lunedì 30 marzo 2009

William Miller e l'attesa del Secondo Avvento

William Miller nacque il 15 febbraio 1782 a Pittsfield, nello stato del Massachusetts, dal capitano William Miller (un veterano della Rivoluzione Americana che diede al figlio il proprio nome) e da Paulina Phelps, figlia di un noto predicatore battista. Quando aveva quattro anni, la sua famiglia si trasferì ad Hampton, un’area rurale nello stato di New York. Sua insegnante fino all’età di 9 anni fu la madre, quindi frequentò l’appena aperta East Poultney District School fino al compimento degli studi superiori. Non frequentò l'università ma la sete di conoscenza lo seguì per tutta la vita. Fu un assiduo frequentatore di biblioteche e un vorace lettore di libri. Nel 1803 sposò Lucy Smith e insieme si trasferirono in una fattoria vicino Poultney, città natale di lei, nel Vermont. Oltre a seguire le attività agricole della sua tenuta, Miller ricoprì importanti incarichi pubblici e divenne una persona influente nella città di Poultney.

Influenzato dalla lettura di autori quali Voltaire, David Hume, Thomas Paine ed Ethan Allen, egli si avvicinò al deismo illuminista, allontanandosi dalla religione di famiglia. Sorto nell’Europa del XVIII secolo, il deismo trasferiva nella sfera del trascendente la teoria di Newton sulla macchina cosmica. Il Dio dei deisti, il “Grande Orologiaio” per usare l’espressione di Voltaire, era l’ideatore e il creatore dell’universo, lasciandolo dopodiché a se stesso. Compito dell’uomo era quello di studiare e di comprendere le leggi naturali che lo governano. Una concezione pertanto ben lontana dal Dio rivelato dalla Bibbia che crea ma anche si prende cura della sua opera e che, pur nel rispetto della libertà delle sue creature intelligenti, porta avanti un progetto di salvezza e di estirpazione del male dall’universo. Nonostante questa incompatibilità di fondo con la dottrina cristiana, il deismo s’insinuò profondamente tra le classi colte del protestantesimo americano. Per cui era comune aderire ad una chiesa e contemporaneamente al deismo.

Nel 1812, Miller prese parte alla guerra contro gli inglesi come ufficiale dell’esercito. Partecipò pure alla celebre battaglia di Plattsburg che vide gli americani prevalere nonostante la grande disparità di forze in campo. Proprio gli eventi di quella battaglia lo impressionarono profondamente e lo fecero riflettere. Era umanamente impossibile spiegare con quelle premesse la disfatta degli inglesi ed egli non poté fare a meno di vedervi l’intervento soprannaturale dell’Onnipotente; ciò ovviamente contrastava con la pretesa deista di un Dio distante che non si cura degli uomini e non s’intromette nelle loro vicende. Miller era inoltre profondamente turbato dalla vista delle atrocità della guerra e per la perdita di così tante vite umane, tra cui molti suoi amici. A tutto questo si aggiungeva il dolore per la morte del padre e della sorella, ed anche qui il credo deista, che non offriva risposte sul mistero della morte e sul destino ultimo degli uomini, non gli era di alcun sollievo. Fu così che s’innescò in lui un delicato percorso esistenziale che lo spinse a cercare nella Bibbia le risposte alle domande sul senso della vita. Nel giugno del 1815 egli si congedò con il grado di capitano e nel 1816, dopo aver assistito a un camp-meeting, decise di riavvicinarsi alla Chiesa battista.

Erano gli anni del secondo grande risveglio, caratterizzato dalla reazione popolare contro l’ideologia illuminista e da una crescita di tutte le congregazioni, in particolare di quella battista e metodista; impegnato al contempo nella lotta contro la schiavitù, l’alcolismo, lo sfruttamento delle donne e dei bambini, l’analfabetismo, la profanazione del giorno di riposo. Ma questo risveglio religioso, come ogni altro precedente risveglio, non poteva non essere pure caratterizzato da una rinnovata attenzione al futuro evento escatologico, ovvero al ritorno in gloria di Gesù che avrebbe posto fine al fallimentare esperimento della storia del mondo governato dagli uomini ribelli. Questa è stata sempre la principale speranza della Chiesa che sin dai suoi esordi si salutava con Maranathà, Vieni, Signore Gesù! Quando la Chiesa divenne potente e si colluse con i poteri forti, soprattutto il suo establishment sazio e appagato fu tentato di considerare il Regno di Dio già insediato sulla terra. Ecco così che di tanto in tanto un risveglio religioso faceva capolino per affermare che no, non era così, che il Regno non era questo ma che comunque era prossimo e che bisognava prepararsi spiritualmente per accogliere l’avvento del giusto Giudice. In quelle occasioni si tornava a studiare le due apocalissi, quelle di Daniele e di Giovanni, che tratteggiano la storia del mondo sino alla parusìa e al ristabilimento del Regno eterno di Dio, con tanto di direttrici cronologiche. I montanisti, i predicatori dell’anno Mille, Gioacchino da Fiore con la coda dei francescani spirituali e, in ambito protestante, gli anabattisti e tra loro Melchior Hofmann, gli hussiti taboriti, i Fratelli boemi, i Quinto-monarchisti, richiamarono tutti in qualche modo l’attenzione sulla prossimità dell’evento escatologico. Comunque, nella storia della Chiesa, vi sono sempre stati dei gruppi che hanno atteso il Regno.

Ma è in concomitanza dei due grandi risvegli, dei secoli XVIII e XIX, che assistiamo ad una vera esplosione d’interesse per lo studio delle questioni finali. In tutto il mondo cristiano uomini e donne, spesso senza alcun collegamento tra loro, cominciarono ad investigare gli scritti profetici, a scrivere e a predicare sull’argomento. Abbiamo già detto di Johann Albrecht Bengel (1687-1752) che aveva introdotto nel pietismo l’interesse per l’apocalittica e l’attesa escatologica. Lo studioso luterano, sulla base di complessi calcoli basati sull’Apocalisse, giunse alla conclusione che il mondo dovesse finire nel 1836. Nella sua scia s’inserì la predicazione di numerosi ecclesiastici tedeschi, come Leonard Kelber o Gosznes, che viaggiando nel sud della Germania raccoglieva sul tema dell’avvento auditori di 15 mila anime per volta. La reazione della Chiesa ufficiale costrinse molti risvegliati “avventisti” a cercare riparo in Russia e in America, dove diffusero il loro messaggio. Tra i predicatori tedeschi non possiamo tacere l’opera di Joseph Wolff (1795-1862), un ebreo convertito a Cristo e viaggiatore infaticabile, che seminò la buona notizia del secondo avvento in un gran numero di paesi orientali, dall’Egitto al Tibet. Abbiamo pure accennato all’azione di risveglio nei paesi francofoni, fortemente connessa alla predicazione escatologica, del teologo ginevrino Louis Gaussen (1790-1863). Considerevole su quest’aspetto fu pure l’opera di altri predicatori quali Émile Guers, Henri Pyt e Frédérich de Rougemont. In Olanda ad attirare l’attenzione sugli eventi escatologici fu Hendrik Hentzepeter, responsabile del Museo Reale dell’Aia, riconosciuto come il più fine predicatore del suo tempo. La sua attenzione sul tema del secondo avvento, come lui stesso rivelò, fu richiamata da un sogno che lo impressionò profondamente. Pubblicò anche un trattato nel 1830 in cui espose le sue riflessioni sull’argomento. Sulle isole britanniche il vento dell’avvento soffiava già dal 1642, quando il reverendo Henry Archer pubblicò il libro divenuto popolare The personal reign of Christ upon Earth, in cui profetizzava la parusia per il 1700. Anche John Wesley (il fondatore del metodismo) credeva nell’imminenza dell’avvento, influenzato dalle riflessioni del luterano Bengel che egli accettò pienamente. E Thomas Newton (1704-1782), vescovo di Bristol, diede alle stampe nel 1771 il suo libro Dissertations on the Prophecies, in cui analizzava le profezie escatologiche già realizzate e quelle in corso di compimento. Quanto ai giorni del secondo grande risveglio, almeno 300 ministri di culto anglicani e 600 delle altre denominazioni predicarono l’imminente ritorno di Cristo; un centinaio fecero la stessa cosa in Irlanda. Citiamo due nomi su tutti: il teologo scozzese Archibald Mason (1753-1831), fine scrittore di apocalittica, ed Edward Irving (1792-1834), pastore presbiteriano di rara eloquenza, che predicava l’avvento ad auditori che raramente scendevano al di sotto di 3000 persone e che non di rado superavano le 12.000. Nel 1827 egli fece pubblicare a proprie spese la traduzione di un libro, che era già uscito in Spagna nel 1811 con il titolo La venida del Mesias en gloria y majestad, del gesuita cileno Manuel de Lacunza (1731-1801), anch’egli convinto dell’imminenza della parusia.

