quando Bush parla di “asse del male” è del tutto convinto che tale asse non passi assolutamente da Washington. Nella spiritualità patriottica del presidente, e di tanti altri con lui, non esiste il minimo spazio per l’autoesame critico e quindi neppure per il pentimento e il rinnovamento. Quando egli ha parlato di “immane lotta tra bene e male” e di una “nostra responsabilità di fronte alla storia” che è chiaramente quella di “rispondere a questi attacchi e liberare il mondo dal male”, non ha pensato minimamente che parte di questo male potesse trovarsi a casa sua, tra la sua gente, e che quindi per liberare il mondo dal male bisognava partire da lì. No, il male sta solo fuori e la soluzione consiste nell’eliminazione dei malvagi: soluzione chiaramente in linea con l’insegnamento di Gesù da cui Bush dichiara di prendere ordini. Quando alcuni discepoli, indispettiti dai samaritani, proposero: “Signore, vuoi che diciamo che un fuoco scenda dal cielo e li consumi?”. Gesù li sgridò e disse: “Voi non sapete di quale spirito siete animati. Poiché il Figlio dell’uomo è venuto, non per perdere le anime degli uomini, ma per salvarle” (Lc 9:54-56). E gli americani quanto a far scendere fuoco dal cielo non sono secondi a nessuno. Ovviamente Dio non può che stare dalla loro parte. "La libertà e la paura, la giustizia e la crudeltà, sono sempre state in guerra tra loro e sappiamo che Dio non rimane neutrale in questo conflitto", ha affermato Bush. Perché Egli è contro il terrorismo e sta dalla parte dei buoni. E “io so quanto siamo buoni”, ha ancora affermato il presidente uscente. Da ciò deriva la convinzione di essere il nuovo popolo eletto, l’erede dell’antico Israele. “La nostra nazione è stata scelta da Dio e incaricata dalla storia per essere un modello di giustizia nel mondo”. Sono sempre parole di Bush. Ovviamente la dottrina dell’elezione non l’ha scoperta lui, ma ne parlava già Herman Melville due secoli fa: “Noi americani siamo un popolo peculiare ed eletto: siamo l'Israele dei nostri tempi. Noi portiamo sulle nostre spalle l'arca delle libertà del mondo”. Ancora oggi pesa nelle memorie della nazione un termine coniato nel 1845, quand’era presidente Andrew Jackson, quello di “Destino Manifesto”. Allora bisognava giustificare la conquista dell’intero continente a danno delle colonie ispaniche. Era destino manifesto – scriveva l’ideologo di quel presidente – che l’America “si spargesse sul continente che la Provvidenza le ha assegnato, per il libero sviluppo dei milioni di americani che ogni anno si moltiplicano”. A partire dal XX secolo la mitica “frontiera” americana si sposterà dal continente al mondo intero, e la nazione eletta sarà chiamata a contrastare i nazionalismi, i fascismi e i comunismi, con ogni mezzo. Ma è dal 2001 che l’elezione giustifica l’azione del vendicatore solitario, la guerra preventiva contro gli stati canaglia, con o senza l’approvazione del consesso internazionale. Alla Jihad islamista occorreva che rispondesse una nazione anch’essa motivata dalla fede e investita dal compito direttamente da Dio. “Ho un compito da realizzare – affermò Bush solennemente – e in ginocchio chiedo al Signore buono che mi aiuti a compierlo”. Va da sé che il suo Dio può solo benedire il compito che lui si è dato, e chi esprime perplessità su tale compito non è guidato da Lui che può solo essere un buon Dio americano, repubblicano, fervente patriota e sostenitore della politica estera del suo servo George. Qualcuno ha voluto richiamare l’autocompiacimento di Bush alla preghiera del fariseo parodiandola così: “Ti ringraziamo, Signore, perché non siamo come gli altri popoli, terroristi e senza libero mercato”. Ed ha trovato corrispondenze tra tale atteggiamento e quello dei falsi profeti dell’Antico Testamento che, invece di richiamare i peccati del loro popolo, lo rassicuravano illudendolo d’essere buono e giusto.

Per fortuna non tutti i cristiani d’America la pensano così. Contro la dottrina del Destino Manifesto si era già levato nel 1932 il teologo americano Reinhold Niebuhr, che Luigi Giussani definì “il demitizzatore di quell’idea di una America come luogo manifestativo del Regno di Dio, che in varia flessione e varie tonalità aveva suggestionato lo spirito di tutta la storia americana”. Partendo dalla constatazione che gli Stati Uniti del ventesimo secolo siano “allo stesso tempo, la più religiosa e la più secolarizzata delle nazioni occidentali”, nonostante la funzione decisiva svolta dalla religiosità sin dagli inizi della storia nazionale, egli prende atto che questa non ha mai potuto originare istituzioni civili immacolate. “Bello sarebbe un mondo in cui l’uomo morale è generatore di una società egualmente morale – scrisse nel suo saggio Uomo Morale e Società Immorale – ma il sogno è irrealizzabile e per ciò stesso pericoloso”. Singoli uomini possono trascendere il proprio interesse, non così può avvenire per il potere pubblico e le imprese collettive. La realtà della politica è indissolubilmente legata all’umanità corrotta che la esprime e che è incapace di fare un giusto uso della libertà. Pertanto ogni posizione che conduce ad una approvazione incondizionata del potere è, a suo avviso, irrealistica. Egli criticò le posizioni di Lutero e di Hobbes che, pessimiste sulla natura umana e allo scopo di scongiurare una società in preda al conflitto perenne e all’anarchia, “hanno sbagliato nella percezione del pericolo della tirannia nell’egoismo dei governanti. Perciò essi hanno nascosto la conseguente necessità di porre dei controlli alla volontà dei governanti”. Questa visione pessimistica del potere, portò Niebuhr ad una triplice e consequenziale considerazione: Anche il migliore dei regimi politici non può che approssimarsi al bene in maniera imperfetta. Per cui è irrealistica la pretesa di vedere nell’America il Paese scelto da Dio per realizzare il suo regno sulla terra. La seconda considerazione verte sulla necessità di prevedere forme di controllo efficaci su quanti detengono il potere, in quanto come tutti soggetti alla corruzione e all’egoismo, al fine di frenare la tendenza al dispotismo. E, infine, prendendo atto che il peccato non agisce solo negli altri ma anche in noi stessi, è irrealistico pure l’atteggiamento di chi giudica come immorali le posizioni diverse dalle sue che, di conseguenza, sarebbero sempre morali. La condanna del male esclusivamente negli altri, misconosce la comune natura dell’uomo decaduto, e impedisce di esercitare quella che è stata definita “la disciplina morale contro il risentimento”. «Tale dinamica – afferma lo storico delle dottrine politiche Gianni Dessì – conduce come si esprime Niebuhr alla “santificazione della propria posizione”, conferendo un’aura di sacralità a precisi e particolari interessi, che si arrogano una pretesa di universalità. Essa produce violenza in quanto nega la presenza della stessa natura umana in noi e negli altri e conduce a trattare coloro che sostengono opzioni pratiche diverse dalle nostre, come il male stesso».

L’americanismo religioso non ha partorito solo la Destra Cristiana, predestinata, dogmatica e giustizialista (per certi versi forcaiola). Sul finire dell’800 si è verificata una divaricazione tra il conservatorismo religioso e una corrente progressista trasversale alle denominazioni, anch’essa impegnata politicamente sebbene in modo meno codificato. È una concezione del cristianesimo che tende a tradurre la sua forte spinta morale in azione d’aiuto per il prossimo in stato di necessità (il cosiddetto social gospel). È quella che gli analisti definiscono “sinistra religiosa” o “sinistra cristiana”. Essa si è impegnata a fondo nella lotta per i diritti civili degli anni ’60 e ’70, che ha visto in prima linea leader religiosi come Martin Luther King e Jesse Jackson. Proprio quelle battaglie che hanno provocato la violenta reazione dei conservatori cristiani. Il partito di riferimento di questa sinistra cristiana è ovviamente quello democratico con il quale essa condivide molti obiettivi che spaziano dal welfare universale alle politiche ambientali e contro la guerra. Tuttavia, al contrario di ciò che è avvenuto tra la Destra Cristiana e i repubblicani, il rapporto della sinistra religiosa con i democratici non è stato altrettanto facile, soprattutto da Kennedy in poi. Il partito democratico, infatti, ha al proprio interno una forte corrente liberal laicista, cioè antireligiosa. Pertanto la leadership democratica, sulla linea del Concordato del 1960, ha per molti anni rifiutato il voto cristiano in quanto espressione organizzata. I militanti democratici dichiaratamente religiosi, soprattutto se esprimevano riserve su questioni come l’aborto o i matrimoni omosessuali, sono stati apertamente ostacolati. Nel 1992 al governatore della Pennsylvania, Robert Casey, fu impedito di parlare alla convention del partito poiché antiabortista. Questa ostilità ha spinto in passato molti progressisti cristiani a convergere con la destra su specifici temi o a votare repubblicano, ed ha quindi reso meno competitivo il partito.

Le elezioni del 2008 hanno però costituito una svolta rispetto al passato. Il candidato democratico Barack Obama e il suo staff hanno mostrato attenzione per il voto religioso finora poco coltivato dal partito e, a quanto sembra, al di là del mero opportunismo elettorale. Certamente tira un vento diverso rispetto agli anni ’60 quando più della metà degli americani riteneva che le chiese non dovessero immischiarsi nella politica. Oggi la percentuale si è ribaltata. Non solo: durante la campagna elettorale i sondaggi hanno altresì rilevato che molti credenti, attirati in passato dal voto repubblicano, tendevano a riallinearsi “a sinistra” su temi riguardanti l’ambiente, la politica estera e il welfare; ciò avveniva soprattutto tra i giovani evangelici che, pur mantenendo le loro riserve sull’aborto e i matrimoni gay, venivano attratti dalla figura di Obama in quanto primo candidato nero, cristiano dichiarato e “convinto che la fede debba avere un ruolo nell’agenda politica”. Certamente il pensiero di sostenere un candidato giovane e nero, con idee chiare sulla guerra e sulla lotta alla povertà, ha costituito un’ulteriore spinta nella scelta di un presidente democratico da parte di un certo tipo di elettorato religiosamente orientato. Ma non dobbiamo dimenticare la campagna denigratoria orchestrata contro il candidato di colore accusato di dissimulare un’inconfessabile fede islamica o di fare professione di cristianesimo per mero opportunismo elettorale. Ciò che ha convinto dell’infondatezza di tali accuse è la storia che Obama ha alle spalle. Una storia di rapporti di vecchia data con il mondo religioso americano, anche di matrice evangelical, e con leader religiosi insieme ai quali ha condotto campagne tematiche di rilevanza sociale. Ma anche una storia interna al partito per cercare di spiegare alla sinistra che vi è un nesso tra religione e politica e che questo nesso non può essere ignorato: pena lo scollamento da buona parte di quella base che si riconosce nei valori progressisti. “Noi adoriamo un grande Dio negli Stati blu” (cioè negli Stati che votano democratico), affermò nel suo discorso a favore di John Kerry, nella convention del 2004. Una linea, quella di Obama, che ha aperto un gran dibattito all’interno del partito che non si verificò neppure ai tempi di Jimmy Carter che, pur essendo un ministro battista, “born again” dichiarato, rimase fedele al concordato kennediano del 1960 ed evitò di confessare pubblicamente la propria fede, persino in occasione delle nomination del 1976 e del 1980 quando evitò accuratamente di fare alcun riferimento a Dio e alla religione.

