domenica 30 novembre 2008

Obama e la religione

Se ne sono sentite tante sulla fede di Barack Obama: che segretamente è musulmano, che fa ostentazione opportunistica di fede cristiana, che condivide le posizioni antiamericane di Jeremiah Wright, leader della Chiesa in cui s'è battezzato e s'è sposato. Dando una scorsa alla sua biografia queste accuse appaiono infondate. Sebbene il padre (un medico keniota) provenisse da un ambiente musulmano, si dichiarava agnostico e comunque ha influito molto poco sulla vita del figlio giacché divorziò dalla madre di Barack jr. quand’egli aveva ancora due anni. I nonni materni del neopresidente erano cresciuti in famiglie battiste e metodiste ma, come egli afferma nella sua autobiografia, “la fede non ha mai veramente messo radici nei loro cuori”; la stessa madre, per le esperienze vissute, non fece che rafforzarsi in “questo scetticismo ereditato”. Fu quand’egli aveva circa vent’anni, collaborando con alcune chiese locali, che si verificò il suo avvicinamento alla fede cristiana; grazie all’accento che la tradizione afro-americana poneva nel cambiamento sociale, un tema a cui già allora egli era particolarmente sensibile. Come egli stesso raccontò, “fu a causa di queste nuove comprensioni, cioè che l'impegno religioso non richiedeva di sospendere il pensiero critico, di smettere di lottare per la giustizia economica o sociale, o di ritirarmi da quel mondo che conoscevo e amavo, che fui finalmente capace di camminare nella navata della Trinity United Church of Christ ed essere battezzato. Fu una scelta consapevole, non una rivelazione; le domande che mi ponevo non sparirono di colpo. Ma inginocchiandomi sotto la croce nel South Side di Chicago, sentii lo spirito di Dio che mi attraeva. Mi piegai alla Sua volontà, e mi dedicai a scoprire la Sua verità”.

È una vera professione di fede cristiana che, in qualche modo, lo accomuna al presidente uscente. D’altronde anche Bush ha raccontato della propria conversione avvenuta in età adulta che ha costituito un momento di svolta della sua vita. Inoltre, lo stesso Obama ha dichiarato che la fede non è un aspetto da tenere separato dal dibattito sulla cosa pubblica e dalle decisioni in politica. Egli si è pronunciato più volte sull’argomento, ma, detto questo, le convergenze con il presidente uscente finiscono qui. La novità espressa da Obama è avvertita anche nella scettica Europa, abituata alla separazione tra politica e sfera religiosa privata. Infatti i nostri politici, mentre storcono il naso quando sentono George W. Bush menzionare Gesù da cui trarrebbe ispirazione, appaiono più condiscendenti quando Barack Obama fa la stessa cosa. Perché? La ragione deriva evidentemente dalle conseguenze che egli fa derivare da questo accostamento. Lo ha spiegato chiaramente in un discorso tenuto nel mese di giugno: “Penso che sia un errore – ha affermato il senatore dell’Illinois – non riconoscere la forza della fede nella vita degli americani e non addentrarsi in un dibattito su come conciliare la fede e la nostra democrazia moderna e pluralistica. È un assurdo pratico dire che uomini e donne non dovrebbero far confluire la propria morale personale nei dibattiti pubblici”, giacché “il nostro diritto è per definizione una codifica della morale, basato in larga misura sulla tradizione giudaico-cristiana: se noi progressisti riuscissimo a disfarci dei pregiudizi, potremmo riconoscere l’esistenza di valori convergenti, condivisi da credenti e laici quando si tratta della direzione morale e materiale del nostro paese”.

Per afferrare in tutta la sua portata la novità espressa in questa dichiarazione, bisogna inserirla nel contesto socio-culturale a cui è indirizzata. Al contrario di quanto avviene in Europa, sia Bush che Obama non potrebbero mai dissociare la loro immagine politica da quella religiosa, oggi men che mai. Sebbene si muovano in uno spazio politico che non potrebbe essere più divergente, essi sono comunque vincolati alle comuni radici rappresentate dal cosiddetto americanismo religioso. Gli Stati Uniti, al contrario delle democrazie europee, non sono sorti a dispetto della religione. La democrazia si fece largo in Europa combattendo la Chiesa e la religione, senza distinguere tra le due, e maturando pertanto una forte avversione per entrambe. Altrettanto non è avvenuto in America dove la democrazia è da sempre sorretta da una forte sensibilità religiosa. Ancora oggi l’80% degli americani dichiara di credere in Dio, e il 60 afferma che “la religione svolge un ruolo importante” nella sua vita. I vari emendamenti alla Costituzione in materia di religione non sono stati concepiti per tener lontana la fede dalla gestione della cosa pubblica ma per impedire alle assemblee civili di legiferare a danno della libertà di coscienza. Quest’identificarsi in valori comuni fortemente determinato dal prevalente sentire religioso, e da cui non possono prescindere né la codifica del diritto né il dibattito politico, è anche definito “religione civile”.