Della Scandinavia abbiamo già accennato al fatto inaudito, ma perfettamente autentico, della predicazione dei bambini. Ai laici era vietato predicare, e visto che i chierici non parlavano del ritorno di Cristo lo fecero i bambini, a centinaia. Nel dicembre del 1841, nella chiesa parrocchiale di Hjelmseryd, in Svezia, quattro bambine di famiglia contadina si alzarono durante la funzione e annunciarono che la fine del mondo si avvicinava, e che tutti dovevano pentirsi e prepararsi ad incontrare il Signore. Quasi in contemporanea il fenomeno si ripeté nelle parrocchie del circondario. E così andò avanti per diversi anni. Nell’estate del 1843, ad Eksjo, nella Svezia meridionale, una bambina di soli cinque anni, che non sapeva ancora né leggere né cantare, con la massima solennità e senza commettere errori, si mise a cantare un lungo inno luterano che aveva come soggetto il ritorno di Gesù. Quando ebbe finito, dichiarò con forza: “l’ora del suo giudizio è venuta”, ed esortò i familiari a prepararsi ad incontrare il Signore. Il fenomeno interessò soprattutto la Svezia e parte della Norvegia, e fu monitorato pure dalle autorità sanitarie che trovarono questi bambini e ragazzini affetti dal “morbo della predicazione”, individui del tutto normali, tranne quando, come sospinti da una forza misteriosa, salivano sui tavoli e cominciavano a predicare. E quando ciò accadeva – fatto scientificamente inspiegabile – essi sospendevano la funzione respiratoria. Esiste in proposito una relazione tecnica pubblicata nel 1843 dal dr. Sven Erik Skoldberg, direttore sanitario del Serafimer Hospital di Stoccolma e ispettore medico governativo per la provincia di Jonkoping. I giornali di quegli anni diedero ampio risalto a questi eventi inspiegabili, e la gente era disposta a compiere lunghi viaggi per ascoltare questi minuscoli portavoce di Dio che, non ancora in grado di leggere e scrivere, e spesso di fronte a vasti auditori, proclamavano un messaggio di pentimento e di riforma. Ancora sul finire del secolo s’incontrava gente che poteva testimoniare di aver assistito a questi fenomeni straordinari. Nel 1896 un uomo che fu un bambino predicatore spiegò al suo interlocutore: “Ho predicato! Dovevo farlo. Non avevo alcuna conoscenza in materia, ma una potenza mi afferrava ed io comunicavo ciò che quella potenza mi costringeva a comunicare”. Torna in mente la risposta che Gesù diede ai capi dei sacerdoti, e ai maestri della legge, indignati per le lodi dei bambini a lui dirette: “Ma voi non avete mai letto nella Bibbia queste parole: Dalla bocca dei fanciulli e dei bambini ti sei procurata una lode?” (Mt 21:16).

Nonostante l’interesse suscitato dalla predicazione dell’avvento, e gl’innumerevoli segni che l’accompagnarono, l’Europa risultò in gran parte indifferente a questo messaggio di carattere spirituale. Già nel 1850 poteva considerarsi spenta ogni fiamma di risveglio che, come affermò Adolphe Monod, il più illustre predicatore francese del XIX secolo, “non è stato un risveglio perfetto, né un risveglio che abbia detto la sua ultima parola”. Diversamente le cose si svolsero negli Stati Uniti. Non che lì mancassero gl’increduli, ovviamente. Abbiamo semmai visto come il razionalismo illuminista vi prendesse piede in modo ben radicato, soprattutto tra le classi colte. E le classi incolte (ma non solo) erano spesso unicamente interessate al raggiungimento di un rapido benessere materiale, con ogni mezzo. Il diffuso consumo di alcolici ottenebrava ulteriormente le facoltà mentali e morali. Pupe, bulli, pepite e saloon è lo slogan che riassume quella diffusa mentalità. Inoltre in quegli anni andava affermandosi tra gli americani che si dichiaravano religiosi la dottrina del Destino Manifesto, ovvero la convinzione che quello americano fosse il nuovo popolo eletto da Dio, da Lui benedetto e investito del compito di espandersi e di proporre al resto del mondo le idee di democrazia, di libertà e di giustizia. Le implicazioni escatologiche di questa visione del mondo erano quelle di un millennio di pace, in un mondo guidato da un’America cristiana e anglosassone, alla fine del quale si sarebbe verificato il ritorno di Cristo e il Giudizio Universale. È il cosiddetto post-millennarismo. Coloro che insegnavano l’imminente ritorno di Cristo erano invece dei pre-millennaristi; credevano, cioè, che Gesù tornando avrebbe risuscitato i giusti morti, distrutto i regni di questo mondo, e avrebbe instaurato il suo regno millenario, al termine del quale ci sarebbe stata la condanna dei malvagi a questo fine risuscitati (cfr Ap 20:1-10). Credevano pertanto in una parusia che avrebbe preceduto il millennio apocalittico. Era una visione – per quanto supportata dal testo biblico, originaria della chiesa primitiva e riaffermata dalla Riforma – ormai eclissata dal post-millennarismo. Date le premesse, sembrerebbe che non avesse alcuna possibilità di trovare ascolto tra gli americani così come non aveva incontrato le simpatie degli europei. E invece le due dottrine, quella del prossimo millennio di pace prima della fine e quella della catastrofe imminente prima del millennio, riuscirono in qualche modo a confrontarsi. Come si spiega quest’inattesa apertura al messaggio dell’avvento?

Si spiega con il peso diverso che la religione ha sempre avuto per questi discendenti dei Padri Pellegrini, qui approdati proprio per poter continuare a professare la loro fede. Si spiega con la loro diversa sensibilità spirituale, con la loro prontezza a cogliere i “segni” inviati dalla Provvidenza, anche quelli dei tempi, che poi si traducevano in gran risvegli. E questi segni essi li riscontrarono. Basti pensare a quell’insolito fenomeno verificatosi il 19 maggio 1780 passato alla storia come “giorno oscuro”. Un evento inspiegabile sia astronomicamente sia meteorologicamente, che si estese dalla costa della Nuova Inghilterra fino all’estremità occidentale dei possedimenti americani. Fu osservato anche da George Washington in persona, allora impegnato nella guerra d’indipendenza contro gli inglesi, che lo annotò nei propri diari. Verso le nove del mattino, all’improvviso il cielo si oscurò completamente, i fiori si chiusero, gli uccelli notturni si misero a cantare, i pipistrelli a svolazzare, le rane a gracidare. Il timore, l’ansietà e lo spavento s’impossessarono a poco a poco delle persone. Le donne s’affacciarono sulle soglie delle loro case ad osservare quell’evento misterioso; gli uomini raccolsero il bestiame nei recinti e nelle stalle e tornarono dai campi; gli artigiani chiusero le botteghe; i fanciulli lasciarono le scuole e tremanti si rifugiarono in casa; i viandanti interruppero il loro viaggio e cercarono ospitalità nella fattoria più vicina. Vennero accese le lampade e le candele così come si fa in piena sera pur essendo pieno giorno. Le tenebre si erano fatte così fitte che persino un foglio di carta bianca posto davanti agli occhi risultava invisibile; e questo fin quasi al vespro. Un’ora o due prima del tramonto il cielo si schiarì parzialmente ma la sera le tenebre tornarono ad infittirsi, nonostante fosse plenilunio, ed era impossibile vedere qualcosa senza l’aiuto di una luce artificiale. Poi, passata la mezzanotte, le tenebre si diradarono e la luna apparve alla vista come un globo di sangue. Per l’occasione molte chiese tennero funzioni straordinarie. “I passi biblici scelti per questi sermoni estemporanei erano invariabilmente quelli che sembravano indicare come tali tenebre fossero in piena armonia con le predizioni bibliche” (The Essex Antiquarian, Aprile 1899, vol. 3, Salem, Mass.). Il passo certamente più letto fu quello del capitolo 3 di Gioele, ai versi 3 e 4: “Farò cose straordinarie in cielo e sulla terra: ci saranno sangue, fuoco e nuvole di fumo. Il sole si oscurerà e la luna diventerà rossa come il sangue, prima che venga il giorno del Signore, giorno grande e terribile”. Molti credettero che fosse arrivato il giorno del giudizio ed andarono a letto presto, mormorando preghiere.