Emblematico di questa difficoltà a trovare corrispondenze all’interno del partito, prima ancora che nello schieramento avverso, è il discorso che egli tenne il 28 giugno 2006 dinanzi ai fedeli del movimento evangelico denominato “Sojournes”. Era ancora lontano il tempo della candidatura alla presidenza. Obama in quell’occasione prese le distanze da quel conservatorismo religioso che usava la fede quale strumento d’attacco, ma la sua fu soprattutto una dura critica al suo partito, ai democratici liberal che avevano messo al bando ogni riferimento ai temi religiosi lasciandoli appannaggio esclusivo della destra religiosa. In quell’occasione egli denunciò la loro incapacità di relazionarsi con tutto ciò che è religioso, andando contro la stessa loro storia nazionale e impedendosi di parlare ai loro concittadini in termini morali. “I laicisti – osservò il senatore dell’Illinois – sbagliano quando chiedono ai credenti di lasciare la loro religione alla porta prima di entrare nello spazio pubblico. Frederick Douglass, Abraham Lincoln, William Jennings Bryan, Dorothy Day, Martin Luther King – insomma la maggioranza dei grandi riformatori nella storia americana – non erano semplicemente motivati dalla fede ma usarono ripetutamente il linguaggio religioso a sostegno delle proprie cause. Dire infatti che uomini e donne non dovrebbero far entrare la loro ‘moralità personale' nei dibattiti sulle politiche pubbliche, è praticamente un’assurdità. La nostra legge è, per definizione, una codificazione di moralità che si muove per la gran parte nel solco della tradizione giudaico-cristiana”. Ma la politica non può permettersi di espungere la fede non solo per rispetto al credo dei Padri della Patria, bensì pure perché le più gravi piaghe sociali sono prodotte dall’egoismo, dall’individualismo e dall’indifferenza verso il prossimo. Non sono cioè semplici problemi tecnici superabili con una buona legge o un piano programmatico; sono ancor prima problemi morali radicati nella natura umana che possono trovare soluzione in un cambiamento non solo politico ma anche nei cuori e nel modo di pensare. Perciò ecco l’utilità, di cui anche i non credenti devono convincersi, di un sano confronto sul piano etico. “Se noi progressisti riuscissimo a disfarci dei pregiudizi, potremmo riconoscere l’esistenza di valori convergenti, condivisi da credenti e laici quando si tratta della direzione morale e materiale del nostro paese”.

Il deficit morale di cui soffre la nostra società – afferma Obama – richiede una convergenza maggiore di quella che semplicemente dovrebbe assicurare un regime pluralista. Non basta dire: se sei cattolico o evangelico non abortire ma non impedirlo agli altri. “La comprensione reciproca tra credenti e non credenti deve andare oltre per apprezzare meglio gli uni le ragioni degli altri, e per cercare di interpretarne e tradurne il senso anche nella vita politica. Nulla da revocare della cultura costituzionale americana jeffersoniana che, con il primo emendamento, preserva le istituzioni e la società dal pericolo di un monopolio religioso da parte di qualsivoglia chiesa, ma il passo avanti che Obama invoca a gran voce (anche se sull' aborto ha finora votato come un laico standard europeo) è la fine di una contrapposizione che ha scavato un solco tra chi pratica una confessione e chi non la pratica, mettendo gli uni e gli altri in caricatura: da una parte i religiosi come ossessionati esclusivamente dalla lotta ai matrimoni gay, dalle preghiere a scuola e dal desiderio di proibire l' insegnamento darwiniano, dall'altra i liberal come viziosi dediti all' aborto e a ogni genere di devianza sessuale. Viva la forza morale e coesiva delle religioni, dice Obama, ne abbiamo bisogno, ne hanno bisogno anche i liberals, non solo per ragioni elettorali, ma anche e soprattutto perché, senza quelle risorse e divisi, non potremmo affrontare le sfide del tempo e del nostro destino comune” (G. Bosetti, La Repubblica, 30/10/08).

Questa capacità di Obama di parlare sia ai credenti che ai non credenti, ha rappresentato forse quel valore aggiunto che ha fatto la differenza con McCain e, prima ancora, con Hillary Clinton “la quale difficilmente avrebbe potuto rompere la diffidenza dell' elettorato religioso (la stragrande maggioranza degli americani). L'ex first lady, protestante metodista, non ha mai sottovalutato, ovviamente, l'importanza della fede nella vita politica del suo paese, ma la sua generazione è collegata, nell'immaginario sociale, al '68 e all'ascesa dei diritti di scelta, all'evoluzione individualista e libertaria del costume. E anche a molte altre cose, che più o meno rozzamente nella campagna avversaria, hanno intrecciato il progressismo americano con una visione materialistica, edonistica ed egoista della vita, e anche a una rottura con la fede” (ibidem). Mentre per Bush la religione è stata usata come strumento per rimarcare le differenze tra amici e nemici di Dio e, a modo suo, per “assecondare” il conflitto finale preannunciato dall’Apocalisse; per Obama la dimensione religiosa è invece, a suo dire, il veicolo più efficace per scoprire e comprendere i valori universali che fondano il suo impegno civile e il suo programma di riforma della società. Pur partendo da una legittima motivazione religiosa, egli non usa la politica come strumento religioso di parte ma promette di far vivere la religione su un piano che è autenticamente politico, senza ostentazioni confessionali, in modo che possa essere condivisibile anche da chi, pur non professando una fede specifica o alcuna fede, si riconosca nei principi etici della cultura nazionale, nella cosiddetta “religione civile”. Siamo ben lontani da quel “farsi perdonare” la fede con cui Kennedy iniziò il suo percorso politico; in questo senso Obama si trova agli antipodi perché ha lavorato per un radicale ripensamento del Concordato del 1960. Per certi versi è una situazione paradossale, dato che in Obama si indica un continuatore della politica kennediana; ma solo in apparenza, perché Kennedy aveva il problema – che non ha Obama – di farsi accettare nonostante il suo essere cattolico, ed egli stesso riconobbe di aver portato il principio di laicità più lontano di quanto avrebbe voluto.

Molti analisti sostengono che la vittoria di Obama non vada tanto attribuita al suo saper parlare ai religiosi quanto piuttosto all’aria di recessione che tira e alla grave crisi finanziaria che farebbe preferire l’esponente d’un partito tradizionalmente orientato alle politiche di welfare. Certamente quando l’economia di tante famiglie è così seriamente messa a rischio, è facile pensare che la religione tra le istanze elettorali passi in secondo piano. Però si potrebbe, partendo dalle medesime premesse, giungere alla conclusione contraria. In fondo il democratico Clinton fu rieletto perché in quegli anni l’economia tirava bene e non perché era in crisi. Non bisogna perdere di vista la mentalità calvinista degli americani che fa dipendere la prosperità economica dalla benedizione divina. Abbiamo già detto di importanti leader religiosi che hanno visto negli eventi dell’11 settembre la punizione divina contro un paese che aveva ceduto all’immoralità e alla corruzione. Molti americani che in passato avevano dato la loro fiducia ai repubblicani perché più attenti al deficit etico, alla perdita di coesione sociale e alla crisi generale di orientamento, oggi, con la crisi economica in atto, avrebbero potuto rafforzarsi in questa tendenza. E invece non lo hanno fatto. Hanno preferito Obama perché evidentemente ha saputo più di altri rassicurarli ed ha meglio interpretato la loro voglia di cambiamento. Egli da un lato ha fatto pienamente suo il tema del deficit morale delle famiglie e del deficit di empatia di cui soffre il corpo sociale, assumendo la religione come risorsa indispensabile per fronteggiare la crisi; al contempo è riuscito a trasformare la “questione antropologica” tanto cara al Vaticano in un cavallo di Troia per spaccare l’alleanza innaturale e opportunistica tra i cattolici statunitensi e gli evangelici fondamentalisti; quella che qualcuno ha definito il patto Molotov-Ribbentropp tra evangelicali e cattolici, da sempre nemici, fondato sulla battaglia antiabortista. E lo ha fatto, nonostante la sua calcolata prudenza su molti temi, sostenendo apertamente e con chiarezza la posizione pro-choice, a favore dell’aborto. Questa manovra sembra aver funzionato a meraviglia. Infatti, alcuni dei più importanti leader del campo pro-life (contrari all’aborto) hanno, tra lo sconcerto di molti loro compagni di battaglia, deciso di sostenere Obama nel suo programma volto a ridurre le interruzioni di gravidanza non vietandole, ma offrendo sostegno economico e occasioni di riscatto alle donne indigenti. Al contempo l’elettorato cattolico americano, tradizionalmente più incline alle istanze progressiste (quindi al vangelo sociale del protestantesimo storico, e persino alla teologia della liberazione dei vicini latinoamericani), si è sganciato dall’abbraccio innaturale con gli evangelici fondamentalisti, votando democratico nonostante la campagna anti-Obama in cui si è spesa la gerarchia della Chiesa cattolica. Questa infatti ha messo in campo l’argomento degli Intrinsic Evils, cioè delle azioni non contrattabili in quanto del tutto sbagliate – quale sarebbe appunto l’aborto – che non potrebbero essere paragonate ai temi sociali e politici quali la giustizia sociale, la lotta alla povertà o la pace poiché disattendendo i primi si porrebbe a rischio la salvezza eterna mentre per i secondi ci sarebbero varie strade di soluzione. L’elettorato cattolico stavolta ha disubbidito alle gerarchie, dimostrandosi per l’82% indipendente nelle proprie scelte d’ordine sociale. A favore di questa decisione avrà certamente contribuito la nomina del cattolico Joe Biden come vice di Obama, come pure la disubbidienza di alcuni vescovi liberal che hanno criticato l’impostazione del voto single issue data dalla Conferenza episcopale, ossia del voto incentrato su un unico argomento, quello dell’aborto, sostenendo invece che era dovere dei cattolici valutare la proposta complessiva dei singoli candidati.