Il fatto stesso che i legislatori americani abbiano dovuto integrare la Costituzione, poco dopo la sua promulgazione, con emendamenti che garantissero dall’ingerenza della legislazione civile nella libertà di culto e di coscienza, e gli innumerevoli tentativi volti ad abolire o a depotenziare tali emendamenti, sono la prova che le interferenze della religione nel dibattito politico ci sono sempre state. Talvolta tali interferenze erano determinate da movimenti organizzati in associazioni, e ciò accadeva già nei primi decenni dell’800. A cavallo tra la prima guerra mondiale e la guerra del Vietnam si era avuta l’impressione che l’America si stesse secolarizzando e lo stesso mondo accademico vide rafforzarsi al suo interno forti correnti laiciste. Il movimento per i diritti civili, consolidatosi tra gli anni ’60 e ’70, pose nuove domande sulla scena politica spesso in contrasto con le posizioni del conservatorismo religioso. Ciò che nessuna maggioranza politica avrebbe potuto compiere, nonostante questa nuova sensibilità, fu realizzato dalla Corte Suprema. Essa infatti, con una serie di memorabili sentenze, incise profondamente su aspetti importanti della vita sociale connessi alla sfera morale e personale. Tra l’altro, rispettivamente nel 1962 e nel 1963, essa decretò l’incostituzionalità della preghiera e della lettura della Bibbia nelle scuole pubbliche e, nel 1973, l’incostituzionalità delle norme che vietavano l’interruzione volontaria della gravidanza. Sempre nel verso di una più marcata laicizzazione delle istituzioni civili s’indirizzarono le scelte del presidente Kennedy già nei primi giorni della sua lunga campagna elettorale. Nel suo famoso intervento presso la Greater Houston Ministerial Association nel 1960, egli auspicò “un’America ove la separazione tra Stato e Chiesa fosse assoluta”. Egli dichiarò con fermezza che la fede di un presidente dovrebbe essere “un suo affare privato”, intendendo così che la fede del primo cittadino non avrebbe dovuto avere alcuna influenza nelle politiche pubbliche. Tra l’altro, egli si disse contrario ad ogni sovvenzione governativa alle scuole parrocchiali così come al mantenimento di un ambasciatore americano presso la Santa Sede. Per Kennedy questa dichiarazione di principio era in realtà una presa di distanze dal Vaticano che d'altronde, a quel tempo, non aveva ancora riconosciuto il diritto alla libertà religiosa e rimaneva ambiguo rispetto al concetto di democrazia; egli era il primo candidato cattolico alla presidenza e doveva far passare il messaggio che non avrebbe preso ordini dal Papa. Per stessa ammissione del suo entourage, Kennedy portò i principi di laicità più lontano di quanto egli stesso avrebbe voluto. Così la sua presidenza divenne una sorta di spartiacque con il passato; e le sue affermazioni fondarono una nuova ortodossia che per molti decenni ha sanzionato come politicamente scorretta l’intrusione nel dibattito pubblico di tutti coloro che erano mossi da motivazioni religiose. Il discorso di Houston, definito in seguito anche Concordato del 1960, ha soprattutto condizionato le linee guida del partito democratico che da allora ha assunto un taglio laicista e ha condotto molti credenti democratici fuori dal loro partito.