Venticinque anni prima, il 1° novembre 1755, un altro evento aveva scosso le coscienze. Lo si ricorda come il grande “terremoto di Lisbona” perché quella città ne fu completamente distrutta e a largo delle sue coste si ebbe l’epicentro. Ma in realtà il sisma interessò complessivamente una superficie di 11 milioni di kmq, raggiungendo un’intensità pari al IX grado della scala Richter. Colpì gran parte dell’Europa, dell’Africa e dell’America. Come affermò il celebre geologo Charles Lyell, che ne fece un’accurata descrizione, “l’estensione di questo terremoto fu la caratteristica più inverosimile” (Principi di Geologia). Si avvertì sino alle coste americane, in Groenlandia, in Scozia e Scandinavia. “In Gran Bretagna l’agitazione di laghi, fiumi e sorgenti fu notevole… A Kinsale, in Irlanda, un’ondata si abbatté sul porto e dopo aver capovolto alcune navi e imbarcazioni, inondò e travolse la piazza del mercato” (ibidem). Il Nord Africa fu pesantemente coinvolto. La città di Algeri fu in gran parte distrutta. In Marocco furono seriamente danneggiate Tangeri, Fez, Maquinez e Marrakesh; un villaggio situato a 40 km da quest’ultima fu inghiottito dalla terra insieme al bestiame e ai suoi ottomila abitanti. Fu il sisma più spaventoso che a memoria d’uomo sia mai stato registrato. Ma l’area più colpita fu la costa atlantica della penisola Iberica. “Una grande onda si abbatté sulle coste spagnole, e si dice, che a Cadice, abbia raggiunto i 18 metri d'altezza… Alcune delle più alte montagne del Portogallo furono violentemente scosse; in molti casi si verificarono delle fenditure sulle vette, sì che enormi blocchi di roccia si abbatterono sui villaggi sottostanti, accompagnati da lingue di fuoco che scaturivano dal suolo”. A Lisbona “si udì un rombo come di tuono provenire dalle viscere della terra, seguito immediatamente da una violenta scossa che ridusse in cumuli di macerie la maggior parte della città. Nel giro di sei minuti ci furono sessantamila morti” (ib.). Era la festa di Ognissanti. Chiese e conventi erano gremiti di persone. L’interminabile sussulto produsse un terrore indescrivibile nella popolazione che, in preda al delirio, correva qua e là battendosi il volto e il petto, convinta che la fine del mondo fosse giunta. “Le madri, dimentiche dei propri figli, correvano per le strade cariche di crocifissi. Molte di esse si rifugiarono nelle chiese, ma a nulla valse l’esposizione del sacramento; a nulla valse abbracciare gli altari: immagini, sacerdoti, popolo: tutti furono travolti e sepolti in una immane rovina” (Enc. Americana, ed. 1831). Il terremoto fu accompagnato da un’onda anomala. Il mare si ritirò lasciando a secco le sue rive e il molo, con tutte le navi e le barche che vi erano ormeggiate, quindi tornò rombando con un’onda gigantesca che tutto sommerse. Fu spazzato via e sprofondato negli abissi pure un molo di marmo, di recente costruzione e che era costato un’ingente somma, gremito di gente che vi aveva cercato rifugio dai crolli delle case. Nessuno si salvò. In questo porto si scaricavano gli uomini africani predati dalle coste della Guinea, e in questa città era sorto il più grande emporio di schiavi del Continente. Da queste coste erano partite le navi d’avventurieri che avevano fatto strage di indios nel centro e in sud America. Teologi e filosofi del vecchio come del nuovo Mondo, di fronte a questa catastrofe inaudita, ebbero di che riflettere. Si pensa che il terremoto di Lisbona esercitò sulla cultura e sulla filosofia del XVIII secolo un impatto analogo a quello che l’Olocausto ebbe sul XX secolo. Ovviamente nelle colonie americane, più portate ad una lettura religiosa degli eventi, questa catastrofe rappresentò per molti un presagio legato agli eventi finali della storia umana. Prima di quel giorno “ci saranno grandi terremoti, pestilenze e carestie in molte regioni. Si vedranno fenomeni spaventosi, e dal cielo verranno segni grandiosi” (Lc 21:11). Tutto questo preparava gli animi all’ascolto del messaggio del secondo avvento.

Abbiamo visto che a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, nell’ambito dello spirito di risveglio che caratterizzò quegli anni, molti studiosi della Bibbia giunsero alla conclusione che il secondo avvento fosse vicino. Tra loro anche dei cattolici, quali il gesuita Manuel de Lacunza e il giurista messicano presso il tribunale dell’Inquisizione Gutierry de Rozas. Interessante notare come i calcoli di questi studiosi, effettuati generalmente in autonomia, collocassero per lo più il tempo dell’avvento attorno alla metà del XIX secolo, con un maggiore consenso sugli anni 1843-1844. Ad esempio sul 1843 puntavano lo scozzese William Cunningham (1776-1849) e il ministro presbiteriano del Sud Carolina William C. Davis (1760-1831). Al contempo almeno venticinque studiosi europei e americani aspettavano la fine del mondo attorno al 1844, tra questi lo scozzese Archibald Mason (1753-1831), teologo e ministro di culto presbiteriano. A cosa si deve questa singolare convergenza? Al fatto che, tornato l’interesse per lo studio dei libri profetici, si erano tutti imbattuti nella medesima profezia che evidentemente, a dispetto della fama di inintelligibilità che pesa su questi scritti, non doveva essere di così difficile interpretazione. Almeno nel suo impianto generale. La profezia in questione è quella dei 2300 giorni contenuta nel capitolo 8 del libro di Daniele.

“Dovranno passare duemilatrecento sere e mattine. Poi il santuario verrà di nuovo purificato”. Rivelò l’angelo al profeta Daniele. Poi aggiunse: “Sta’ bene attento, Daniele, perché questa visione riguarda la fine dei tempi”. In realtà tutte le rivelazioni sulla storia futura date a Daniele riguardavano il tempo della fine, perché partivano dai suoi giorni e giungevano a ridosso della conclusione della storia umana. La profezia dei 2300 giorni non faceva eccezione, tant’è vero che l’angelo glielo ribadì: “Questa visione riguarda la fine dei tempi”. Una parte degli esegeti ha voluto porre la realizzazione di questa profezia nei giorni del sovrano seleucida Antioco Epifane e delle guerre maccabaiche, ma, a parte il fatto che al tempo di quel sovrano non è possibile trovare due eventi separati da 2300 giorni letterali (cioè da 6 anni e 4 mesi), resta il fatto che questi esegeti ignorano l’avvertimento dell’angelo: “Questa visione riguarda la fine dei tempi”. Non rimase pertanto agli studiosi più accorti che attribuire ai “giorni” della profezia il significato di “anni”, principio che la prassi della lingua ebraica consentiva e che era stato già applicato ad altre profezie cronologiche. Rimanevano altri due problemi da risolvere: a) cosa intendevasi per “purificazione del santuario”; b) da quando fare partire questi 2300 anni per poter collocare cronologicamente l’evento posto alla fine di tale periodo. Dovendo escludere i servizi del tempio di Gerusalemme, distrutto nel 70 d.C., si passarono in rassegna diverse ipotesi più simboliche che si riferissero alla “purificazione del santuario”: si pensò al ritorno degli ebrei in Palestina, alla caduta dell’Islam, alla purificazione della Chiesa, all’inizio del Millennio, alla catarsi di questo mondo con il fuoco al ritorno di Cristo. Su quest’ultima ipotesi ci fu maggiore consenso. Quanto al secondo problema, cioè da quando far partire i 2300 anni, i suddetti esegeti furono unanimi nel vedere collegata questa profezia a quella delle “Settanta settimane”, che l’angelo espose a Daniele dopo quella dei 2300 giorni. “Per il tuo popolo e per la città santa è stato fissato [lett. “tagliato”, “determinato”] un tempo di settanta periodi di sette anni” (Dn 9:24). Qui l’angelo rivela a Daniele che un periodo di 490 anni, riservato al popolo d’Israele, era stato “reciso”… ma da cosa? Evidentemente da un periodo più lungo, e cioè dai 2300 anni dei quali poco tempo prima l’angelo stava parlando, dovendosi però interrompere perché le condizioni fisiche ed emotive del profeta non gli consentirono di portare a termine il suo discorso. Di questa profezia delle 70 settimane d’anni, il cui inizio coinciderebbe quindi con quella dei 2300 anni, viene indicata la data di partenza: il “momento in cui è stato pronunziato il messaggio che riguarda il ritorno dall'esilio e la ricostruzione di Gerusalemme” (v. 25). Ovvero l’anno 457 a.C., quello in cui il re Artaserse I di Persia autorizzò la ricostruzione di Gerusalemme, così come riportato dal libro di Esdra (7:12-26). A questo punto bastava risalire dal 457 a.C. per 2300 anni e si approdava al 1843, secondo il computo del calendario rabbinico, o al 1844 seguendo il più appropriato calendario caraìta. Ecco ricavato il tempo, secondo molti studiosi dei testi profetici, in cui la terra sarebbe stata purificata dal fuoco all’apparire in gloria del Signore.