Saprà lasciarsi guidare dalla dimensione religiosa adesso che dalle declamazioni Obama dovrà passare alla realizzazione del suo programma di riforme? Egli ha dimostrato di essere una persona intelligente e capace, ma le aspettative su di lui riposte e le sfide che lo attendono appaiono sovrumane. A cominciare dalla politica estera su cui inciampano regolarmente i presidenti americani, al di là delle loro intenzioni. Ricordate il primo programma elettorale di George W. Bush, che prometteva di volersi concentrare sulla sola politica interna? L’immagine di questo presidente ha invece finito per associarsi alle sue guerre. Adesso Obama vuole occuparsi della pace. Forse nella sua mente tornano queste parole: “Che tipo di pace cerchiamo? - Sto parlando di una pace vera. Il tipo di pace che rende la vita sulla terra degna di essere vissuta. Non solamente la pace del nostro tempo, ma la pace di tutti i tempi. I nostri problemi vengono creati dall’uomo, perciò possono essere risolti dall’uomo. Perché in ultima analisi, il legame fondamentale che unisce tutti noi è che abitiamo tutti su questo piccolo pianeta. Respiriamo tutti la stessa aria. Abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti solo di passaggio.” Sono parole di John Fitzgerald Kennedy, il presidente a cui egli afferma d’ispirarsi. Ma è poi vero che l’uomo è in grado di risolvere tutti i problemi che egli crea? Quanto è realistica questa aspettativa? Molti sono i nemici che già lo aspettano al varco. Ci sono i finti pacifisti, in realtà i codardi, gli opportunisti, gl’indottrinati traboccanti furore ideologico, i pacifisti a senso unico, indulgenti con gli orrori commessi dai movimenti di liberazione e persino dai fanatici d’altre fedi ma implacabili con l’interventismo americano soprattutto quando supportato da una tensione religiosa. Questi “realisti” della politica salutano Obama solo perché ha scalzato Bush, ma non gli perdonano certo l’americanità o, ancor peggio, le radici cristiane da cui afferma di trarre ispirazione. Poi ci sono i nemici interni, quelli a cui non piacciono certi cambiamenti, soprattutto quando questi influiscono negativamente nei loro interessi economici. La fine di una guerra o la riforma del sistema sanitario nazionale rappresentano la fine di guadagni miliardari in dollari. Guai in America a chi tocca le lobby. Il neopresidente dovrà guardarsi da molti: dai movimenti razzisti e da quelli di estrema destra che eliminandolo crederanno d’aver fatto un favore a Dio; dovrà guardarsi dai rivali, disperatamente assetati di potere, e da quelli che il potere già ce l’hanno e non lo mollerebbero costi quel che costi. I fratelli Kennedy tentarono di scalzare questa mortale stretta delinquenziale e la pagarono cara. Potrà il “change” di Obama superare questi ostacoli? Bisogna essere folli o presuntuosi per sperarlo, oppure possedere una grande fede. Forse questa sarà l’ultima opportunità offerta agli americani. Intanto ci sono segnali inquietanti che non presagiscono nulla di buono; durante la campagna elettorale del senatore di colore si sono verificate volute e ingiustificabili smagliature nel sistema di sicurezza a sua protezione. È solo un caso se il Secret Service, che si occupa della sua sicurezza, lo chiama con l’appellativo di “renegade”, il rinnegato? La scorsa estate, l’aereo di Barack Obama ha dovuto compiere un atterraggio di fortuna a Saint Louis nel Missouri: uno degli scivoli gonfiabili d’emergenza s’era gonfiato da solo, e il pilota non riusciva a tenere l’assetto. Qualcuno ha osservato che questo tipo d’incidenti non capita tutti i giorni. May God help Obama!

Lascia un commento

domenica 26 ottobre 2008

Simone Weil e il primato della libertà

Simone Weil nacque a Parigi nel 1909 da genitori ebrei trasferitisi dall’Alsazia. Il padre era medico e la madre apparteneva ad una famiglia colta e benestante. Frequentò con successo il miglior liceo della città e a soli 22 anni conseguì, a pieni voti, la laurea in filosofia presso la Normale di Parigi. Era una persona indubbiamente intelligente ma anche molto sensibile e con un forte senso della giustizia. Per alcuni anni insegnò nei licei e al contempo si dedicò all’attività politica frequentando l’ambiente del sindacalismo rivoluzionario. Nel 1934 l’ansia di contribuire al rinnovamento sociale la spinse a lasciare l’insegnamento per condividere con gli oppressi la vita di fabbrica, e due anni dopo si aggregò come cuoca di campo ad una brigata anarco-sindacalista impegnata nella guerra civile spagnola. Tornata in patria rischiò l’arresto per i suoi contatti con la Resistenza e nel ’42, a causa delle leggi razziali, emigrò con i genitori negli Stati Uniti. Nel dicembre dello stesso anno si trasferì a Londra dove lavorò come redattrice presso il Comitato nazionale di “France Libre”. Morì nel sanatorio di Ashford il 24 agosto 1943, fiaccata dalle privazioni, a soli 34 anni. Se vogliamo sintetizzare un giudizio complessivo su questa figura eclettica potremmo far nostro quello che diede di lei la scrittrice Susan Sontag: "Nessuno che ami la vita vorrebbe imitare la sua dedizione al martirio, o se l'augurerebbe per i propri figli o per qualunque altra persona cara. Tuttavia se amiamo la serietà come vita, Simone Weil ci commuove, ci dà nutrimento".

Perché parlare di Simone Weil su Quaderni Escatologici? Perché il suo pensiero, e la coerenza con cui l’ha applicato nelle sue scelte di vita, cadono a proposito nella riflessione che stiamo compiendo sulla Chiesa e sul cristianesimo mentre percorrono l’ultimo tratto della storia del mondo. Il suo è un pensiero potente senza arroganza, pronto se necessario a tornare sui propri passi, ma anche combattivo e geloso delle proprie prerogative. La Weil affermava che bisogna essere sempre disposti a cambiare per seguire quell’eterna fuggiasca che è la giustizia. E così fece davvero. Subì inizialmente il fascino del marxismo rifiutandone però la teoria dello stato per il suo autoritarismo. Fu infatti tra i primi a denunciare le deviazioni della rivoluzione sovietica. La sua militanza ebbe sin dall’inizio un’ispirazione etica che la spingeva a porsi dalla parte degli oppressi. E proprio l’oppressione, vista come schiavitù dell’uomo, fu il tema principale da lei sviluppato nelle sue opere dopo quello della bellezza. Mai come nel suo momento storico, ella afferma, l’individuo è stato così abbandonato ad una collettività cieca; mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai propri pensieri, ma persino di pensare. In pratica essi hanno perso la loro umanità. Nulla più in questo mondo è a misura d’uomo; e all’interno di questa società, che è diventata “una macchina per comprimere il cuore”, egli sperimenta l’impotenza e l’angoscia. La storia umana racconta soprattutto l’oppressione e l’asservimento dell’uomo, quando, invece, l’individuo in quanto tale dovrebbe essere il valore supremo. L’uomo non può mai essere oggetto, neppure quando il fine è quello di costruire il bene comune. Su quest’equivoco sono inciampati i movimenti sociali che s’ispirano a Marx e per questo essi sono tutti falliti. La constatazione di questo fallimento, e la sfiducia nell’umanesimo antropocentrico laico che ne deriva, spingono la Weil verso la radicale alternativa della soluzione teologica e cristocentrica. Così questa donna, di famiglia agnostica e lei stessa partita da posizioni agnostiche, incontra Cristo pur senza mai rinunciare al suo impegno politico e alle sue posizioni sociali. La lotta per la libertà e contro l’oppressione non viene sostituita ma integrata da una prospettiva ultraterrena di salvezza. La ricostruzione sociale adesso nel suo pensiero poggia su basi etico-religiose, su una rigenerazione spirituale di individui e collettività. La sua è una vera conversione, non una mera adesione ad una dottrina; nei suoi scritti confessa esplicitamente d’essere stata rapita da Cristo: “Cristo è disceso e mi ha presa”, affermò.

Non bisogna al contempo ignorare il percorso che aveva condotto Simone Weil alla fede. Ella vi era giunta dopo aver constatato il fallimento delle ideologie e delle organizzazioni umane. Erano anni terribili ove i progetti socio-politici, persino quelli sorti per porre rimedio all’oppressione degli uomini, si erano rivelati dispotici e crudeli. Macchine di potere sofisticate e oppressive, tutte tese a sviluppare gerarchie, burocrazia e strutture di comando, mentre costringevano il corpo sociale al silenzio e lo ingannavano con i loro sistemi di propaganda. In questo contesto che aveva favorito l’emersione del lato più oscuro della natura umana nelle sue espressioni aggregative, Simone Weil maturò una comprensibile diffidenza per ogni forma di organizzazione che adoperava strumenti di coercizione e pretendeva pensare per gli altri, negando pertanto agli individui il loro diritto a pensare in autonomia e ad adoperare la loro intelligenza. Per lei che era centrale “trovare una soluzione armoniosa del problema delle relazioni tra individui e collettività”, questa soluzione non poteva passare per la compressione dell’intelligenza individuale. Come scriverà più tardi nel suo Attesa di Dio, “la situazione dell'intelligenza è la pietra di paragone di quest'armonia, perché l'intelligenza è cosa specificamente, rigorosamente individuale. Quest'armonia esiste dovunque l'intelligenza, rimanendo al suo posto, esercita senza impedimenti e adempie in pieno la sua funzione… La funzione propria dell'intelligenza esige una libertà totale, che implica il diritto di negare tutto, e l'assenza di ogni forma di predominio”. Così, con la stessa coerenza che l’aveva vista occuparsi di politica senza mai iscriversi ad alcun partito politico, ella decise di vivere la propria fede senza mai associarsi ad una chiesa, a cominciare da quella cattolica con cui principalmente si confrontò e rispetto alla quale decise di “restare sulla porta”. “La mia vocazione è di essere cristiana fuori dalla Chiesa”, scrisse nella sua Lettera a un religioso. Quella Chiesa che, a suo avviso, si era fatta impero, inquisizione, persecuzione, interiorizzando la potenza e l’oppressione così tipici di quei regimi totalitari che ai giorni della Weil imperversavano in tutta la loro tracotanza. Ella avrebbe sicuramente condiviso l'affermazione di Karl Barth secondo cui compito della Chiesa è quello d'insegnare la libertà e non la sottomissione.