Questa impostazione laicista toccò meno il partito repubblicano perché esso nel frattempo cominciava a comprendere l’importanza del bacino di voti costituito dalla cosiddetta “America profonda”, quella rurale degli stati interni e del sud conservatore. Quella posta in ombra dalle élites secolarizzate delle città costiere ma nient’affatto annichilita. Essa, allarmata dalle vittorie ottenute dal movimento per i diritti civili viste come un attacco ai valori tradizionali e all’ordine sociale e familiare, cominciò ad organizzarsi in numerose associazioni di base. Ci si accorse di quest’America per lungo tempo silenziosa, nel 1976, con l’elezione di Jimmy Carter, politicamente un progressista ma esponente di quel mondo religioso evangelical considerato bigotto e illetterato. Furono però esponenti repubblicani a creare l’embrione di quella che oggi conosciamo come Destra Cristiana dal cui seno sono scaturite importanti organizzazioni tra cui la più nota, per buona parte degli anni ’80, fu la Moral Majority di Jerry Falwell. Possono considerarsi tre le tappe che portarono la Destra Cristiana a introdursi sempre più autorevolmente nei palazzi della politica e del potere. In una prima fase, durante la stagione reaganiana, essa agiva prevalentemente fuori dalle sedi istituzionali, con l’attivismo di base, facendo pressione sui politici ad essa culturalmente più vicini e disposti a sponsorizzare il suo programma di lotta contro l’aborto, la parità dei sessi, i diritti degli omosessuali, l’insegnamento dell’evoluzionismo e dell’educazione sessuale, per la reintroduzione della preghiera nelle scuole e l’appoggio incondizionato ad Israele. Ma questa strategia si rivelò poco remunerativa. Più risultati si ottennero con la seconda fase, che fece perno sulla Christian Coalition di Pat Robertson, che si fece essa stessa movimento politico, appropriandosi degli strumenti e del linguaggio della politica. Essa s’infiltrò pervasivamente all’interno del partito repubblicano, prendendone il controllo in molti stati, come fu evidente durante la convention repubblicana per le presidenziali del 1992. Allora il movimento portò il 40% dei delegati e impose a Bush padre il vice presidente (Dan Quayle) e la linea del suo programma elettorale. Ma fu nella terza fase, durante le elezioni presidenziali del 2000, che la Destra Cristiana riuscì a giocare un ruolo decisivo nella politica americana e, persino, internazionale. Dapprima nella lotta per le primarie, quando si spese con forza a favore di George W. Bush (ritenuto dal movimento “uno dei nostri”) e contro John McCain, giudicato troppo liberal. Quel confronto nel partito repubblicano rese evidente la perdita di peso della corrente liberale e progressista interna a quel partito. La destra religiosa ebbe altresì un ruolo decisivo nella successiva campagna presidenziale che portò alla vittoria di Bush su Al Gore, sia pur di misura. Ed ebbe un ruolo ancor più determinante nella sua rielezione che lo vide trionfare, nonostante gl’insuccessi della guerra in Iraq, proprio per l’impostazione che egli diede a difesa della fede e dei valori tradizionali.

Bush, “uno dei loro”, che ben conosce e sa perfettamente manipolare la semantica di questa subcultura religiosa. Egli ha dimostrato di saper usare il linguaggio fondamentalista e di rimanerne a sua volta influenzato. Come ha osservato Newsweek, infatti, egli è un uomo che “fa sempre affidamento sulle sue credenze per sapere ciò che è giusto”. Non che sia il primo presidente a insistere sulle proprie radici religiose e a citare versetti della Bibbia, ma certamente mai prima di lui alla Casa Bianca la religione aveva esercitato un peso così schiacciante. È anche vero che la sua posizione non si può perfettamente sovrapporre a quella della Destra Cristiana che lo ha finora supportato. Se non altro perché questo non è un movimento monolitico ma rappresenta l’opinione conservatrice di molte fedi: degli evangelici, di parte dei protestanti ed anche dei cattolici che in passato votavano democratico ed ora con Obama son tornati a farlo. Non del tutto interpretabile è stato l’appoggio alla cosiddetta “guerra del terrore”, in risposta agli attentati del 2001, vera ossessione dell’amministrazione Bush. Sia Falwell che Robertson hanno infatti visto negli eventi dell’11 settembre la punizione divina contro un paese immorale e corrotto, pertanto il sostegno alla guerra non è stato così unanime e convinto. Però certamente una buona parte di questa destra confessionale ha appoggiato l’amministrazione Bush nella sua crociata antiterrorista, significativamente chiamata “Operazione giustizia infinita”, che esalta le attività belliche americane come preordinate da Dio.