Qui entra in gioco il nostro William Miller che abbiamo lasciato mentre abbandonava il deismo per tornare alla religione di famiglia. Per rispondere al disappunto e alle critiche dei suoi vecchi amici deisti, egli decise di affrontare lo studio minuzioso della Bibbia. Sebbene non avesse compiuto regolari studi universitari, Miller, da bravo intellettuale razionalista qual era stato, si era formata una cultura di tutto rilievo; ma in quest’impresa decise di non lasciarsi condizionare da alcuna influenza umana, pertanto si avvalse esclusivamente di una Bibbia e di una concordanza biblica. Era convinto che la Sacra Scrittura fosse la migliore interprete di se stessa, e che le sue parole dovessero essere intese alla lettera, nel loro ordinario significato storico e grammaticale, fatta solo eccezione per quei casi in cui lo scrittore ispirato aveva usato un linguaggio figurato. Cominciò dalla Genesi, un versetto dopo l’altro e parola dopo parola, proseguendo solo dopo che ogni brano gli fosse ben chiaro. “Ogni volta che incontravo dei punti oscuri” spiegava “era mia abitudine confrontare il testo con tutti i passi paralleli, e con l’aiuto del Cruden [la concordanza da lui usata] esaminavo i brani delle Scritture in cui si riscontrava una qualsiasi delle parole più importanti contenute nel passo di oscura comprensione. Poi lasciavo che ogni parola esercitasse il suo influsso particolare sul testo in esame e, se la mia comprensione si armonizzava con ogni passo parallelo della Bibbia, quel brano non rappresentava più una difficoltà”. Questo metodo di studio lo portò a considerare tutti i libri della Bibbia ugualmente importanti; ogni frase necessaria, e nessuna da trascurare nella ricerca della verità. Inclusi i libri e i messaggi profetici. Anzi, l’esistenza delle profezie rendeva ancora più evidente l’architettura bifocale su cui era imperniato il Libro, che appariva accentrarsi intorno a due punti cruciali: la prima e la seconda venuta di Cristo. Nel 1818, dopo due anni d’intenso studiare in solitaria, l’impresa poteva considerarsi compiuta. Miller era sopraffatto dalla lettura di quelle pagine: aveva iniziato con l’amore di Gesù nel cuore e aveva terminato con la convinzione che il suo ritorno era incredibilmente vicino. “Sì, sto per venire”, testimoniava il penultimo versetto della Bibbia. In quel momento egli era giunto “alla solenne conclusione che, nel giro di venticinque anni… tutte le realtà della nostra condizione attuale sarebbero finite, tutto il suo orgoglio e la sua potenza, la sua ostentazione e vanità, la malvagità e l’oppressione sarebbero finite; e al posto dei regni di questo mondo, sotto ogni cielo si sarebbe stabilito il regno di pace, tanto atteso, del Messia”. Ecco finalmente la risposta che cercava sul senso della storia, sul mistero del male e della morte e sul destino ultimo degli uomini.

Anche Miller si era imbattuto nella profezia dei 2300 giorni/anni. Non più razionalista, ma sempre razionale, egli si sentì tremare i polsi di fronte all’alternativa che gli si poneva davanti: se ciò che aveva scoperto era vero, non avrebbe potuto tenerlo per sé; ma se si sbagliava, diffondendo quel messaggio avrebbe illuso la gente e gettato discredito sulla Parola di Dio. Così decise di prendere tempo. Il timore di avere mal compreso i testi biblici lo spinse a sottoporre le sue conclusioni a lunghi anni di riesame, con il solo risultato che esse ne uscivano sempre più confermate. Intanto gli anni passavano ed egli sentiva sempre più forte il dovere di dare diffusione alle sue scoperte. Cominciò esponendo le sue vedute in privato ogni volta che gli si presentava l’occasione, pregando che qualche predicatore ne valutasse la portata e si consacrasse alla loro diffusione. Ma ciò non avveniva ed egli sentiva risuonare nelle orecchie l’invito fatto ad Ezechiele: “Ti farò sentinella per avvertire il popolo d'Israele. Quando sentirai le mie parole le riferirai agli Israeliti. Se io dico che un uomo malvagio deve morire, tu hai il compito di avvertirlo perché cambi vita. Se tu non l'avverti egli morirà per le sue colpe, ma per me tu sarai responsabile della sua morte. Se invece tu lo avverti di cambiare il suo comportamento ed egli non lo fa, morirà per le sue colpe, ma tu avrai salvato la tua vita” (Ez 33:7-9). Alla fine la sua titubanza fu vinta dalle sollecitazioni che gli giungevano dai suoi stessi confratelli. Nell’agosto del 1831 egli tenne il suo primo sermone sul tema dell’imminente ritorno di Gesù; subito quella piccola comunità fu scossa dal risveglio e tredici famiglie accettarono il suo messaggio.

Il suo retaggio deista per una volta giocava in suo favore. Nel senso che gli veniva naturale parlare alle menti delle persone, portando argomenti razionali; e adesso faceva la stessa cosa, Bibbia alla mano. Il che era abbastanza insolito ai suoi giorni, quand’era comune che i predicatori facessero soprattutto appello alle emozioni. Il suo discorso pacato e solenne suscitò un’impressione profonda e duratura, e rapidamente la voce si sparse nel circondario. Altre chiese e ministri di culto vollero ascoltarlo. Miller, si ritrovò questa marcia in più rispetto ad altri studiosi dell’avvento: riusciva ad accendere l’immaginazione delle assemblee, e le sue parole venivano percepite come autorevoli. Nel 1832 iniziò a pubblicare una serie di sedici articoli sul giornale battista Vermont Telegraph, che contribuirono ad accrescere la sua visibilità. Nel 1833 pubblicò un opuscolo intitolato Evidences From Scripture & History of the Second Coming of Christ about the Year A.D. 1843, and His Personal Reign of 1,000 Years, in cui espose in maniera sistematica le sue convinzioni dottrinali. Ma il 1833 fu soprattutto importante per un altro fatto che impressionò gli animi e accrebbe l’attenzione per il messaggio di Miller. Nella notte tra il 12 e il 13 novembre vi fu la più vasta e sorprendente manifestazione di stelle cadenti che la storia ricordi. La terra attraversava la scia della cometa Temple-Tuttle e le polveri, all’impatto con l’atmosfera, causavano lo sciame meteorico novembrino poi noto come “Leonidi”, dal nome della costellazione da cui esso sembra irradiarsi. Più la terra passa vicino all’orbita di una cometa e molti più frammenti vengono intercettati e bruciati dall’impatto; in tal caso si possono osservare anche un centinaio di meteore al minuto. Quello del 1833 fu però un evento così imponente da eguagliare uno spettacolo pirotecnico. Per molte ore sugli Stati Uniti caddero migliaia e migliaia di meteore contemporaneamente tanto che il cielo notturno appariva di fuoco. Di fronte ad uno spettacolo così impressionante la gente, fatta alzare in tutta fretta dai letti, pensò d’assistere alla fine del mondo o, almeno, vide in esso un preannuncio del giudizio, “un simbolo pauroso, un precursore sicuro, un segno misericordioso di quel grande e spaventevole giorno” (Portland Evening Advertiser, 26 novembre 1833). “Nessun filosofo o scienziato ha indicato o ricordato un evento simile a quello di ieri mattina. Un profeta, diciotto secoli fa, lo predisse con esattezza. Ognuno può rendersene conto se intende, per caduta di stelle, una caduta di stelle... nell'unico senso in cui la cosa possa essere letteralmente possibile” (Journal of Commerce, N.Y., 14 novembre 1833). “Impossibile descrivere questo fenomeno se non ricorrendo all'immagine di un fico che, sotto l'azione di un vento impetuoso, scaglia lontano i suoi frutti immaturi” (Portland Evening Advertiser, cit.). Interessante notare come la stampa secolare del tempo non solo consideri quell’evento un presagio della fine del mondo, ma inoltre faccia riferimento ai passi biblici che lo avevano preannunziato; come essa richiami il discorso profetico di Gesù: “…le stelle cadranno dal cielo… Quando voi vedrete tutte queste cose, sappiate che egli è vicino, proprio alle porte” (Matteo 24:29,33). E l’Apocalisse di Giovanni: “Le stelle del cielo caddero sulla terra, come i fichi acerbi cadono dall'albero quando è colpito da vento impetuoso” (Ap 6:13). William Miller in più fece notare come, nell’ordine elencato dalla profezia, si fossero realizzati tutti gli eventi che precedono “il grande giorno della resa dei conti”: “Ci fu allora un forte terremoto. Il sole diventò scuro, come panno da lutto, e la luna diventò color sangue. Le stelle del cielo caddero sulla terra…” (vv. 12,13,17). Egli rammentò il grande terremoto di Lisbona del 1755, il giorno oscuro e la luna sanguigna del 1780 e infine la stupefacente pioggia meteorica di quei giorni. La spettacolarità di quest’ultimo evento proiettò l’interesse di una più vasta parte dell’opinione pubblica sul messaggio di Miller. I suoi 17 anni di applicazione sul testo biblico lo mettevano in grado di collocare con maggiore precisione quegli eventi straordinari nel quadro delle profezie escatologiche. Pertanto, quando divenne evidente la sua superiore competenza in tema di profezie bibliche, giunsero pure i riconoscimenti ufficiali. Intanto, sempre in quell’anno, la Chiesa battista della quale era membro gli conferì una licenza di predicatore laico che gli consentì di continuare il suo lavoro con il formale consenso dei molti ministri di quella denominazione che approvavano la sua opera. Inoltre, due anni più tardi, un gruppo di 40 pastori (metà dei quali appartenevano ad altre confessioni) riconobbero a Miller l’unicità del suo ministero, autorizzandolo a predicare presso le comunità delle loro rispettive denominazioni. Si stima che egli personalmente nei 13 anni del suo ministero abbia tenuto 4500 conferenze, rivolgendosi a 500 mila persone, conquistandone al suo messaggio tra le 50 le 100 mila. Un risultato non indifferente se si pensa che egli viaggiò quasi sempre a proprie spese e spesso non ebbe il supporto degli organi d’informazione. La pioggia meteorica produsse comunque il risultato di fargli superare le barriere confessionali, consentendo a chi battista non era di ascoltare ciò che aveva da dire un predicatore battista, per giunta autodidatta.