Nella folgorazione sulla via di Damasco, che tutti i convertiti sperimentano, Simone scorge come qualità fondamentale di Dio il bene. Di norma Dio viene raffigurato come il Giustiziere onnipotente o come il buon Dio dolente e “bonaccioso”. Simone lo riconosce invece come il Dio sommamente buono e generoso, così innamorato degli uomini fino al sacrificio “assurdo” di suo Figlio. La potenza di Dio pertanto le si rivela come potenza vitale più che di dominio. Come lei stessa afferma, “Dio è il Bene [ed] è l’Onnipotenza solo per sovrappiù”. Nella sua visione Egli è Creatore per amore ma al contempo, per lasciare spazio d’espressione alla proprie creature, Egli rinuncia alla propria onnipotenza e la esercita solo per salvare quelli che desiderano essere salvati da lui. Per il resto Egli lascia il potere al Principe di questo mondo. Analogamente l’uomo che desidera incontrare Dio dovrà spogliarsi del proprio io, dovrà “decrearsi” come lei dice, e ciò avviene rinunciando alla dimensione della forza e accettando le umiliazioni poste sul suo percorso, ripercorrendo di fatto il cammino di Cristo.

Gesù non presentò il Padre come un sovrano dispotico che assoggetta i popoli e i singoli, ma come la fonte di ogni bene. Quando i discepoli, indispettiti per la scarsa ospitalità ricevuta da un villaggio, gli chiesero di far scendere del fuoco da cielo per consumare quella gente ostile, Gesù “li sgridò. Poiché il Figlio dell’uomo è venuto, non per perdere le anime degli uomini, ma per salvarle” (Lc 9:55,56). Dio non è dalla parte del potere che domina. Così, dal momento che la Chiesa usa gli strumenti del potere che domina non è più dalla parte di Dio e assume connotati ideologici, si trasforma in una sorta di partito politico che distingue il mondo in partigiani (i fedeli) e avversari quando non proprio nemici. La Weil aveva colto e smascherato il nesso che lega la teologia alla politica. Cioè il nesso che unisce alcuni assunti di fede quali l’onnipotenza divina, il potere delle chiavi e la dottrina dell’elezione con il modello di chiesa trionfante e totalitaria. Scrive Giancarlo Gaeta, docente di Storia del cristianesimo presso l’Università di Firenze: «Se si pone in Dio l'onnipotenza riguardo agli accadimenti mondani è inevitabile che un riflesso di essa ricada sulla sua Chiesa, e che quindi essa si senta investita di un compito storico assoluto, rispetto al quale ogni ostacolo che venga dal di fuori e ogni interna opposizione assumono valore negativo se non demoniaco. Simone Weil dà tutta la misura del potere corruttore di una siffatta concezione quando coglie in fallo grandi spiriti come Agostino e Tommaso. Affermare che l'opera buona compiuta da un infedele non può piacere a Dio, oppure che chi non aderisce a un solo articolo di fede non ha affatto la fede, equivale a proporre una idolatria sociale della Chiesa, poiché di fatto la fede nella Chiesa prevale su quella nel Cristo: ‹È come se con il tempo si fosse finito per considerare non più Gesù, ma la Chiesa come Dio incarnato quaggiù›. Ora una siffatta concezione della fede implica per Simone Weil «un totalitarismo soffocante al pari o più di quello di Hitler» (G. Gaeta, Religione del nostro tempo, ed. E/O).

Questo monopolio della salvezza ha una lunga storia. Risale al vescovo di Cartagine Cipriano (210-258) il quale insegnava che nessuno può avere Dio per Padre se non ha la Chiesa per Madre. Agostino, suo grande ammiratore, riprese quest’affermazione e con il proprio imprimatur le diede imperitura autorità. La ritroviamo intatta nel Catechismo del Concilio di Trento: «Quanti vogliono conseguire la salute eterna devono aderire alla Chiesa, non diversamente da coloro che, per non perire nel diluvio, entrarono nell'arca». Proprio quel Catechismo così lontano dalla sensibilità della Weil, pieno zeppo di “anathema sit”, nella cui monotona formulazione ella individua l’elemento costitutivo dell’ideologia totalitaria! La Weil non accetta la condizione particolare, lei dice persino settaria, che l’essere cattolici comporta, e che crea di fatto un muro di separazione tra chi aderisce a questa Chiesa e il resto degli uomini. “La Chiesa non è cattolica di fatto come lo è di nome”, lei afferma; ed è questo il paradosso: una Chiesa che si definisce cattolica, cioè universale, e che rifiuta di abbracciare tutti gli esseri umani d’ogni tempo e d’ogni luogo. Così per lei l’extra ecclesiam nulla salus si ribalta in intra ecclesia nulla salus. Per quest’amante della libertà e della dignità umana, anche la fede non può costringersi in una ideologia rinchiudente poiché la contemplazione di Dio si traduce in un’esperienza di immensa apertura. Cristo è venuto a salvare gli uomini di tutti i tempi e di tutte le religioni, persino gli atei e gli agnostici, nella misura in cui i loro pensieri e le loro azioni sono guidati dalla giustizia e dalla rettitudine. Di conseguenza, una religione, non importa quanto antica e venerata, dal momento che si avvale di una “investitura divina” per cercare gloria e rafforzare il proprio potere si pone lontano da Dio più di qualunque uomo che non ha mai sentito parlare di Dio ma compie umilmente il bene. Inoltre, una religione che pone il potere al primo posto, costruisce anche un’immagine di Dio più potente che buono, e così facendo rende i suoi fedeli doppiamente idolatri, perché essi offrono il cuore ad una Chiesa che si è esaltata e perché adorano un dio che non esiste o, se vogliamo, adorano il dio di questo mondo risaputamente ubriaco di potere. Ecco perché la Weil insiste sulla necessità di un cristianesimo in cui la verità, e la veracità, non siano subordinate all’adesione religiosa, ma siano esse stesse il principio normativo. “Non c’è il punto di vista cristiano e gli altri – ella afferma – ma la verità e l’errore. Non: ciò che non è cristiano è falso, ma: tutto ciò che è vero è cristiano”. Proprio a commento di questa affermazione, Pier Cesare Bori, docente di Filosofia morale all’Università di Bologna, osserva: «Viene in mente un'opposizione – una delle tante, ma in questo caso non stereotipa – tra Dostoevskij e Tolstoj. Dostoevskij afferma in qualche luogo: "Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e si potesse effettivamente constatare che la verità è fuori di Cristo, preferirei rimanere con Cristo, piuttosto che con la verità, e cioè starei con Cristo anche se avesse torto". Tolstoj, citando Coleridge, diceva invece: "Chi comincia con l'amare il cristianesimo più della verità, amerà poi la sua setta o chiesa del cristianesimo e finirà con l'amare se stesso (la propria tranquillità) più di ogni altra cosa"». Chi meditando su Dio non s’è posta questa alternativa? Cioè il primato dei sentimenti sulla verità. Che è diverso dal primato del potere sulla verità. Una cosa è scegliere di stare con Gesù anche se egli non ci prospettasse una sua vittoria sicura (scelta comunque morale, e quindi di libertà), e ben altra cosa è scegliere di stare con Gesù anche se avesse torto. Optare per i sentimenti può apparire sul momento una scelta morale, ma di fatto non lo è. Basti pensare alla prima ribellione, quella che avvenne in Cielo. Un numero sterminato di angeli scelse di stare con Lucifero, il loro principe a cui volevano un gran bene, nella sua battaglia contro il Figlio unigenito. Lì chiaramente prevalsero i sentimenti sulla verità. Da questo conflitto, che ha coinvolto anche l’umanità, essi ne escono doppiamente sconfitti: perché hanno perso la guerra, e perché hanno perso anche la dignità in quanto la loro non è stata una scelta morale e quindi di libertà. Essi confidarono la loro lealtà a un cristo senza verità che, infatti, li ingannò. Si porse come loro grande amico fidato senza più esserlo, inducendoli a compiere un’azione di slealtà, quindi disonesta, nei confronti del loro Creatore. Viene in mente la famosa massima di Cicerone: “Si stabilisca dunque la prima legge dell'amicizia: bisogna rivolgere agli amici solo richieste oneste, compiere per gli amici solo azioni oneste” (De Amicitia, XIII 44). Ovviamente ancora più disonorevole è la scelta che sia suggerita dal mero tornaconto; come si dice: saltare, o anche solo restare, sul carro del vincitore o di colui che sul momento sembra vincere. I sodalizi che pongono Dio, quello vero e non quello ricostruito, in subordine prima o poi sono destinati ad una dolorosa sconfitta. L’affermazione di Simone Weil “a Dio e solo a Dio ci si può sottomettere” riassume la sua scelta coerente.


La Provocazione

Come abbiamo detto, il cristianesimo con cui principalmente la Weil si è confrontata è il cattolicesimo. E la sua figura costituisce “una grandissima provocazione alla Chiesa cattolica, perché noi quando parliamo di Simone Weil ci troviamo di fronte a una mistica di primissimo livello”, afferma il teologo cattolico Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. E prosegue: «Ebbene in che cosa consiste la provocazione alla Chiesa che la figura di Simone Weil è? Consiste nel fatto che ha avuto un contatto con la figura di Cristo così intenso e così privilegiato, sceglie di non entrare nella Chiesa, questa è la questione decisiva. Fin quando la Chiesa non approfondisce dentro di se, non si fa provocare da questa dimensione di una spiritualità che per rimanere pura, per rimanere veramente fedele alla dimensione della verità, decide di non legarsi a una istituzione. Fino a quando la Chiesa non capisce questa cosa, corre il rischio di diventare un fenomeno di divisione nell’umanità, corre il rischio di non essere fedele al suo statuto che è quello di essere cattolica, cioè universale, cioè la casa di tutti… Questa donna tanto unita a Cristo, sceglie di non entrare nella Chiesa a causa del disagio dell’intelligenza ad abbracciare la dottrina cattolica, così come si è configurata, comporta. Diceva spesso che: “Quando leggo il catechismo mi sembra di avere nulla in comune con la religione che vi è esposta”. In conclusione io dico che questo disagio dell’intelligenza che ha avvertito Simone Weil è comune a mio avviso a molti uomini e donne dei nostri giorni, perché la funzione propria dell’intelligenza esige libertà, questo è quello che manca nell’attuale configurazione della Chiesa cattolica. Occorre fare propria la grande lezione di Simone Weil e giungere a una rifondazione della fede».