E su questa percezione che certa America religiosa ha di sé è utile soffermarsi un attimo. Dal momento che gli americani applicano una “giustizia infinita”, sottintendono che i loro nemici sono infinitamente colpevoli mentre essi sono infinitamente innocenti, quando invece infinito nel linguaggio biblico fa riferimento soltanto alle qualità di Dio e mai a quelle delle creature. Si potrebbe pensare che queste definizioni siano volutamente iperboliche, ma non è così: esse intendono proprio quel che dicono. Quando Bush parla di “asse del male” è del tutto convinto che tale asse non passi assolutamente da Washington. Nella spiritualità patriottica del presidente, e di tanti altri con lui, non esiste il minimo spazio per l’autoesame critico e quindi neppure per il pentimento e il rinnovamento. Quando egli ha parlato di “immane lotta tra bene e male” e di una “nostra responsabilità di fronte alla storia” che è chiaramente quella di “rispondere a questi attacchi e liberare il mondo dal male”, non ha pensato minimamente che parte di questo male potesse trovarsi a casa sua, tra la sua gente, e che quindi per liberare il mondo dal male bisognava partire da lì. No, il male sta solo fuori e la soluzione consiste nell’eliminazione dei malvagi: soluzione chiaramente in linea con l’insegnamento di Gesù da cui Bush dichiara di prendere ordini. Quando alcuni discepoli, indispettiti dai samaritani, proposero: “Signore, vuoi che diciamo che un fuoco scenda dal cielo e li consumi?”. Gesù li sgridò e disse: “Voi non sapete di quale spirito siete animati. Poiché il Figlio dell’uomo è venuto, non per perdere le anime degli uomini, ma per salvarle” (Lc 9:54-56). E gli americani quanto a far scendere fuoco dal cielo non sono secondi a nessuno. Ovviamente Dio non può che stare dalla loro parte. "La libertà e la paura, la giustizia e la crudeltà, sono sempre state in guerra tra loro e sappiamo che Dio non rimane neutrale in questo conflitto", ha affermato Bush. Perché Egli è contro il terrorismo e sta dalla parte dei buoni. E “io so quanto siamo buoni”, ha ancora affermato il presidente uscente. Da ciò deriva la convinzione di essere il nuovo popolo eletto, l’erede dell’antico Israele. “La nostra nazione è stata scelta da Dio e incaricata dalla storia per essere un modello di giustizia nel mondo”. Sono sempre parole di Bush. Ovviamente la dottrina dell’elezione non l’ha scoperta lui, ma ne parlava già Herman Melville due secoli fa: “Noi americani siamo un popolo peculiare ed eletto: siamo l'Israele dei nostri tempi. Noi portiamo sulle nostre spalle l'arca delle libertà del mondo”. Ancora oggi pesa nelle memorie della nazione un termine coniato nel 1845, quand’era presidente Andrew Jackson, quello di “Destino Manifesto”. Allora bisognava giustificare la conquista dell’intero continente a danno delle colonie ispaniche. Era destino manifesto – scriveva l’ideologo di quel presidente – che l’America “si spargesse sul continente che la Provvidenza le ha assegnato, per il libero sviluppo dei milioni di americani che ogni anno si moltiplicano”. A partire dal XX secolo la mitica “frontiera” americana si sposterà dal continente al mondo intero, e la nazione eletta sarà chiamata a contrastare i nazionalismi, i fascismi e i comunismi, con ogni mezzo. Ma è dal 2001 che l’elezione giustifica l’azione del vendicatore solitario, la guerra preventiva contro gli stati canaglia, con o senza l’approvazione del consesso internazionale. Alla Jihad islamista occorreva che rispondesse una nazione anch’essa motivata dalla fede e investita dal compito direttamente da Dio. “Ho un compito da realizzare – affermò Bush solennemente – e in ginocchio chiedo al Signore buono che mi aiuti a compierlo”. Va da sé che il suo Dio può solo benedire il compito che lui si è dato, e chi esprime perplessità su tale compito non è guidato da Lui che può solo essere un buon Dio americano, repubblicano, fervente patriota e sostenitore della politica estera del suo servo George. Qualcuno ha voluto richiamare l’autocompiacimento di Bush alla preghiera del fariseo parodiandola così: “Ti ringraziamo, Signore, perché non siamo come gli altri popoli, terroristi e senza libero mercato”. Ed ha trovato corrispondenze tra tale atteggiamento e quello dei falsi profeti dell’Antico Testamento che, invece di richiamare i peccati del loro popolo, lo rassicuravano illudendolo d’essere buono e giusto.

Per fortuna non tutti i cristiani d’America la pensano così. Contro la dottrina del Destino Manifesto si era già levato nel 1932 il teologo americano Reinhold Niebuhr, che Luigi Giussani definì “il demitizzatore di quell’idea di una America come luogo manifestativo del Regno di Dio, che in varia flessione e varie tonalità aveva suggestionato lo spirito di tutta la storia americana”. Partendo dalla constatazione che gli Stati Uniti del ventesimo secolo siano “allo stesso tempo, la più religiosa e la più secolarizzata delle nazioni occidentali”, nonostante la funzione decisiva svolta dalla religiosità sin dagli inizi della storia nazionale, egli prende atto che questa non ha mai potuto originare istituzioni civili immacolate. “Bello sarebbe un mondo in cui l’uomo morale è generatore di una società egualmente morale – scrisse nel suo saggio Uomo Morale e Società Immorale – ma il sogno è irrealizzabile e per ciò stesso pericoloso”. Singoli uomini possono trascendere il proprio interesse, non così può avvenire per il potere pubblico e le imprese collettive. La realtà della politica è indissolubilmente legata all’umanità corrotta che la esprime e che è incapace di fare un giusto uso della libertà. Pertanto ogni posizione che conduce ad una approvazione incondizionata del potere è, a suo avviso, irrealistica. Egli criticò le posizioni di Lutero e di Hobbes che, pessimiste sulla natura umana e allo scopo di scongiurare una società in preda al conflitto perenne e all’anarchia, “hanno sbagliato nella percezione del pericolo della tirannia nell’egoismo dei governanti. Perciò essi hanno nascosto la conseguente necessità di porre dei controlli alla volontà dei governanti”. Questa visione pessimistica del potere, portò Niebuhr ad una triplice e consequenziale considerazione: Anche il migliore dei regimi politici non può che approssimarsi al bene in maniera imperfetta. Per cui è irrealistica la pretesa di vedere nell’America il Paese scelto da Dio per realizzare il suo regno sulla terra. La seconda considerazione verte sulla necessità di prevedere forme di controllo efficaci su quanti detengono il potere, in quanto come tutti soggetti alla corruzione e all’egoismo, al fine di frenare la tendenza al dispotismo. E, infine, prendendo atto che il peccato non agisce solo negli altri ma anche in noi stessi, è irrealistico pure l’atteggiamento di chi giudica come immorali le posizioni diverse dalle sue che, di conseguenza, sarebbero sempre morali. La condanna del male esclusivamente negli altri, misconosce la comune natura dell’uomo decaduto, e impedisce di esercitare quella che è stata definita “la disciplina morale contro il risentimento”. «Tale dinamica – afferma lo storico delle dottrine politiche Gianni Dessì – conduce come si esprime Niebuhr alla “santificazione della propria posizione”, conferendo un’aura di sacralità a precisi e particolari interessi, che si arrogano una pretesa di universalità. Essa produce violenza in quanto nega la presenza della stessa natura umana in noi e negli altri e conduce a trattare coloro che sostengono opzioni pratiche diverse dalle nostre, come il male stesso».