Sulla scia del Secondo Grande Risveglio, il movimento millerita si diffuse come un incendio indomabile. Metodisti, battisti, episcopali, cattolici e luterani accettavano il messaggio. Dalla grande metropoli al villaggio più disperso risuonava l’avvertimento: “Gesù ritorna! Il santuario sta per essere purificato! Pochi anni ancora e vedremo il Signore!”. I peccatori si convertivano, i credenti decidevano di riformare ulteriormente le loro vite, gli scettici e i prevenuti imparavano a familiarizzare con i contenuti della Bibbia. Quasi in ogni città le conversioni si contavano a decine, talvolta a centinaia. Molti, pur non condividendo le idee millerite circa la data del secondo avvento, erano convinti della prossimità del ritorno di Cristo e della necessità di prepararsi. In alcune grandi città l’impressione fu tale che si registrò una diminuzione delle attività criminose e illegali, gli spacci di liquori si trasformarono in sale di riunioni, le case da gioco rimasero senza avventori. Atei, deisti, sincretisti, relativisti e persino inveterati dissoluti si convertirono. Molti rimisero piede in chiesa dopo parecchi anni o addirittura per la prima volta. Era regola di Miller predicare solo là dove era espressamente invitato; ma anche così non riusciva soddisfare neppure la metà delle richieste che gli pervenivano. Ben presto tuttavia egli fu affiancato nella predicazione da diversi pastori provenienti soprattutto dalle comunità battiste, metodiste e presbiteriane. Il movimento adottò un minimo di organizzazione, soprattutto per gestire la pubblicazione dei periodici con i quali diffondeva il suo messaggio. A tal proposito prezioso si rivelò l’incontro con Joshua Vaughan Himes, pastore della Christian Connection, che nel 1839 aveva invitato Miller a predicare nella sua chiesa di Boston. Himes era anche editore ed era considerato un autentico genio della pubblicità. Convinto della correttezza del messaggio di Miller, iniziò subito la pubblicazione del quindicinale Signs of the Times, rivista a tutt’oggi esistente, affiancato nel 1842 dal Midnight Cry di cui furono distribuite oltre 600 mila copie in soli cinque mesi.

Questa grande attenzione per il suo messaggio fece ritenere a Miller che bastasse documentarlo con i chiari riferimenti biblici perché esso fosse universalmente recepito, sia dal corpo pastorale che dai membri di tutte le confessioni cristiane. Con il tempo egli dovette prendere atto che il suo convincimento peccava d’ingenuità. A fronte di una minoranza che accettava con entusiasmo l’idea d’incontrarsi a breve con Gesù, c’era infatti una maggioranza che trovava tale prospettiva inaccettabile. L’opinione prevalente in quegli anni, l’abbiamo detto, era quella post-millennarista; quella cioè di un mondo che aveva ancora mille anni davanti a sé per convertirsi al cristianesimo e alla giustizia prima che si scatenasse il giudizio divino. Opinione che sottaceva un ottimismo irrealistico sulla bontà della natura umana e, in definitiva, quell’atteggiamento così radicato che fa dire a se stessi: conviviamo con i nostri limiti e le nostre consuetudini finché ci è consentito ché per cambiar vita c’è sempre tempo. Questa maggioranza, quando cominciò a diffondersi il messaggio del secondo avvento, era piuttosto silenziosa, talvolta un po’ irridente, persino compiacente. Invitare Miller a tenere incontri, sermoni e conferenze era dopotutto un modo efficace per riempire le chiese di nuovi convertiti. Ma il messaggio di Miller implicava una scadenza che, benché all’inizio lontana di diversi anni, si avvicinava rapidamente. Miller insegnava che all’incirca (about) nel 1843 o, meglio, tra il 21 marzo del 1843 e il 21 marzo del 1844, Gesù sarebbe tornato. Una cosa era annunciare questa scadenza quando ancora si profilava lontana, ben altra cosa era farlo negli anni immediatamente a ridosso, quando il senso dell’urgenza in chi ci credeva veniva avvertito in tutta la sua drammaticità. Pertanto un messaggio che inizialmente appariva innocuo, cominciò, man mano che si avvicinava il tempo atteso, a creare contrapposizioni sempre più profonde che minacciavano di disgregare le chiese perché, non dobbiamo dimenticarlo, il millerismo non era e mai fu una chiesa a sé bensì un movimento interconfessionale; i milleriti continuavano ad esser membri delle loro rispettive chiese. In conseguenza di questa contrapposizione già a partire dal 1840 i milleriti cominciarono ad essere isolati dalle loro comunità, e divenne sempre più difficile tenere conferenze sul ritorno di Gesù all’interno delle chiese. Chi esibiva apertamente la sua fede nel prossimo avvento spesso veniva dissociato e venivano altresì licenziati i pastori che mostravano simpatie per il millerismo. Questi ostacoli, ovviamente, non bastarono a fermare la proclamazione di un messaggio così sentito. Cambiarono solo le modalità. Furono acquistate o prese in affitto le tende più grandi che il mercato offriva e si tennero camp-meeting in ogni luogo ove era possibile farlo. Si calcola che mille pastori furono mobilitati e che almeno 500 mila persone parteciparono a questi incontri. Circa un milione furono in qualche modo coinvolti. Non pochi se consideriamo che la popolazione americana si aggirava attorno ai 17 milioni. Tra i 50 e i 100 mila furono i credenti che attesero l’avvento per il tempo indicato da Miller.

Arrivò il 21 marzo del 1843 e, come ben sappiamo, Gesù non tornò. La cosa dispiacque un po’ ai milleriti ma non li fece perdere d’animo, perché il loro range d’attesa si estendeva, in ossequio all’anno ebraico, dal 21 marzo 1843 al 21 marzo 1844. Come rispondeva ai suoi detrattori, Miller non aveva fissato “il giorno e l’ora” ma solo l’anno dell’avvento così come l’aveva ricavato dalla profezia dei 2300 giorni. Il sarcasmo e il disprezzo dei nemici di questa dottrina cominciavano però a farsi sempre più espliciti e molti erano i credenti che erano stati cacciati dalle loro chiese. Il clima non era facile. Così molti accolsero con sollievo quello che sarebbe stato considerato uno dei sermoni più famosi del millerismo. Lo pronunciò Charles Fitch che, prima di abbracciare il millerismo, era stato nel team del famoso evangelista presbiteriano Charles G. Finney, una delle più importanti figure del secondo grande risveglio. Fitch si era aggiunto al movimento dell’avvento solo nel 1841 ma ne divenne presto uno dei predicatori più importanti, concentrando la sua attività negli stati dell’Ohio, del Michigan e nella parte orientale dello stato di New York. Anch’egli aveva conosciuto il sarcasmo e il disprezzo degli antichi colleghi, e nel luglio del 1843 pronunciò il famoso sermone dal titolo “Uscite da essa, o popolo mio”. Si basava sul brano di Apocalisse 18, dove un angelo potente ordinava al popolo di Dio di abbandonare la corrotta Babilonia spirituale, per sottrarsi al terribile castigo che le era stato riservato (v. 4). Fitch sostenne che Babilonia rappresentava tutte le chiese che avevano respinto il messaggio dell’avvento, e che pertanto era dovere di tutti i cristiani che attendevano l’imminente ritorno di Gesù, abbandonare queste chiese per non partecipare al castigo che stava per abbattersi su di loro. Non tutti accolsero con entusiasmo quest’interpretazione del brano di Apocalisse. Molti dirigenti milleriti ne rinviarono l’accoglimento fino alla tarda estate dell’anno seguente. Miller, che la considerava dannosa per il buon fine dell’opera da lui iniziata, non l’accettò mai. Al contrario, molti predicatori e semplici fedeli che vivevano direttamente il dramma dell’ostilità e del disprezzo delle loro chiese, che dovevano subire il ricatto di tenere per sé la verità spirituale più cara o d’essere cacciati, non poterono che accoglierla con favore, giacché Fitch stava fornendo loro una motivazione scritturale per togliersi da quella situazione insostenibile. Infatti si stima che prima dell’ottobre 1844 più di 50 mila credenti milleriti avessero abbandonato le loro chiese.

Quando però trascorse pure il mese di marzo 1844 senza che Gesù tornasse, allora, giustamente, i milleriti cominciarono ad inquietarsi. Vero è che Miller non aveva mai indicato una data esatta per l’evento, però l’anno da lui indicato era ormai passato. Si verificò quella che venne poi definita la “delusione di primavera”. Ci furono le prime defezioni e i detrattori del movimento diedero sfogo a tutto il loro sarcasmo e disprezzo. Man mano che trascorrevano le settimane aumentavano la perplessità e lo scoraggiamento. Alcuni fecero notare che la stessa Bibbia contemplava un periodo di ritardo (“Siccome lo sposo faceva tardi” Mt 25:5; “…alla fine tutto si realizzerà, come previsto. Attendila con fiducia e pazienza…” Abacuc 2:3); così quei giorni furono pure definiti il “tempo del ritardo”. Forse erano necessari perché coloro che si erano uniti nell’attesa per calcolo o per paura venissero allo scoperto. Ed infatti molti dei fuoriusciti dichiararono che in realtà non avevano mai creduto che Cristo sarebbe venuto; ed essi furono i primi a mettere in ridicolo il dolore provato dai veri credenti.