Ma, a ben pensarci, la provocazione tocca anche il mondo evangelico e della Riforma. La critica della Weil era soprattutto indirizzata al cattolicesimo, ma ce l’immaginiamo aderire al calvinismo con la sua dottrina della predestinazione, proprio lei che non può concepire Dio altrimenti che come il Padre di tutti gli uomini? E poi siamo sicuri che gli evangelici siano immuni da quell’orgoglio spirituale che li spinge a considerarsi il popolo eletto, così come i cattolici? Che siano immuni dal settarismo persino al loro interno, tra denominazione e denominazione? Spesso sono proprio le dottrine, o l’uso che se ne fa, che non lasciano riconoscere nell’altro un fratello. Io che sono calvinista ho difficoltà a riconoscere in te un predestinato se vieni da un’altra realtà. Io che sono arminiano e sto compiendo un’esperienza di perfezione in questa vita come posso vedere in te un fratello se non compi un’esperienza analoga alla mia? E tu hai ricevuto il battesimo per immersione, da adulto, sia in acqua che in Spirito? No? Allora tu non sei figlio di Dio, come me, sei solo una sua creatura. Non sei mio fratello, perché “i miei fratelli e sorelle sono quelli che hanno fatto il mio stesso cammino indicato da Gesù stesso! Gloria a Dio!”. Basta girare un po’, per i forum, e queste cose si trovano. Come si trova l’intolleranza, la propensione a squalificare “in toto” i tuoi argomenti perché su qualcosa la pensi in modo diverso. Ho ancora presente la risposta che un conduttore di forum ha dato a un ospite che era intervenuto nel dibattito e la riporto in virgolettato perché è significativa: “Ammiro molto il tuo zelo per la ricerca della verità, ma non avresti dovuto riportare le riflessioni di un eretico; il Caio Sempronio è un "modalista"… le sue dottrine della grazia sono spudoratamente arminiane, quindi credo che i suoi insegnamenti non facciano testo. Tira poi in ballo Barth, Schleiermacher e Tillich, che sono dichiaratamente liberali, qui si sta parlando di Teologia Riformata Classica: un altro pianeta!”. Certo non bisogna generalizzare, non tutti la pensano così. Ma questa mentalità esiste, e a me piange il cuore perché anch’io appartengo a quel mondo ma non mi riconosco affatto in quest’atteggiamento. Viva allora Simone Weil che zittisce le chiese-bambine, non importa se cattolica, ortodosse o protestanti, quando sostiene che Dio è Padre di tutti gli uomini, anche dei pagani e degli atei, o quando afferma: "Non c'è il punto di vista cristiano e gli altri, ma la verità e l'errore". E prosegue: "Non: ciò che non è cristiano è falso, ma: tutto ciò che è vero è cristiano". È come se sgridasse le “bambine” con queste parole:

Mentre voi litigate per stabilire chi è la vera chiesa e chi possa essere considerato fratello, proprio per queste vostre vedute particolari, per i paletti che ponete al vostro interno e all’esterno, io non considero nessuna delle vostre la vera chiesa, e rimango fuori, sulla porta, proprio per continuare a considerarvi fratelli e ritenere fratello ogni altro uomo al mondo perché anche di lui Dio è Padre e per lui Cristo è morto, pur sapendo che da voi, per le preclusioni che vi siete costruite, non sarò mai considerata sorella.


La “grossa bestia” intollerante

I cristiani di norma sono tolleranti quando si trovano in condizione di minoranza ed è posta in discussione la loro libertà di culto. Era così anche all’inizio, quando nell’Impero costituivano ancora una realtà minoritaria. “Siano pur false le credenze che noi difendiamo, e a ragione siano ritenute pregiudizi: tuttavia sono necessarie. Sia­no pur inette: ma sono utili. Perciò non è lecito con­dannare senza eccezione, per qualsiasi motivo, creden­ze che giovano”. Scriveva così il cristiano Tertulliano, invocando tolleranza per la propria fede che, invece, appena poté si guardò bene dal mostrare tolleranza nei confronti non solo delle altre fedi ma persino degli “eretici” dissidenti. Tra i pensieri di Hermann Hesse, raccolti nel volume “Religione e Mito”, si trova quest’affermazione: “Amo e venero tutte le religioni del mondo, perché traggono origine dalla facoltà più nobile dell’uomo: la devozione. Tuttavia distinguo le religioni non solo in base al livello spirituale e cultu­rale, ma anche in base alla loro tolleranza. Purtroppo la religione cristiana non è di quelle amichevoli, cle­menti e tolleranti, anzi è di quelle superbe, violente, che vogliono catechizzare e che si credono le sole de­tentrici della salvezza”. I monoteismi in genere tendono ad essere esclusivisti e intolleranti, e lo sono viepiù quando si alleano con il potere. Pensiamo alla fede musulmana che tende per sua stessa natura a non distinguersi dal potere civile. Altro che misericordia così tanto decantata e altrettanto poco praticata. Sono proiezioni: il Pantocrator dei cristiani e l’Allah benigno e misericordioso dei musulmani, altra gente di cultura violenta e oppressiva. Luigi Castaldi ha persino prefigurato un’alleanza tra queste due religioni, pure così ostili tra loro, ma ancor più ostili nei confronti della modernità intesa come pluralismo culturale, relativismo etico, liberaldemocrazia, progresso scientifico, autodeterminazione dell’individuo, ecc. Integralisti cristiani e musulmani nostalgici di un mondo dove la trascendenza innervi “ancora il tessuto di una società nei suoi stipiti tradizionali”. Alleanza questa che inevitabilmente passerebbe “sulla testa di chi crede che non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia senza l’espulsione dal consesso umano del principio autoritativo d’ogni verità rivelata e imposta”. Tale alleanza sarebbe possibile in quanto “molte voci dell’integralismo islamico hanno più volte affermato che il loro nemico in Occidente non è la Chiesa, anzi, ma è proprio tutto quanto la Chiesa indica come nemico. Nemico comune, dunque: la libertà dell’individuo. Cristianesimo e Islam concepiscono l’individuo solo in quanto parte integrata di un tutto, gregge o umma, ben ordinato negli stipiti di controllo (famiglia, e poi tribù o diocesi). Sull’altro versante, gli sforzi di dialogo interconfessionale durante il pontificato di Giovanni Paolo II sono stati enormi. In apparenza, per evitare lo scontro di civiltà. Ma poi nemmeno tanto nascostamente sostenuti nel tentativo di una comune azione contro ciò che è definito “nichilismo” in più di un’enciclica e in molti passi dei pensatori che all’inizio del Novecento ispirarono la nascita dei movimenti di integralismo islamico. Il “nichilismo” per un cattolico tradizionalista e per un wahabita-salafita è la mancanza di un valore assoluto cui tutti debbano piegarsi; la differenza la fa il fatto che nel Califfato, se non si crede, si perde la testa dal collo, mentre la Chiesa, che ha sei secoli di raffinatezza in più rispetto all’Islam, concede che, se non si crede, si possa far finta, come se quel valore assoluto daretur [ci fosse]” (L. Castaldi, Mutua comprensione tra integralismi?, Notizie Radicali,13/03/2006). La Chiesa cioè consentirebbe a chi non crede nei suoi valori di non credere, purché lo faccia con discrezione e uniformi il proprio agire “veluti si Deus daretur” (come se Dio ci fosse); il Dio così come la Chiesa lo interpreta, ovviamente. Francamente, io non credo che si arriverà ad un’alleanza tra cattolici e musulmani. Temo piuttosto un sodalizio tra integralisti cristiani e agnostici opportunisti, quali i cosiddetti “atei devoti”, che precipiti lo stato laico in un regime autoritario di stampo confessionale. Ed è in questo senso che trovo suggestivo il discorso di Castaldi, per l’efficacia che usa nel descrivere la brama irriducibile della fede intollerante volta a estinguere ogni forma di libertà. Da un lato, pertanto, il veluti si Deus daretur di quei cristiani che vorrebbero restaurare lo stato confessionale che impone simboli, scelte etiche e dogmi di una fede religiosa anche a chi non la condivide. Dall’altro l’etsi Deus non daretur (come se Dio non ci fosse), formulato nel ‘600 da Ugo Grozio, a fondamento dello stato laico che edifica il suo diritto al riparo degli artigli della religione. Non v’è spazio per situazioni intermedie: come ha detto qualcuno, non esiste la possibilità di avere uno stato quasi laico, un po’ laico, non tanto confessionale.

E Simone Weil come si pose di fronte a questi due estremi senza spazi di mediazione? Non dobbiamo dimenticare che ella visse in un momento storico in cui spesso questi due estremi si sono toccati. Non solo il comunismo ma anche i vari fascismi sono sorti da una concezione laica dello stato, che in fondo, almeno in parte, è anche sempre stata laicista. Questa separazione del potere civile da quello confessionale è sempre stata ambigua perché in varia misura animata da sentimenti di ostilità nei confronti della religione. Pertanto la laicità dello stato non si è rivelata solo strumento a tutela della libertà dei cittadini ma anche strumento di eradicazione della fede religiosa nella società europea. Questa decadenza dello spirito fu certamente una condizione che ha consentito l’instaurarsi dei regimi totalitari. Le dittature hanno in fondo cavalcato l’insopprimibile bisogno di religiosità presente negli uomini, già distolti dall’attenzione verso il soprannaturale, per indirizzarli verso l’adorazione dello Stato, del Partito, del Capo carismatico, cioè di un ordine che non appartiene al soprannaturale. Svilito lo spirito religioso autentico, i popoli ripiegarono su quella che la Weil definisce l’idolatria dello stato. Il peccato in cui ella vede precipitare il suo secolo è quello dell’idolatria. Nessuno ne è immune: le chiese perché si son fatte regime prostituendosi con il potere e il potere perché ha fatto di sé un surrogato della religione. Talvolta le due realtà si sono escluse a vicenda (nei regimi comunisti), talaltra si sono vicendevolmente strumentalizzate, così come è avvenuto nelle dittature nazionalfasciste. Più sfumata ma comunque presente la connivenza con lo stato liberale. Di conseguenza, la Weil rivolge le sue accuse sia all’umanesimo e al laicismo, che hanno distolto l’attenzione degli uomini dal soprannaturale, sia alla Chiesa che ha mutato nel tempo la propria vocazione. Quali soluzioni vengono prospettate? Ella auspica che il cristianesimo, senza imposizioni e senza forzature, penetri in profondità nel tessuto sociale, in tutte le sue articolazioni, in modo che sia possibile “leggere le verità divine nelle circostanze della vita quotidiana e del lavoro”. Per farsi strumento di tale cambiamento la Chiesa deve rinunciare all’esercizio del totalitarismo e tornare a quello dell’amore soprannaturale.