L’americanismo religioso non ha partorito solo la Destra Cristiana, predestinata, dogmatica e giustizialista (per certi versi forcaiola). Sul finire dell’800 si è verificata una divaricazione tra il conservatorismo religioso e una corrente progressista trasversale alle denominazioni, anch’essa impegnata politicamente sebbene in modo meno codificato. È una concezione del cristianesimo che tende a tradurre la sua forte spinta morale in azione d’aiuto per il prossimo in stato di necessità (il cosiddetto social gospel). È quella che gli analisti definiscono “sinistra religiosa” o “sinistra cristiana”. Essa si è impegnata a fondo nella lotta per i diritti civili degli anni ’60 e ’70, che ha visto in prima linea leader religiosi come Martin Luther King e Jesse Jackson. Proprio quelle battaglie che hanno provocato la violenta reazione dei conservatori cristiani. Il partito di riferimento di questa sinistra cristiana è ovviamente quello democratico con il quale essa condivide molti obiettivi che spaziano dal welfare universale alle politiche ambientali e contro la guerra. Tuttavia, al contrario di ciò che è avvenuto tra la Destra Cristiana e i repubblicani, il rapporto della sinistra religiosa con i democratici non è stato altrettanto facile, soprattutto da Kennedy in poi. Il partito democratico, infatti, ha al proprio interno una forte corrente liberal laicista, cioè antireligiosa. Pertanto la leadership democratica, sulla linea del Concordato del 1960, ha per molti anni rifiutato il voto cristiano in quanto espressione organizzata. I militanti democratici dichiaratamente religiosi, soprattutto se esprimevano riserve su questioni come l’aborto o i matrimoni omosessuali, sono stati apertamente ostacolati. Nel 1992 al governatore della Pennsylvania, Robert Casey, fu impedito di parlare alla convention del partito poiché antiabortista. Questa ostilità ha spinto in passato molti progressisti cristiani a convergere con la destra su specifici temi o a votare repubblicano, ed ha quindi reso meno competitivo il partito.

Le elezioni del 2008 hanno però costituito una svolta rispetto al passato. Il candidato democratico Barack Obama e il suo staff hanno mostrato attenzione per il voto religioso finora poco coltivato dal partito e, a quanto sembra, al di là del mero opportunismo elettorale. Certamente tira un vento diverso rispetto agli anni ’60 quando più della metà degli americani riteneva che le chiese non dovessero immischiarsi nella politica. Oggi la percentuale si è ribaltata. Non solo: durante la campagna elettorale i sondaggi hanno altresì rilevato che molti credenti, attirati in passato dal voto repubblicano, tendevano a riallinearsi “a sinistra” su temi riguardanti l’ambiente, la politica estera e il welfare; ciò avveniva soprattutto tra i giovani evangelici che, pur mantenendo le loro riserve sull’aborto e i matrimoni gay, venivano attratti dalla figura di Obama in quanto primo candidato nero, cristiano dichiarato e “convinto che la fede debba avere un ruolo nell’agenda politica”. Certamente il pensiero di sostenere un candidato giovane e nero, con idee chiare sulla guerra e sulla lotta alla povertà, ha costituito un’ulteriore spinta nella scelta di un presidente democratico da parte di un certo tipo di elettorato religiosamente orientato. Ma non dobbiamo dimenticare la campagna denigratoria orchestrata contro il candidato di colore accusato di dissimulare un’inconfessabile fede islamica o di fare professione di cristianesimo per mero opportunismo elettorale. Ciò che ha convinto dell’infondatezza di tali accuse è la storia che Obama ha alle spalle. Una storia di rapporti di vecchia data con il mondo religioso americano, anche di matrice evangelical, e con leader religiosi insieme ai quali ha condotto campagne tematiche di rilevanza sociale. Ma anche una storia interna al partito per cercare di spiegare alla sinistra che vi è un nesso tra religione e politica e che questo nesso non può essere ignorato: pena lo scollamento da buona parte di quella base che si riconosce nei valori progressisti. “Noi adoriamo un grande Dio negli Stati blu” (cioè negli Stati che votano democratico), affermò nel suo discorso a favore di John Kerry, nella convention del 2004. Una linea, quella di Obama, che ha aperto un gran dibattito all’interno del partito che non si verificò neppure ai tempi di Jimmy Carter che, pur essendo un ministro battista, “born again” dichiarato, rimase fedele al concordato kennediano del 1960 ed evitò di confessare pubblicamente la propria fede, persino in occasione delle nomination del 1976 e del 1980 quando evitò accuratamente di fare alcun riferimento a Dio e alla religione.