Quell’estate, nel mese di agosto, si tenne un camp-meeting ad Exeter, nel New Hampshire. In quell’occasione Samuel Sheffield Snow, un predicatore millerita fin allora poco conosciuto, dimostrò attraverso una serie di calcoli che la profezia dei 2300 giorni/anni si sarebbe adempiuta nell’autunno di quell’anno. Snow collegò l’azione di purificazione che Gesù avrebbe compiuto al suo ritorno, con il giorno annuale dell’espiazione e della purificazione del tempio, cioè con la festività ebraica dello Yom Kippur. L’immagine del sommo sacerdote che esce dal luogo santissimo per benedire il popolo era la figura di Cristo che tornava per benedire coloro che lo attendevano. Quell’evento ricorreva il decimo giorno del settimo mese ebraico, quello di Tishri, che cade tra settembre e ottobre. Quindi perché il tipo incontrasse l’antitipo, Gesù sarebbe tornato proprio in quel giorno che quell’anno cadeva il 22 ottobre. In realtà Snow portava alle sue logiche conseguenze un’intuizione che aveva avuto lo stesso Miller nella primavera dell’anno precedente. Infatti, in una lettera a Himes del maggio 1843, egli notava che come “le cerimonie della legge tipica, osservate nel primo mese… ebbero il loro compimento con la prima venuta di Cristo e le sue sofferenze”, così “tutte le feste e le cerimonie del settimo mese… possono avere il loro compimento solo con il suo secondo avvento. … Se ciò dovesse esser vero – concludeva – non vedremo la sua gloriosa apparizione fino al tempo dell’equinozio autunnale”. Snow, collegando anch’egli i due eventi e facendo riferimento al più preciso calendario degli ebrei caraiti, otteneva la data del 22 ottobre 1844. D’altra parte, il decreto di Artaserse che consentiva la ricostruzione di Gerusalemme, e che rappresentava il punto di partenza dei 2300 giorni/anni, andò in vigore nell’autunno del 457 a.C. e non all’inizio di quell’anno, come si era creduto in un primo momento; ed anche questa più precisa collocazione dell’evento di partenza conduceva all’autunno del 1844. Egli aveva già divulgato la sua deduzione prima della delusione di primavera ma solo adesso, in questo camp-meeting, trovò ascolto attento. Il suo ragionamento risultò convincente e riaccese la speranza dei milleriti che all’imminente parusia ci credevano e ci tenevano. La nuova attesa prese il nome di “movimento del settimo mese”, quello di Tishri, in cui cadeva lo Yom Kippur. William Miller sulle prime fu titubante, forse perché egli non aveva mai voluto fissare il giorno preciso del secondo avvento che, come aveva affermato lo stesso Gesù, conoscerebbe solo il Padre. Tuttavia avvicinandosi quella data, finì anch’egli per aggrapparsi a quella speranza e lo fece con tutto il cuore, come possiamo constatare da un suo pensiero vergato il 6 ottobre: “Nel movimento del settimo mese vedo la gloria divina quale non ho mai visto prima. Sebbene Dio mi avesse mostrato l’importanza del settimo mese, dal punto di vista tipologico, un anno e mezzo fa non riuscivo a comprendere la forza di questi tipi profetici. Ora, benedetto sia il nome del Signore, scorgo nelle Scritture una bellezza, un’armonia, un accordo per i quali avevo pregato, ma che non avevo visto fino a oggi. Ringrazia il Signore, anima mia, e che i fratelli Snow, Storrs e altri siano benedetti per essere stati strumenti che mi hanno aperto gli occhi. Sono quasi a casa. Gloria! Gloria! Gloria! So che la data è giusta”.

Ed ora per un attimo caliamoci nei panni dei milleriti alla vigilia del 22 ottobre 1844 per intercettare i loro stati d’animo, le loro speranze, i loro timori. La delusione di primavera aveva allontanato i meno sinceri e i meno motivati. Adesso il loro gruppo era più compatto ed essi da alcuni mesi si stavano preparando per il grande incontro. Avrebbero dovuto sostenere lo sguardo del sommo Giudice e questo monopolizzava la loro attenzione. In spirito di preghiera analizzavano i propri pensieri e i propri ricordi alla ricerca di zone d’ombra e di conti in sospeso. Risale a quei giorni un annuncio pubblicato in prima pagina dal principale quotidiano di Providence, capitale del Rhode Island: “Se dovessi del denaro a qualcuno a causa della mia attività commerciale, e non fossi stato corretto nei pagamenti, lo pregherei di mettersi in contatto con me in modo che io possa saldare i miei debiti; perché il 22 ottobre arriva Gesù ed io voglio salire sulle nuvole e andarmene con Lui”. Indubbiamente questi credenti stavano vivendo un’esperienza molto intensa ed appagante. Il loro stato di comunione con il Cielo era già un’anticipazione dell’atmosfera che avrebbero respirato nella città di Dio. La sera del 21 ottobre molti di loro si riunirono nei boschi e nelle radure attendendo in preghiera il ritorno del Signore. Le ore si susseguirono finché giunse la mezzanotte, ma Gesù non apparve. Giunse l’alba a cui seguì un nuovo giorno, uguale a tutti gli altri. Su quell’incontro essi avevano concentrato ogni loro aspettativa; ed ora la dolce speranza si tramutava nuovamente in amara delusione. Quasi tutti piansero amaramente. Per sostenere la divulgazione del messaggio, molti di loro avevano venduto le loro case, i campi, le attività commerciali, ed ora toccava loro riprendere le occupazioni e le abitudini quotidiane che pensavano d’aver salutato per sempre; dovevano ricominciare daccapo sotto i lazzi e il dileggio degli increduli. Scrisse Hiram Edson, uno di loro, ricordando quell’esperienza: “Le nostre aspettative e speranze più tenere andarono in frantumi, e fummo afferrati da un irrefrenabile bisogno di piangere come mai avevamo provato prima. Sperimentammo un dolore peggiore di quello che si prova per la perdita degli amici più cari. Piangemmo e piangemmo fino allo spuntar dell’alba. Mi dissi: l’esperienza dell’avvento è stata per me la più ricca e fulgida di tutte le mie esperienze cristiane. Se essa si è dimostrata fallace, che valore potrebbero avere tutte le altre? La Bibbia si è dimostrata falsa? Dio, il cielo, la dimora dei redenti, il paradiso, sono un’illusione? Una favola astutamente composta? Tutte queste cose che rappresentano le nostre aspettative e speranze più dolci sono soltanto fantasie? Così, se le nostre più care speranze andavano deluse, avevamo motivo di piangere e disperarci”. Gli avventisti milleriti caddero in uno stato di profonda prostrazione, “malati di delusione”, come affermò uno di loro. Infatti quella loro esperienza fu definita “La Grande Delusione”; molto simile a quella che provarono i seguaci di Gesù quando questi, invece d’instaurare il regno messianico, si lasciò ammazzare. “Noi speravamo che fosse lui a liberare il popolo d'Israele! Ma siamo già al terzo giorno…” (Lc 24:21), affermarono affranti i due discepoli di Emmaus. Questo era lo stato d’animo dei milleriti all’indomani della grande delusione; erano tristi e inconsolabili, ma anche disorientati e confusi.

Con il 22 ottobre 1844 il millerismo giungeva al suo punto d’arrivo. Tra chi aveva atteso il ritorno di Gesù per il 22 ottobre regnava la più grande incertezza. Delusi e feriti, molti si allontanarono. I restanti erano alla ricerca di risposte e di un’identità. Avevano vissuto un’esperienza troppo “vera” e concreta per considerarla una mera illusione. Avevano sperimentato la presenza di Dio ed ora ne sentivano il conforto. Ma se non si erano illusi, la domanda era allora: dove stava il loro errore? Avevano atteso la cosa giusta per la data sbagliata, o qualcosa di sbagliato per la data giusta? Qualcuno ha voluto richiamarsi alla “sindrome di Festinger” per spiegare il percorso compiuto dalla comunità millerita, dopo la grande delusione, come psicologicamente e sociologicamente determinato. Leon Festinger fu un sociologo che, insieme ad altri colleghi, nel 1956 studiò una piccola congrega ufologica che aveva atteso con grande fervore la fine del mondo. Egli era giunto alla conclusione che quando “la profezia fallisce”, la comunità religiosa che vi ha creduto non si disperde ma anzi, a causa dell’ostilità esterna, tende a compattarsi e persino a crescere. Alcuni ammetteranno d’essersi sbagliati, ma i più (per una serie di ragioni psicologiche e sociologiche) cercheranno di razionalizzare la delusione dandosi una serie di spiegazioni oggettivamente poco credibili ma accettate come buone dai membri della comunità. È quella che Festinger chiamava “dissonanza cognitiva”, poiché pone il credente in “dissonanza” rispetto alla società esterna, a causa appunto della smentita empirica di una sua credenza qual è una profezia che fallisce. Molti ricercatori che hanno studiato i gruppi religiosi mettono in dubbio la scientificità della teoria di Festinger, la ritengono semplicistica e non generalizzabile. A maggior ragione ciò vale per la sua applicazione al millerismo. Questo non era un gruppo religioso, ma un movimento interconfessionale solo minimamente organizzato. Infatti dopo la delusione, anziché compattarsi, in parte si disperse e ciò che rimase si spezzò in più tronconi. Il fatto che alcuni abbiano cercato di razionalizzare il fallimento non implica necessariamente che cercassero spiegazioni ad ogni costo, quindi anche irrazionali. O, almeno, non tutti agirono così. E questi in tale ricerca seguirono il metodo tracciato dallo stesso Miller, che nella profezia biblica cercava sempre risposte razionali e storicistiche. Certo potevano anche essersi sbagliati tout court, ma il loro era un percorso di fede che si basava su una rivelazione scritta. Di per sé l’analisi sociologica non prende in considerazione l’esistenza di un Dio che si rivela e che in qualche modo guida gli eventi, e studia solo l’agire degli insiemi umani nella loro interazione reciproca. Ma il fatto che la sociologia non prenda in considerazione questo Dio, non basta ad escludere che Egli esista. Le prove della fede si basano su altri presupposti, scientificamente inspiegabili ma non necessariamente soggettivi. Considerando come reali tali presupposti, le dinamiche delle interazioni umane non bastano a spiegare del tutto gli eventi in cui sono coinvolti gruppi umani. Pertanto avrebbe un senso anche razionale il percorso compiuto da questi uomini che si chiedevano: “Se non ci siamo semplicemente sbagliati, dove sta allora il nostro errore? Abbiamo atteso la cosa giusta per la data sbagliata, o qualcosa di sbagliato per la data giusta?”