Il corpo sociale non costituisce per la Weil solo una risorsa per l’individuo ma anche un continuo rischio per la fede in Dio, da lei concepita come “bellezza che nutre”, che invece viene spostata su un dio grande-perché-forte, a cui ci si rivolge per benedire i cannoni. La pensatrice francese paragona la collettività al “grosso animale” dagli umori imprevedibili della Repubblica di Platone. Una bestia che frantuma la personalità degli individui ed ha il potere di apparire a questi come un’entità trascendente e, in qualche modo, divina. Il grosso animale pretende esso stesso adorazione e impedisce agli uomini di elevarsi fino a Dio. Ovunque la società si fa idolo e distoglie da Dio si trasforma nel grosso animale che “ha come fine l’esistenza. ‘Io sono colui che sono’: anche lui lo dice. Gli basta esistere, ma non può né concepire né ammettere che altro esista. È sempre totalitario”. Afferma così nei suoi Quaderni. Ovviamente le dittature, con la loro ossessione nazionalistica e il culto della forza nella sua forma più brutale, lo incarnano pienamente. Ma alle dittature ella paragona pure la Chiesa che “è stata un grosso animale totalitario. Essa ha dato inizio al rimaneggiamento di tutta la storia dell’umanità a fini apologetici” (ibidem). Nella misura in cui dà spazio al suo carattere istituzionale, essa si distacca dalla purezza delle origini e si fa oppressiva. Già Dostoevskij mezzo secolo prima aveva visto nel Grande Inquisitore, metafora della Chiesa, il latore di un progetto volto a unificare con la forza e a incatenare l’umanità; un progetto empio, perché alternativo al disegno divino, e al contempo così banale perché connaturato all’uso che gli uomini han sempre fatto del potere. Partendo da un’approfondita riflessione sull’uomo, egli aveva previsto il sorgere delle dittature come pure l’avvento di una società di massa disumanizzante che definisce “grande formicaio” sociale, in fondo così simile al “grosso animale” della Weil. Diverso dal Leviatano di Hobbes, che rappresenta il potere dello Stato, assoluto ma necessario per fare rispettare il contratto sociale. Qui la forza è usata per proteggere la collettività dall’istinto predatorio presente in ogni uomo, quindi per salvaguardare la vita di relazione. Il “grande formicaio” e il “grosso animale” esercitano invece un’azione disumanizzante nei confronti dei singoli, non sono il luogo della loro realizzazione ma una minaccia alla loro integrità. Giancarlo Gaeta, fine conoscitore del pensiero weiliano, spiega che la collettività si fa nemica dell’individuo esercitando nei suoi confronti un’azione confusiva e inibente: “Tutto si gioca, anche socialmente a livello di individuo, rispetto alla possibilità o meno per l'individuo di svolgere nella società un ruolo cosciente di sé, delle sue possibilità, dei suoi rapporti con gli altri… La società diventa Bestia nel momento in cui impedisce di fatto all'individuo di essere cosciente. Si sostituisce ad esso oppure l'individuo accetta di immergersi all'interno di questa nebulosa. Questo lo priva di fatto della consapevolezza, della libertà e quindi anche della possibilità di pervenire alla coscienza della propria condizione umana. La Bestia è colei che ha la capacità di emettere continui segnali che distraggono l'individuo, il pensiero personale dalla possibilità di entrare in rapporto con se stesso e con gli altri. È la sconfitta della possibilità della relazione” (L’Apocalisse in Simone Weil, Pretioperai, 22/01/1993). Allora è chiaro che il “grosso animale” usa l’immensa forza del Leviatano non per servire la relazione degli individui ma per rapinare questi dei loro diritti essenziali, a cominciare da quello di potersi relazionare in modo consapevole con se stessi e con gli altri, e lo fa evidentemente al fine di autoglorificarsi. Esso è un vero predatore. Ed è significativo il fatto che la Weil lo identifichi con la Bestia dell’Apocalisse, quella assetata di adorazione che, grazie al potere e all’autorità affidatigli dal Maligno, perseguita i giusti, inganna gli abitanti della terra, persegue un progetto unificante (inteso come annessione e uniformazione) e rende schiavi i suoi sudditi condizionando le loro menti e le loro attività, ed escludendo dal contratto sociale chi vuol conservare la propria autonomia di pensiero e la propria integrità. Il fatto è, come abbiamo visto, che pure la Chiesa nella riflessione weiliana è coinvolta in questo gioco di potere, riassunto nel “grosso animale”. Vito Mancuso, il teologo cattolico così sintonizzato con l’ideale di libertà e di autonomia di pensiero della Weil, afferma in proposito: “L’aspetto negativo è quello che identifica la Chiesa come maestra ultima del pensiero. Mater et magistra del pensiero dei singoli cristiani. Ignazio di Loyola affermava che, per essere dei buoni figli della Chiesa, bisogna comportarci affermando che è nero ciò che la Chiesa dice essere nero, anche se noi lo vediamo bianco. Ciò suppone l’idea di una Chiesa come maestra definitiva della coscienza. Penso che questa modalità di interpretare il rapporto tra il singolo e la Chiesa sia finito. Non adesso, ma almeno 400 anni fa. La modernità segna l’emancipazione della coscienza, che non è qualcosa di negativo, ma qualcosa che arricchisce. Mai come in questo periodo storico, l’umanità ha goduto di un sistema socio-politico così evoluto, dove il valore dell’individuo è percepito da società e diritto come inalienabile. È il frutto dell’emancipazione della coscienza. L’individuo vale più del sistema di riferimento. Un processo al quale la Chiesa si è, peraltro, sempre opposta, anche se oggi non è più così. C’è una considerazione di Simone Weil molto significativa. Lei era una donna che, provenendo da una formazione atea, era giunta alle più alte tensioni spirituali e mistiche. Ebbene, questa donna si è rifiutata di accettare il battesimo. Perché? Per paura della Chiesa. «Se io aderisco alla Chiesa cattolica non sono più libera». Aveva il timore che sarebbe entrata a far parte di un organismo sociale che avrebbe compresso la sua libertà spirituale. Tutte le volte che diciamo “noi”, paghiamo un tributo al “grosso animale”, quello del libro VI della Repubblica di Platone, che attrae con forza le masse, quelle che hanno bisogno di essere governate. La Chiesa rappresenta spesso — secondo Simone Weil — questa situazione. Io non sposo questa tesi. Ma l’esperienza di Simone Weil è paradigmatica ed è il sintomo di una situazione che molti contemporanei vivono. Rifiutano la fede perché rifiutano la Chiesa. Riguardo a questo aspetto della Chiesa ritengo che la coscienza personale non debba asservirsi al “noi” ecclesiale. Non debba accettare nulla che non sia sentito come profondamente vero” (Intervista a Vito Mancuso, Vita Nuova, 31/01/2008). Non so fino a che punto sia condivisibile l’ottimismo di Mancuso sul fatto che “oggi non è più così”. Il problema è strutturale e riguarda il rapporto con il potere che, una volta conquistato, l’esperienza insegna, non lo si lascia più. Riporto a proposito lo stralcio di un articolo di Maurizio Lucenti, scritto nei giorni in cui Don Vitaliano Della Sala era stato sospeso a divinis, perché coglie il nocciolo del problema: “Il Potere. Eccola la parolina magica. Se un’istituzione si basa sul potere temporale non può dirsi cristiana. Nel vangelo la scomunica del potere, di quel potere che poi manda a morte il Cristo, come prima aveva fatto coi profeti e poi farà coi martiri, è chiara e senza appello. Potere e Amore sono in antitesi. Allora di quale chiesa parliamo? Parliamo della chiesa di Sodano, quella che anche Simone Weil definiva "un grosso animale"? O parliamo della Chiesa di Cristo, quella che Andrè Frossard, un altro convertito a me particolarmente caro, rimpiangeva ("La carità è Dio e tutto ciò che è carità appartiene alla Chiesa. Io non voglio che se ne faccia un partito. Forse sarebbe dovuta restare quella che era all’inizio: un’assemblea fraterna senza gerarchia. Oggi temo che sia diventata un’istituzione che si contempla mentre è Dio che bisogna contemplare")? Don Vita, essere estromesso dalla prima forse è un dono di Dio, non una punizione. Forse solo uscendo dalla chiesa di Sodano si può entrare nella Chiesa di Cristo. Ricorda: "nessun servo può servire due padroni". O servi Mammona o servi Cristo. Chi si inginocchia al Potere tradisce la Parola di Cristo che ci vuole fratelli perché "uno solo è il Padre vostro che sta nei cieli, uno solo è il Maestro, il Dottore: il Cristo". Se Cristo si fosse inginocchiato non sarebbe stato crocefisso. Dunque non temere Don Vita: solo Cristo potrebbe estrometterti dalla sua Chiesa. Non c’è gerarchia nell’amore. Perché non esiste la misura dell’eternità” (M. Lucenti, C’è Chiesa e chiesa, Il Dialogo, 24/03/2002) .