Emblematico di questa difficoltà a trovare corrispondenze all’interno del partito, prima ancora che nello schieramento avverso, è il discorso che egli tenne il 28 giugno 2006 dinanzi ai fedeli del movimento evangelico denominato “Sojournes”. Era ancora lontano il tempo della candidatura alla presidenza. Obama in quell’occasione prese le distanze da quel conservatorismo religioso che usava la fede quale strumento d’attacco, ma la sua fu soprattutto una dura critica al suo partito, ai democratici liberal che avevano messo al bando ogni riferimento ai temi religiosi lasciandoli appannaggio esclusivo della destra religiosa. In quell’occasione egli denunciò la loro incapacità di relazionarsi con tutto ciò che è religioso, andando contro la stessa loro storia nazionale e impedendosi di parlare ai loro concittadini in termini morali. “I laicisti – osservò il senatore dell’Illinois – sbagliano quando chiedono ai credenti di lasciare la loro religione alla porta prima di entrare nello spazio pubblico. Frederick Douglass, Abraham Lincoln, William Jennings Bryan, Dorothy Day, Martin Luther King – insomma la maggioranza dei grandi riformatori nella storia americana – non erano semplicemente motivati dalla fede ma usarono ripetutamente il linguaggio religioso a sostegno delle proprie cause. Dire infatti che uomini e donne non dovrebbero far entrare la loro ‘moralità personale' nei dibattiti sulle politiche pubbliche, è praticamente un’assurdità. La nostra legge è, per definizione, una codificazione di moralità che si muove per la gran parte nel solco della tradizione giudaico-cristiana”. Ma la politica non può permettersi di espungere la fede non solo per rispetto al credo dei Padri della Patria, bensì pure perché le più gravi piaghe sociali sono prodotte dall’egoismo, dall’individualismo e dall’indifferenza verso il prossimo. Non sono cioè semplici problemi tecnici superabili con una buona legge o un piano programmatico; sono ancor prima problemi morali radicati nella natura umana che possono trovare soluzione in un cambiamento non solo politico ma anche nei cuori e nel modo di pensare. Perciò ecco l’utilità, di cui anche i non credenti devono convincersi, di un sano confronto sul piano etico. “Se noi progressisti riuscissimo a disfarci dei pregiudizi, potremmo riconoscere l’esistenza di valori convergenti, condivisi da credenti e laici quando si tratta della direzione morale e materiale del nostro paese”.

Il deficit morale di cui soffre la nostra società – afferma Obama – richiede una convergenza maggiore di quella che semplicemente dovrebbe assicurare un regime pluralista. Non basta dire: se sei cattolico o evangelico non abortire ma non impedirlo agli altri. “La comprensione reciproca tra credenti e non credenti deve andare oltre per apprezzare meglio gli uni le ragioni degli altri, e per cercare di interpretarne e tradurne il senso anche nella vita politica. Nulla da revocare della cultura costituzionale americana jeffersoniana che, con il primo emendamento, preserva le istituzioni e la società dal pericolo di un monopolio religioso da parte di qualsivoglia chiesa, ma il passo avanti che Obama invoca a gran voce (anche se sull' aborto ha finora votato come un laico standard europeo) è la fine di una contrapposizione che ha scavato un solco tra chi pratica una confessione e chi non la pratica, mettendo gli uni e gli altri in caricatura: da una parte i religiosi come ossessionati esclusivamente dalla lotta ai matrimoni gay, dalle preghiere a scuola e dal desiderio di proibire l' insegnamento darwiniano, dall'altra i liberal come viziosi dediti all' aborto e a ogni genere di devianza sessuale. Viva la forza morale e coesiva delle religioni, dice Obama, ne abbiamo bisogno, ne hanno bisogno anche i liberals, non solo per ragioni elettorali, ma anche e soprattutto perché, senza quelle risorse e divisi, non potremmo affrontare le sfide del tempo e del nostro destino comune” (G. Bosetti, La Repubblica, 30/10/08).