Il 29 aprile 1845 nella città di Albany si tenne un importante meeting a cui parteciparono – con alcune significative assenze – i principali leader del movimento, tra cui Joshua Himes, Elon Galusha, Josiah Litch, Sylvester Bliss e lo stesso Miller, per un totale di 61 delegati. Da allora in poi i milleriti presero il nome di avventisti. Scopo dell’incontro era quello di ricompattare ciò che rimaneva del millerismo, dopo le defezioni seguite alla grande delusione, ritrovandosi su una migliore comprensione dell’avvento e su alcuni punti fondamentali della dottrina cristiana. Questa speranza andò però delusa. Il millerismo era un movimento interconfessionale che si era incontrato attorno ad un unico punto di fede: l’imminente ritorno di Gesù. Nelle sue fila militavano cristiani appartenenti a tutte le denominazioni e quindi a tradizioni dottrinali molto diverse, talvolta inconciliabili. Ma neppure sul tema comune dell’avvento ci fu consenso generale perché venivano date spiegazioni diverse al mancato appuntamento del 22 ottobre. Così, tra le diverse posizioni, emersero quattro gruppi che man mano si costituirono ufficialmente in denominazioni: gli Avventisti Evangelici, l’Associazione Cristiana Avventista, l’Unione della Vita e dell’Avvento e gli Avventisti del Settimo Giorno.

Negli Avventisti Evangelici (Evangelical Adventists) si costituì la maggioranza dei delegati convenuti ad Albany, sotto la guida di Joshua V. Himes, il principale collaboratore di Miller. Unici tra gli avventisti, essi credevano nelle pene eterne dell’inferno e nello stato cosciente dei morti. Quanto al ritorno di Cristo, essi si posero tra coloro che pensavano di avere atteso la cosa giusta (la parusia) per la data sbagliata (il 22 ottobre 1844), e giunsero alla conclusione che, pur essendo prossima la fine, non era possibile determinarla in alcun modo. Non presentando sensibili differenze rispetto ai gruppi protestanti “storici”, la Chiesa Avventista Evangelica, pur maggioritaria negli anni ’40 e ’50 del XIX secolo, fu da questi gradualmente riassorbita fino all’estinzione avvenuta nei primi anni del ‘900.

Associazione Cristiana Avventista (Advent Christian Association), fondata nel 1860 a Salem, nel Massachusetts, da un gruppo di seguaci stretti di Miller, principalmente Charles F. Hudson (1795-1881) e George Storrs (1796-1879). Questi fu colui che introdusse nell’avventismo la dottrina dell’immortalità condizionata (Condizionalismo), secondo cui i morti si trovano in uno stato d’incoscienza fino al giorno della risurrezione, poiché gli uomini non possiedono l’immortalità come qualità innata, ma solo la ricevono in dono tramite Cristo. Pertanto i malvagi, rifiutando tale dono, saranno completamente distrutti dal fuoco con la seconda morte (Ap 21:8). L’Associazione Cristiana Avventista, che mutò poi il nome in Conferenza Cristiana Avventista e infine in Chiesa Cristiana Avventista, si pose anch’essa tra coloro che pensavano di avere atteso la cosa giusta per la data sbagliata. Ma, al contrario degli Avventisti Evangelici, ricalcolò più volte la data della parusia che venne invano attesa per il 1854 e per il 1874. Nelson H. Barbour, a capo del gruppo dissidente The Midnight Cry, affermò che quest’ultima data rappresentava il secondo avvento di Cristo in forma invisibile. Sia con l’Associazione Cristiana Avventista, sia con Barbour si era tenuto per qualche tempo in contatto Charles Taze Russell (1852-1916), fondatore del gruppo dei Bible Students da cui nel 1931 derivarono i Testimoni di Geova, confessione che ha adottato una teologia che esce decisamente dall’ambito protestante.

Per inciso, l’affermazione di Barbour, che fu fatta propria anche da Russell, circa l’avvento di Cristo in forma invisibile non era in realtà inedita. Già all’indomani della grande delusione vi furono dei milleriti, cosiddetti “spiritualizzanti”, che ritenevano avvenuto il ritorno di Cristo proprio nel giorno fissato del 22 ottobre, intendendolo però come un ritorno spirituale, nel cuore dei credenti, piuttosto che un’apparizione fisicamente visibile. Spesso le file degli spiritualizzanti erano caratterizzate da fanatismo ed eccessi di tipo carismatico. Alcuni, ad esempio, affermavano che il mondo era entrato nel settimo millennio del riposo – il “Grande Sabato” – e che quindi ai salvati era vietato lavorare. Altri si atteggiavano a bambini, prendendo alla lettera le parole di Gesù: “Chiunque non avrà ricevuto il regno di Dio come un bambino, non vi entrerà affatto” (Mc 10:15). Questi gruppuscoli furono causa di confusione e gettarono discredito sul movimento avventista.

Unione della Vita e dell’Avvento (Life and Advent Union) fu fondata anch’essa da George Storrs, nel 1863, propagatore come si è detto del condizionalismo in ambiente avventista. Per qualche tempo egli aveva aderito ad una concezione non scritturale di condizionalismo che contemplava la sola risurrezione dei giusti, e non quella dei malvagi alla fine del millennio che, come invece ha affermato Gesù, “risorgeranno per essere condannati” (Gv 5:29). L’Unione della Vita e dell’Avvento, di cui Storrs fu presidente, era stata voluta per diffondere questa dottrina. In seguito Storrs tornò alla posizione originaria della risurrezione di tutti i morti. Nel 1964 l’Unione della Vita e dell’Avvento e l’Associazione Cristiana Avventista si fusero nella Advent Christian Church (Chiesa Cristiana Avventista) che oggi conta circa 30.000 fedeli e professa l’imminente parusia, il condizionalismo e il battesimo per immersione. Questa denominazione non è presente in Italia.

Gli Avventisti del Settimo Giorno (Seventh-day Adventists) si costituirono ufficialmente in denominazione in occasione della loro prima Conferenza Generale tenutasi a Battle Creek, Michigan, nel 1863. Si chiamarono così perché adottarono il sabato, settimo giorno della settimana, quale giorno di riposo. Lo mutuarono dai Battisti del Settimo Giorno che diffusero questa dottrina tra i milleriti. Il pastore battista Thomas M. Preble (1810-1907) aveva pubblicato uno studio sull’argomento ampiamente diffuso tra i seguaci di Miller che, però, in maggioranza non ne furono particolarmente toccati ed anzi lo respinsero, in occasione del meeting di Albany, con una mozione che raccomandava di non avere “alcuna relazione con favole giudaiche e comandamenti d’uomini, che distolgono dalla verità”. I gruppi maggioritari dei milleriti, però, come abbiamo visto, finirono per estinguersi o ridursi drasticamente, al contrario dei milleriti sabatisti che col tempo conobbero un notevole sviluppo. Oggi la Chiesa Avventista del Settimo Giorno è diffusa in quasi tutti i paesi del mondo e conta 17 milioni di membri battezzati. Tra i suoi punti di fede, oltre all’osservanza del sabato, il condizionalismo e il battesimo degli adulti per immersione. Quanto al ritorno di Cristo, essi si posero tra coloro che pensavano di avere atteso la cosa sbagliata (la parusia) per la data giusta (il 22 ottobre 1844). Dopo un attento studio della profezia dei 2300 giorni/anni giunsero alla conclusione che il 1844 era effettivamente il tempo da essa indicato e che la maggioranza dei milleriti era in errore ripudiando la cronologia del movimento del settimo mese. D’altra parte era indubitabile che Gesù non fosse venuto per quella data. Contestavano pure l’affermazione degli spiritualizzanti, che il suo fosse stato un ritorno spirituale, nel cuore dei credenti, perché ciò contraddiceva le affermazioni della Bibbia che descrivono la seconda venuta di Gesù come un evento fisicamente sensibile e da tutti osservabile, anche dai malvagi (“Tutti lo vedranno, anche quelli che lo uccisero”. Ap 1:7). Non restava pertanto che concentrarsi sull’evento indicato come avvenuto per quella data, ovvero la purificazione del santuario.