Conclusioni
Forse ha ragione chi afferma che Simone Weil non si sarebbe mai potuta convertire al cattolicesimo, per una serie di ragioni legate al proprio percorso di vita e culturale, a prescindere dal fatto che la Chiesa sia o non sia un’agenzia di libertà. Non si può tuttavia portare quest’impedimento a pretesto per dubitare dell’onestà del suo pensiero o mettere in dubbio la realtà della sua conversione perché testimonia per lei la sua stessa vita. D’altronde non è necessario condividerne a fondo la teologia per ritrovarsi nel suo anelito di libertà. Almeno così dovrebbe essere per tutti coloro che con lei scorgono nell’intelligenza un dono “specificamente e rigorosamente individuale”, e nel suo esercizio un dovere non delegabile a singoli uomini o istituzioni in quanto “la funzione propria dell'intelligenza esige una libertà totale, che implica il diritto di negare tutto, e l'assenza di ogni forma di predominio”. Libertà totale, poiché la salvezza e il giudizio sono un fatto individuale. La Weil non considerava ciarpame le altre tradizioni religiose perché era convinta che lo Spirito di Dio abbia ispirato pensieri profondi ai mistici sinceri di tutte le fedi. Non era neppure contraria alla diffusione della fede cristiana, purché lo si faccia con il dovuto tatto. "Credo - affermava nella Lettera a un religioso - che per un uomo cambiare religione sia altrettanto pericoloso che per uno scrittore cambiare lingua. La cosa può avere successo, ma può anche avere conseguenze funeste". Deplorava il fatto che la religione si fosse ridotta ad una faccenda privata al punto da occupare una dimensione modesta nella vita individuale e di quella pubblica a cominciare dalle attività economiche. Prioritaria era per lei la necessità che si edificasse una spiritualità del lavoro. Temeva l’impostazione laicista della cultura, sin dai banchi di scuola, e la riduzione della religione ad una serie di convenzioni, com’era avvenuto tra la classe borghese e come stava per avvenire, con conseguenze ancora più funeste, tra i contadini e gli operai, sradicati dai loro ambienti e distolti verso valori materiali. Era convinta che mai come nel suo tempo la vita delle anime fosse in pericolo e che solo il cristianesimo potesse offrire l’ancora di salvezza a condizione, però, che rinunciasse all’uso della forza e tornasse alla dimensione dell’amore soprannaturale. Questo era il punto: la diffusione dell’Evangelo non poteva attuarsi con lo spirito e gli strumenti di una Chiesa connivente con il potere, convinta di possedere l’unica verità da imporre al resto dell’umanità, giudicata incapace di attingerla autonomamente. La verità s’impone da sé, e ogni “incoraggiamento” che coarta le coscienze è controproducente perché genera le distorsioni cui è andata incontro la civiltà occidentale. A cominciare dall’idolatria: “Siamo realmente malati di idolatria; una malattia così profonda che toglie ai cristiani la capacità di testimoniare per la verità”. Il “totalitarismo della fede” mette il bavaglio all’intelligenza ed attenta alla libertà individuale che è condizione essenziale per le scelte esistenziali. D’altra parte la Weil era consapevole che la perfetta libertà è un’ideale irraggiungibile in questo mondo, ove tutto il bene è imperfetto e dove l’individuo è condizionato dallo stato di necessità e quindi dai vincoli che la società gl’impone. “Lo sforzo di affermare la libertà di pensiero si compie all'interno di una macchina sociale in cui sembra perdersi il senso del vivere. La libertà viene concepita come un ideale regolativo, cioè un obiettivo a cui aspiriamo senza poterlo mai raggiungere: proprio come le "idee" kantiane. Ciò non vuol dire che sia inefficace, perché, a differenza dei sogni, gli ideali orientano e muovono uomini e donne, li impegnano a cambiare lo stato delle cose, rendendo meno imperfetta la società” (Antonino Magnanimo). Persino il diritto alla libertà, però, può essere rivendicato solo se si riconosce anche l’obbligo di rispettarlo: la Weil cioè afferma il primato del dovere sui diritti. La sua è un’etica della responsabilità. L’affermazione del diritto alla libertà è costata molto cara a Dio. Quindi per la creatura morale l’esercizio della libertà oltre che un dono è pure una responsabilità, un compito a favore della vita. La stessa escatologia non può prescindere dall’uso che si fa di questo dono. Massimo Cacciari coglie bene questo punto: “…sulla base del testo paolino della lettera ai Romani 8,19, l'attesa dell'apocalisse non del Figlio che è avvenuta, ma dei figli. Qui il discorso di Simone Weil si carica davvero della sua massima tensione tragico-escatologica. Direi appunto che il pensiero della Weil ha una curvatura tragica qui, più che pessimistica, più che disperata: cioè siamo davvero noi gli eredi, tutto è stato davvero posto nelle nostre mani; siamo totalmente responsabili dell'apocalisse nostra, l'apocalisse dei figli. È questa l'apocalisse che tutto il creato attende e qui vi sono le domande più drammatiche di Simone Weil, in perfetta linea con le domande più drammatiche del testo evangelico. Cosa avverrà se perderanno fede e libertà? Perché non avete fede? Troverà ancora fede il Figlio nella dimensione della sua parusia; cioè di fronte al Figlio avranno ancora fede, cioè vita, i figli?” (L’Apocalisse in Simone Weil, cit.). Il cristiano è cioè invitato a guardare alle cose ultime non con spirito di resa ma con senso di responsabilità per far buon uso della propria libertà. Ancora oggi bisogna fare i conti con il percorso speculativo di Simone Weil.


Attualizzazioni
Alla fine di questo breve excursus sul primato della libertà nel pensiero di Simone Weil, mi vengono in mente due considerazioni che vorrei esprimere a margine perché ritengo utile collegare il più possibile un bel pensiero alla realtà del nostro tempo. Riteniamole una sorta di ampliamento della sezione “La Provocazione” che è già essa un’attualizzazione. Per farlo mi avvarrò di due riflessioni che condivido pienamente nel loro contenuto, reperibili in rete e a cui rinvio per il testo completo.

La prima considerazione riguarda la laicità delle istituzioni civili, che vanno garantite per consentire a tutti i cittadini di vivere liberamente e serenamente la propria dimensione religiosa, qualunque essa sia o non sia, nel rispetto chiaramente delle comuni regole di convivenza civile. Degenerazione dello Stato laico, che si pone neutralmente al di sopra delle fedi, è lo Stato laicista che può assumere varie sfumature, dall’ateismo dichiarato a quello dissimulato, e che di fatto o di diritto scoraggia l’espressione di ogni fede religiosa. All’altro estremo abbiamo lo Stato confessionale che assume come ufficiale una precisa fede religiosa e rende difficile la vita a tutte le altre. Come spunto di riflessione su questo tema trovo utile richiamare il contenuto dell’intervento pronunciato dal teologo valdese Daniele Garrone lo scorso 28 agosto presso il Parlamento Europeo, nell’ambito del convegno “Secularism and Religions”. L’intervento dal titolo “Religioni, laicità e modernità: un punto di vista protestante italiano”, si articola in quattro punti.

Nel primo punto, Garrone osserva come fino a pochi decenni fa sembrava irreversibile il processo di secolarizzazione del nostro pianeta e come oggi, inaspettatamente, si assiste ad una rinascita del fenomeno religioso, che in alcune realtà si radicalizza fino all’eccesso della violenza sanguinaria, e che in occidente assume la forma “di una sostanziale messa in questione della laicità, della separazione tra stato e chiesa, soprattutto con la richiesta ‘di trasformare in ragioni pubbliche tesi confessionali’ (G. E. Rusconi)”. Questo movimento pone in discussione la stessa legittimità, così faticosamente acquisita, dello Stato laico e trova il pieno consenso “dell’attuale pontefice romano, secondo il quale tutto si è guastato dopo Bacone, Lutero e Kant, lasciando il posto alla dittatura del relativismo, ad una laicità sinonimo di ateismo intollerante ed estromettendo Dio dalla sfera pubblica”.

Nel secondo punto, Garrone paventa i rischi di certo dialogo inter-religioso volto a far fronte comune contro la modernità, che garantisce il pluralismo, al fine di ripristinare il principio autoritativo delle rispettive verità rivelate. Questo tipo di dialogo tende a coalizzarsi su temi specifici per un impegno comune a favore della “vita”, della “famiglia” (nelle loro interpretazioni particolari), “per la rivendicazione pubblica dello spazio che compete a Dio (così Benedetto XVI ad Ankara)”, ecc. Al contempo questa spinta identitaria antimoderna tende a togliere spazio al pluralismo interno alle singole confessioni “facendo diventare certezza ciò che era oggetto di ricerca e aperto ad opzioni anche diverse che non mettevano però in questione il senso di una appartenenza comune. Ora si tende alla logica del dentro/fuori”.

Nel terzo punto, il teologo valdese sottolinea la fragilità del nostro Paese che non ha conosciuto, come gli stati europei più evoluti, il pluralismo confessionale ma ha subito la vittoria schiacciante della controriforma. Per cui la riscossa clericale si confronta con una laicità “asfittica”, incapace di contrastare le richieste delle gerarchie cattoliche che “diffondono l'idea che prevalga nel paese la volontà di emarginare i cattolici” quando in realtà incassano quotidiani successi. La prospettiva è purtroppo sconfortante, non tanto per le continue ingerenze dei chierici, quanto per la mancanza di cultura dei nostri politici (avendo l’Italia perso Lutero e Kant) e quindi di postura “per gestire da adulti l’autonomia della politica”.

Nel quarto ed ultimo punto, Daniele Garrone spiega le ragioni per cui gli evangelici italiani sostengono tutte le battaglie per i diritti e per la laicità. E le trova nel loro modo di intendere la fede cristiana. La testimonianza di questa fede “è inequivoca solo quando è priva di presupposti, necessità, tutele, privilegi. L’unico ‘spazio per Dio’ nel mondo che ci interessa è quello della libera risposta della fede, con le scelte che ne conseguono, non quello di un’etica supposta valida e vincolante per tutti. Tutto il resto fa del cristianesimo civiltà, non fede”. Sebbene il papa esorti tutti, prescindendo dalle loro convinzioni, a vivere “come se Dio fosse dato”, lo stesso modo in cui Dio si è rivelato in Cristo dovrebbe in realtà suggerire “che la vita veluti si Deus daretur è quella che nasce dalla conversione personale (vieni e seguimi) e dalla risposta individuale della fede e non dal riconoscimento pubblico di valori disgiunti dalla fede”. Anche se la fede implica dei non possumus (non possiamo altrimenti) la loro forma legittima è la testimonianza personale, così come negli esempi biblici; essi “non pretendono un riconoscimento preventivo e statutario sulla agorà in cui si esercitano, ma si esprimono invece proprio come parola rischiosa nel novero delle opinioni. Penso cioè – conclude Garrone – che la teologia cristiana, proprio a partire dal centro della sua confessione di fede, la cristologia e la teologia della croce, dovrebbe rivendicare la laicità, la neutralità religiosa della sfera pubblica, il separatismo, in vista di una testimonianza autentica perché non legata ad alcun vincolo imposto ad alcuno né ad alcun privilegio. Nella nostra comprensione, proprio Cristo come rivelazione di Dio e come unica mediazione implica la laicità della piazza su cui il suo nome è annunciato e l’esclusione di ogni mediazione e tutela clericale”.