Questa capacità di Obama di parlare sia ai credenti che ai non credenti, ha rappresentato forse quel valore aggiunto che ha fatto la differenza con McCain e, prima ancora, con Hillary Clinton “la quale difficilmente avrebbe potuto rompere la diffidenza dell' elettorato religioso (la stragrande maggioranza degli americani). L'ex first lady, protestante metodista, non ha mai sottovalutato, ovviamente, l'importanza della fede nella vita politica del suo paese, ma la sua generazione è collegata, nell'immaginario sociale, al '68 e all'ascesa dei diritti di scelta, all'evoluzione individualista e libertaria del costume. E anche a molte altre cose, che più o meno rozzamente nella campagna avversaria, hanno intrecciato il progressismo americano con una visione materialistica, edonistica ed egoista della vita, e anche a una rottura con la fede” (ibidem). Mentre per Bush la religione è stata usata come strumento per rimarcare le differenze tra amici e nemici di Dio e, a modo suo, per “assecondare” il conflitto finale preannunciato dall’Apocalisse; per Obama la dimensione religiosa è invece, a suo dire, il veicolo più efficace per scoprire e comprendere i valori universali che fondano il suo impegno civile e il suo programma di riforma della società. Pur partendo da una legittima motivazione religiosa, egli non usa la politica come strumento religioso di parte ma promette di far vivere la religione su un piano che è autenticamente politico, senza ostentazioni confessionali, in modo che possa essere condivisibile anche da chi, pur non professando una fede specifica o alcuna fede, si riconosca nei principi etici della cultura nazionale, nella cosiddetta “religione civile”. Siamo ben lontani da quel “farsi perdonare” la fede con cui Kennedy iniziò il suo percorso politico; in questo senso Obama si trova agli antipodi perché ha lavorato per un radicale ripensamento del Concordato del 1960. Per certi versi è una situazione paradossale, dato che in Obama si indica un continuatore della politica kennediana; ma solo in apparenza, perché Kennedy aveva il problema – che non ha Obama – di farsi accettare nonostante il suo essere cattolico, ed egli stesso riconobbe di aver portato il principio di laicità più lontano di quanto avrebbe voluto.

Molti analisti sostengono che la vittoria di Obama non vada tanto attribuita al suo saper parlare ai religiosi quanto piuttosto all’aria di recessione che tira e alla grave crisi finanziaria che farebbe preferire l’esponente d’un partito tradizionalmente orientato alle politiche di welfare. Certamente quando l’economia di tante famiglie è così seriamente messa a rischio, è facile pensare che la religione tra le istanze elettorali passi in secondo piano. Però si potrebbe, partendo dalle medesime premesse, giungere alla conclusione contraria. In fondo il democratico Clinton fu rieletto perché in quegli anni l’economia tirava bene e non perché era in crisi. Non bisogna perdere di vista la mentalità calvinista degli americani che fa dipendere la prosperità economica dalla benedizione divina. Abbiamo già detto di importanti leader religiosi che hanno visto negli eventi dell’11 settembre la punizione divina contro un paese che aveva ceduto all’immoralità e alla corruzione. Molti americani che in passato avevano dato la loro fiducia ai repubblicani perché più attenti al deficit etico, alla perdita di coesione sociale e alla crisi generale di orientamento, oggi, con la crisi economica in atto, avrebbero potuto rafforzarsi in questa tendenza. E invece non lo hanno fatto. Hanno preferito Obama perché evidentemente ha saputo più di altri rassicurarli ed ha meglio interpretato la loro voglia di cambiamento. Egli da un lato ha fatto pienamente suo il tema del deficit morale delle famiglie e del deficit di empatia di cui soffre il corpo sociale, assumendo la religione come risorsa indispensabile per fronteggiare la crisi; al contempo è riuscito a trasformare la “questione antropologica” tanto cara al Vaticano in un cavallo di Troia per spaccare l’alleanza innaturale e opportunistica tra i cattolici statunitensi e gli evangelici fondamentalisti; quella che qualcuno ha definito il patto Molotov-Ribbentropp tra evangelicali e cattolici, da sempre nemici, fondato sulla battaglia antiabortista. E lo ha fatto, nonostante la sua calcolata prudenza su molti temi, sostenendo apertamente e con chiarezza la posizione pro-choice, a favore dell’aborto. Questa manovra sembra aver funzionato a meraviglia. Infatti, alcuni dei più importanti leader del campo pro-life (contrari all’aborto) hanno, tra lo sconcerto di molti loro compagni di battaglia, deciso di sostenere Obama nel suo programma volto a ridurre le interruzioni di gravidanza non vietandole, ma offrendo sostegno economico e occasioni di riscatto alle donne indigenti. Al contempo l’elettorato cattolico americano, tradizionalmente più incline alle istanze progressiste (quindi al vangelo sociale del protestantesimo storico, e persino alla teologia della liberazione dei vicini latinoamericani), si è sganciato dall’abbraccio innaturale con gli evangelici fondamentalisti, votando democratico nonostante la campagna anti-Obama in cui si è spesa la gerarchia della Chiesa cattolica. Questa infatti ha messo in campo l’argomento degli Intrinsic Evils, cioè delle azioni non contrattabili in quanto del tutto sbagliate – quale sarebbe appunto l’aborto – che non potrebbero essere paragonate ai temi sociali e politici quali la giustizia sociale, la lotta alla povertà o la pace poiché disattendendo i primi si porrebbe a rischio la salvezza eterna mentre per i secondi ci sarebbero varie strade di soluzione. L’elettorato cattolico stavolta ha disubbidito alle gerarchie, dimostrandosi per l’82% indipendente nelle proprie scelte d’ordine sociale. A favore di questa decisione avrà certamente contribuito la nomina del cattolico Joe Biden come vice di Obama, come pure la disubbidienza di alcuni vescovi liberal che hanno criticato l’impostazione del voto single issue data dalla Conferenza episcopale, ossia del voto incentrato su un unico argomento, quello dell’aborto, sostenendo invece che era dovere dei cattolici valutare la proposta complessiva dei singoli candidati.