La seconda considerazione riguarda le divisioni nel mondo cristiano. Non mi riferisco solo ai due grandi scismi storici pur nell’ambito del solo cristianesimo trinitario (Chiesa latina da quelle orientali e il Protestantesimo dalla Chiesa di Roma); ma anche all’immensa galassia in cui è polverizzato l’universo della Riforma. La prima impressione, osservando questa divisione tra comunità che si richiamano allo stesso Signore, è quella dello sconcerto, anche dell’indignazione. “Sembra proprio che non ci sia alternativa: o il blocco politico-economico-istituzionale dello strapotere cattolico-romano, o l’infinita frammentazione e l’esasperato individualismo del mondo protestante-evangelico, che ha di fatto tradito il grande principio di partenza (Sola Scriptura) per inventarsi centinaia di tipi di presunto cristianesimo che con la Scrittura, per molti aspetti hanno ben poco a che fare”. È il grido d’angoscia emesso dalla Chiesa di Cristo di Udine, che quindi suggerisce la seguente soluzione: “Dobbiamo reagire e riscoprire e riproporre nella pratica la sola e vera Chiesa di Cristo, quella del Nuovo Testamento. La ribellione, la sete di potere, il tradizionalismo e/o l’approssimazione alle quali tendiamo tutti come uomini peccatori deve lasciare il posto all’obbedienza nei confronti della Parola di Dio, parlando dove la Bibbia parla e tacendo ove essa tace. Nonostante tutto, è ancora possibile, oggi, dare vita a una realtà che conservi la semplicità e al tempo stesso la serietà, la coerenza e l’unicità del messaggio del Vangelo, per evitare di illudersi di essere uniti nella diversità di credi, ricercando invece la vera unità possibile nella verità di Dio. Non si deve trovare "unità nella diversità", bensì unità nell’unica Verità (cfr. Efesini 4:4-6). L’ecumenismo non giova a nulla, se non a una pur auspicabile forma di tolleranza; ma non aiuta a trovare il vero rapporto con Dio. Ogni confessione deve spogliarsi da tutte le proprie tradizioni, teologie e incrostazioni storiche, per rivolgersi solo al vangelo. Questa è l’unica medicina divina”. Parole condivisibili. Chi è però l’interprete infallibile della Parola di Dio? Il Magistero Pietrino, quello dei culti della Madonna e dei santi, delle immagini e delle statue, del sacrificio della messa, del purgatorio e delle pene eterne? Insegna questo la Parola di Dio? O c’è una chiesa evangelica che ha a sua volta il monopolio della corretta interpretazione? Perché a sentirle, ognuna di loro possiede la “verità”! E se questa sicurezza non c’è quale unità vogliamo quella imposta dal più forte, quella della “normalizzazione” forzata condotta per secoli a partire dai decreti di Teodosio? Vorremmo davvero che il “grosso animale” ecclesiastico imponesse ancor oggi i suoi dogmi a forza di roghi, squartamenti, annegamenti ed altri consimili atti di carità cristiana? Allora sorge un dubbio: e se queste divisioni paradossalmente fossero volute da Dio come il minore dei mali? Ricordiamo l’episodio del profeta Semaia, inviato a fermare Roboamo in procinto di riconquistare i territori secessionisti d’Israele? Qual era il messaggio? “Così dice il Signore: Non andate a far guerra agli Israeliti, vostri fratelli. Ognuno se ne torni a casa sua, perché HO VOLUTO IO QUESTA SITUAZIONE” (1 Re 12:24). Partendo da questa lettura del fenomeno, quella della divisione come male minore, il pastore riformato Paolo Castellina offre un contributo alla riflessione con un bell’articolo dal titolo: “La molteplicità delle chiese: i valori del pluralismo e della libertà”.

Castellina parte proprio da questa sorta di confronto surreale ove ogni denominazione protestante dichiara il proprio sistema dottrinale essere “la verità” in quanto basato sulla Parola e ispirato dallo Spirito Santo. Qualcosa evidentemente non quadra, soprattutto se il fenomeno lo si osserva dalla prospettiva dei cattolici i quali vi scorgono la prova di cosa può accadere quando si disconosce il Magistero della Chiesa. Ma la monoliticità non appartiene neppure al mondo cattolico che al suo interno è molto più differenziato di quel che in apparenza possa credersi, composto com’è “da un numero enorme di congregazioni, tendenze e linee diverse”. C’è anche tanto dissenso tenuto a bada con molta fatica dalle gerarchie, con l’unica alternativa per i dissidenti di nascondere le proprie idee o d’incorrere in sanzioni, non si sa poi quanto efficaci. Qui sine peccato est

Se però questa realtà la si osserva da una prospettiva protestante, “è possibile averne un’immagine senz’altro più serena e meno ossessionata dall’idea di unità a tutti i costi”. L’unità rimane comunque un valore verso cui puntare, con il dialogo e il confronto però, non certo da imporre. Anche la libertà infatti è un valore fondamentale, cosa che soprattutto nel mondo cattolico si tende a sottovalutare. “Il pluralismo delle espressioni della fede cristiana, è un valore altrettanto importante dell’unità”. Senza riflessione autonoma e serena molte verità non sarebbero emerse, aggiungo io, e l’unità non si può certo perseguire disconoscendo tali verità. L’unità della fede che piace a Dio è quella che si compie verso la luce e non verso le tenebre. E per far ciò tutti i dialoganti devono avere l’umiltà di dichiararsi fallibili anche nei propri sistemi dottrinali.

A questo punto dell’analisi, Castellina paragona l’unità tra i fratelli al matrimonio. L’ideale è che la comunione degli sposi duri “vita natural durante”, ed a questo è giusto tendere, “ma in alcuni casi può essere giustificata e persino consigliata la separazione”. I principi sono importanti ma bisogna tener conto del dato di realtà vincolato alla fragilità della condizione umana. Persino la legge mosaica, così formalista, dovette prendere atto dei limiti umani introducendo l’istituto del ripudio. Non si può costringere la gente a stare insieme per forza, siano essi gli sposi, siano essi i fratelli in fede. “In ogni caso, anche la separazione va sdrammatizzata e può essere vissuta responsabilmente”.

Senza voler rinunciare ai principi fondamentali dell’Evangelo e all’ideale di unità, il pluralismo è un valore auspicabile e irrinunciabile. È sempre stato così nella Chiesa. Anche ai giorni degli apostoli, le comunità risentivano della cultura locale, dell’origine dei membri, della sensibilità del loro fondatore. Tutti erano testimoni di Cristo ma gli esprimevano la loro fedeltà, dall’organizzazione alla liturgia, in modalità differenti. E così è stato anche in seguito: “Le comunità cristiane delle isole britanniche erano diverse da quelle del Medio Oriente, del Nord Africa o della Spagna. È stata la Chiesa di Roma che gradualmente ha imposto forzatamente la propria autorità ed uniformità, e non senza forti resistenze”. Il pluralismo all’interno della cornice protestante pertanto non è un fatto nuovo e neppure negativo in sé. Ogni denominazione ha la sua storia e la sua ragion d’essere. Alcune “chiese sono sorte come protesta locale contro il Cattolicesimo, ritenuto oggettivamente irriformabile. Altre sono sorte attorno all’opera, predicazione, insegnamento, influenza di un particolare leader o riformatore, e del quale hanno assunto il nome. Altre sono sorte quando un gruppo di cristiani ha riscoperto un particolare aspetto o principio della dottrina cristiana che era stato trascurato e che non riusciva adeguatamente a vivere nella propria realtà di partenza. Altre sono sorte dopo un risveglio spirituale rispetto ad una chiesa sclerotizzata in un insopportabile tradizionalismo e nel vuoto formalismo. Altre ancora come liberazione da un leader religioso autoritario e dittatoriale. Sono i vantaggi (irrinunciabili) e gli svantaggi (spesso inevitabili) della libertà, valore importante quanto l’unità e il pluralismo… Perché mai si dovrebbe essere scandalizzati dalle differenze? Tutto questo può essere vissuto come un valore che arricchisce. Perché la piatta uniformità dovrebbe essere desiderabile?” I modelli ispirati ad un unitarismo radicale hanno sempre prodotto dittature.

Non è il pluralismo che inibisce il dialogo e la crescita del cristianesimo; è semmai l’esclusivismo delle sette e delle chiese settarie, che si ritengono le uniche depositarie della verità, le uniche ispirate dallo Spirito Santo, e pertanto, aggiungerei, si pongono fuori da ogni possibile onesto dialogo, o isolandosi o mirando ad annettere gli interlocutori, considerati tutti nell’errore. “Questo non è lo spirito delle chiese autenticamente evangeliche. Lo spirito evangelico è ispirato alla tolleranza, al rispetto degli altri, ed alla paziente ricerca di dialogo e cooperazione con gli altri. Il denominazionalismo stesso può essere un valore positivo: nessuna denominazione fu concepita come “la chiesa” per eccellenza, ma piuttosto come un ramo particolare della chiesa”.

Nella misura in cui i cristiani interagiscono tra loro, le differenze possono essere considerate una ricchezza, perché “nessun raggruppamento cristiano può dire di avere una comprensione piena della verità, e quindi la vera Chiesa non è mai rappresentata in alcuna singola denominazione”. La separazione delle comunità cristiane per ragioni di coscienza non le rende scismatiche; anche se le diversità in qualche modo dividono, quando si è uniti a Cristo, si appartiene alla stessa religione. A dispetto delle differenze teologiche, in ogni chiesa vi sono autentici cristiani rigenerati dalla Spirito Santo. “Certo, sarebbe bello – osservava Jeremiah Burroughs – che fossimo d’accordo negli stessi mezzi e nel nostro modo di opporci al nemico. Sarebbe la nostra forza. Questo però non lo possiamo attendere in questo mondo”.

Che aggiungere alla riflessione di Paolo Castellina? Che purtroppo il settarismo e l’intolleranza allignano anche all’interno delle chiese che settarie non si ritengono. Ogni comunità locale fa testo a sé. Ci son quelle più abituate al dialogo ecumenico, che considerano e chiamano “fratelli” anche i cristiani che appartengono ad altre denominazioni, ma ci son quelle che non nascondono la propria diffidenza, quando non proprio ostilità, nei confronti degli “estranei”. Probabilmente i pastori dovrebbero fare di più per aiutare le loro comunità a non sentirsi “la Chiesa” quanto piuttosto “un ramo particolare della Chiesa”. Un’altra osservazione che mi sentirei di fare è quella di vedere nel pluralismo anche un modo per raggiungere particolari sensibilità e culture di un’umanità fortemente articolata. Aderire ad una denominazione piuttosto che ad un’altra può anche essere un fatto di affinità, di compatibilità culturale o caratteriale. Viene da pensare che se certe chiese non ci fossero, alcuni non si convertirebbero a Cristo o resterebbero ai margini della cristianità organizzata. L’ultima considerazione riguarda l’evoluzione di questo pluralismo. Come avviene sempre, l’uomo finisce per fare cattivo uso della libertà che gli viene concessa. Le divisioni sono un male minore ma sono comunque un male. L’esasperata frammentazione, più che al desiderio di libertà è spesso da ascriversi ad un accentuato individualismo di certi leader carismatici che trasmettono settarismo e intolleranza al loro gruppo. E allora mi chiedo: con questo spirito, che è lo spirito anche delle grandi chiese settarie, quelle che posseggono il monopolio della salvezza, verso che tipo di unità potrà ritrovarsi la cristianità? Probabilmente non un’unità in Cristo, ma un’unità contro qualcosa o contro qualcuno. Come dire un’unità intollerante e persecutoria, antilibertaria. Lo vediamo già adesso in queste alleanze tra fondamentalismi cristiani che si coagulano attorno a grandi battaglie tematiche di sapore oscurantista. E allora l’identificazione che Simone Weil ha fatto tra il “grosso animale” e la Bestia dell’Apocalisse, or sono 66 anni, assume anche un sapore profetico.