Saprà lasciarsi guidare dalla dimensione religiosa adesso che dalle declamazioni Obama dovrà passare alla realizzazione del suo programma di riforme? Egli ha dimostrato di essere una persona intelligente e capace, ma le aspettative su di lui riposte e le sfide che lo attendono appaiono sovrumane. A cominciare dalla politica estera su cui inciampano regolarmente i presidenti americani, al di là delle loro intenzioni. Ricordate il primo programma elettorale di George W. Bush, che prometteva di volersi concentrare sulla sola politica interna? L’immagine di questo presidente ha invece finito per associarsi alle sue guerre. Adesso Obama vuole occuparsi della pace. Forse nella sua mente tornano queste parole: “Che tipo di pace cerchiamo? - Sto parlando di una pace vera. Il tipo di pace che rende la vita sulla terra degna di essere vissuta. Non solamente la pace del nostro tempo, ma la pace di tutti i tempi. I nostri problemi vengono creati dall’uomo, perciò possono essere risolti dall’uomo. Perché in ultima analisi, il legame fondamentale che unisce tutti noi è che abitiamo tutti su questo piccolo pianeta. Respiriamo tutti la stessa aria. Abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti solo di passaggio.” Sono parole di John Fitzgerald Kennedy, il presidente a cui egli afferma d’ispirarsi. Ma è poi vero che l’uomo è in grado di risolvere tutti i problemi che egli crea? Quanto è realistica questa aspettativa? Molti sono i nemici che già lo aspettano al varco. Ci sono i finti pacifisti, in realtà i codardi, gli opportunisti, gl’indottrinati traboccanti furore ideologico, i pacifisti a senso unico, indulgenti con gli orrori commessi dai movimenti di liberazione e persino dai fanatici d’altre fedi ma implacabili con l’interventismo americano soprattutto quando supportato da una tensione religiosa. Questi “realisti” della politica salutano Obama solo perché ha scalzato Bush, ma non gli perdonano certo l’americanità o, ancor peggio, le radici cristiane da cui afferma di trarre ispirazione. Poi ci sono i nemici interni, quelli a cui non piacciono certi cambiamenti, soprattutto quando questi influiscono negativamente nei loro interessi economici. La fine di una guerra o la riforma del sistema sanitario nazionale rappresentano la fine di guadagni miliardari in dollari. Guai in America a chi tocca le lobby. Il neopresidente dovrà guardarsi da molti: dai movimenti razzisti e da quelli di estrema destra che eliminandolo crederanno d’aver fatto un favore a Dio; dovrà guardarsi dai rivali, disperatamente assetati di potere, e da quelli che il potere già ce l’hanno e non lo mollerebbero costi quel che costi. I fratelli Kennedy tentarono di scalzare questa mortale stretta delinquenziale e la pagarono cara. Potrà il “change” di Obama superare questi ostacoli? Bisogna essere folli o presuntuosi per sperarlo, oppure possedere una grande fede. Forse questa sarà l’ultima opportunità offerta agli americani. Intanto ci sono segnali inquietanti che non presagiscono nulla di buono; durante la campagna elettorale del senatore di colore si sono verificate volute e ingiustificabili smagliature nel sistema di sicurezza a sua protezione. È solo un caso se il Secret Service, che si occupa della sua sicurezza, lo chiama con l’appellativo di “renegade”, il rinnegato? La scorsa estate, l’aereo di Barack Obama ha dovuto compiere un atterraggio di fortuna a Saint Louis nel Missouri: uno degli scivoli gonfiabili d’emergenza s’era gonfiato da solo, e il pilota non riusciva a tenere l’assetto. Qualcuno ha osservato che questo tipo d’incidenti non capita tutti i giorni. May God help Obama!

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