Finora tutti avevano accettato come scontata l’opinione popolare che il santuario di Dio fosse la terra. Il santuario sarebbe stato purificato pertanto con il ritorno di Cristo in gloria e con la catarsi di questo mondo per mezzo del fuoco. Anche Miller aveva dato per buona quest’opinione sebbene ci fosse giunto ragionando per esclusione. Facendo così egli aveva però derogato dalla ferrea regola che si era imposta nello studio del sacro testo: quella che la Bibbia è la migliore interprete di se stessa e ogni passo poco chiaro si spiega con tutti i passi paralleli contenuti nella stessa Bibbia. La soluzione all’equivoco che aveva impedito la corretta comprensione della profezia giunse già all’indomani della grande delusione. Al ritorno da un incontro di preghiera, Hiram Edson, mentre attraversava un campo di grano in compagnia di Owen R.L. Crosier, fu spinto ad alzare lo sguardo al cielo. Ma ascoltiamo le sue parole: “Il cielo parve aprirsi davanti a me ed io vidi in modo chiaro e distinto che il nostro Sommo Sacerdote, anziché lasciare il luogo santissimo del santuario celeste per venire su questa terra il decimo giorno del settimo mese, alla fine dei 2300 giorni, entrò in quel giorno nella seconda stanza del santuario. Vidi che prima di venire su questa terra aveva un compito da realizzare nel luogo santissimo… Ciò che impressionò vividamente la mia mente fu che il santuario da purificare non era la terra ma il santuario che sta nel cielo”. Edson e Crosier corsero a casa e insieme ad un altro millerita, Franklin B. Hahn, si diedero allo studio del santuario. Di quanti santuari parla la Bibbia? Confrontarono i libri di Esodo e Levitico con la lettera agli Ebrei, soprattutto i capitoli 8 e 9 di questa, e scoprirono che vi si parla di due santuari: uno celeste e uno terreno. Ma ciò che particolarmente li emozionò è scoprire la profonda relazione tra i due: non solo quello terreno era costruito sul modello celeste ma anche le cerimonie che vi si officiavano richiamavano le sue funzioni. Esse erano una rappresentazione visiva completa del piano della salvezza. Vi era l’attività quotidiana connessa al luogo santo e quella annuale, nel giorno delle espiazioni, collegata al luogo santissimo. I sacerdoti terreni compivano un ministero composto di due fasi, prefigurando il ministero che Cristo compiva nel cielo anch’esso suddiviso in due fasi. La prima, che riguardava il perdono dei peccati, era iniziata nel luogo santo del santuario celeste subito dopo la sua ascensione; la seconda il 22 ottobre 1844, quando Cristo aveva iniziato ad officiare nel luogo santissimo. Quest’ultima fase, che si affianca alla precedente, riguarda la cancellazione dei nostri peccati e la purificazione sia del santuario sia dei singoli fedeli, così come prefigurato dalla cerimonia israelitica dello Yom Kippur quando il sommo sacerdote purificava il “luogo santissimo dallo stato di impurità causato dalle disubbidienze e dalle colpe degli israeliti” (Lev 16:16) e poi ne usciva per benedire il popolo.

Le cerimonie dell’antico santuario ebraico prefiguravano pertanto l’opera di Cristo che, come sommo sacerdote dell’umanità, non solo intercede in suo favore ma anche la giudica e per ogni singolo uomo emette un giudizio che può essere di perdono (e quindi di cancellazione dei peccati dai registri celesti) ma che può anche essere di condanna. Ciò sarebbe avvenuto in un preciso momento prima del suo ritorno, proprio in quello indicato come “purificazione del santuario” nella profezia dei 2300 giorni. I tre amici constatarono che non c’è alternativa a questa spiegazione riferita al santuario celeste, in quanto l’unico rimasto dopo che quello terrestre fu distrutto nel 70 d.C. Quest’evento viene anche annunziato dal primo dei tre angeli di Apocalisse 14 che grida: “… è venuto il momento in cui egli giudicherà il mondo”. Ecco quindi che l’evento indicato dalla profezia dei 2300 giorni non si riferiva all’uscita di Gesù bensì al suo ingresso nel luogo santissimo del tempio ad indicare l’ultima sua funzione prima del suo ritorno. Era un’azione di purificazione che non veniva compiuta con il fuoco, bensì con il suo sangue. Probabilmente essi si ricordarono delle parole pronunciate nel febbraio del 1840 dal pastore metodista Josiah Litch, uno dei maggiori collaboratori di Miller, sulla necessità che il giudizio dovesse avvenire prima della resurrezione. Parole allora passate inosservate. E dire che Litch, due anni dopo, aveva precisato il proprio pensiero osservando che la resurrezione degli uomini, per vivere eternamente o per ricevere la condanna, costituiva l’esecuzione di un giudizio che prima era stato emesso in sede processuale; pertanto un giudizio esecutivo doveva necessariamente essere preceduto da un giudizio processuale. Se il tema del santuario fosse stato studiato diligentemente dai milleriti, essi si sarebbero risparmiata una cocente ed evitabile delusione. Gli Avventisti del Settimo Giorno approfondirono il soggetto del santuario da cui hanno ricavato la dottrina del Giudizio Investigativo che è loro specifica. Secondo tale dottrina dal 1844 è iniziata l’opera finale di Cristo con la quale si entra nel tempo della fine. Durante questo solenne periodo, dopo aver analizzato le opere palesi e recondite di ciascuno, viene emessa la sentenza di vita o di morte su tutti gli uomini, cominciando da quelli vissuti nel passato e finendo con i viventi. Lo scopo sarebbe quello di svelare a tutti gli esseri dell’universo i criteri della giustizia divina, in base ai quali viene deciso il destino eterno di ogni peccatore. La consapevolezza di vivere nel tempo in cui si decidono i destini di tutti rende più urgente la responsabilità di raggiungere e avvertire “molti popoli, nazioni, lingue e regni” (Ap 10:11) prima che si chiuda il tempo di grazia quando il destino di tutti sarà deciso e non potrà più essere modificato.

A tal proposito è utile inserire una nota storica. Dopo che Edson, Crosier e Hahn ebbero compiuto il loro studio sul santuario, Crosier presentò il risultato di questo lavoro sia in un lungo articolo, pubblicato sul Day-Star Extra di Cincinnati, sia in un saggio dal titolo Day Dawn. In quest’ultimo, oltre ad affrontare l’argomento relativo al giorno dell’espiazione, egli esaminava la parabola biblica delle Dieci Vergini che parla di un gruppo di giovani donne invitate ad una festa nuziale con il compito di far luce allo sposo con le loro lampade quando questi sarebbe arrivato. Ora lo sposo, che si ritiene essere figura di Cristo, tardò al punto che le vergini tutte si addormentarono. D’improvviso, a mezzanotte, si udì un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Le vergini, svegliatesi, s’accorsero che le loro lampade stavano per spegnersi; alcune, avvedute, avevano portato una riserva d’olio con sé e poterono ricaricarle; le altre, definite stolte, erano sprovviste di tale riserva e dovettero allontanarsi per acquistarlo. Nel frattempo giunse lo sposo e gl’invitati entrarono in casa con lui. Poi venne chiusa la porta. Quando le vergini stolte tornarono trovarono la porta chiusa e restarono escluse dal banchetto. Nel ritardo dello sposo i milleriti avevano già avuto occasione di ravvisare la propria esperienza di attesa frustrata per l’apparente ritardo del loro Salvatore. Crosier, confrontando questa parabola con lo studio sul santuario, espresse il convincimento che con l’ingresso di Gesù nel Sancta Sanctorum del cielo, la porta della salvezza fosse stata irrimediabilmente chiusa e soltanto coloro che avevano creduto nel messaggio millerita avrebbero potuto salvarsi. Questa dottrina, definita della “porta chiusa”, pur senza le implicazioni connesse al santuario celeste, era stata suggerita dallo stesso Miller e per qualche tempo fu da lui sostenuta. Nel dicembre del 1844 egli scriveva: “Abbiamo fatto il nostro dovere nell’avvertire i peccatori e nel tentare di risvegliare una chiesa formalista. Dio, nella sua provvidenza ha chiuso la porta; possiamo solo spronarci gli uni gli altri a essere pazienti, e a impegnarci per rendere la nostra chiamata e la nostra elezione sicure. Stiamo ora vivendo nei tempi descritti da Malachia 3:18; Daniele 12:10 e Apocalisse 22:10-12. In questo frangente non possiamo fornire altro aiuto che quello di far notare che poco prima del ritorno di Cristo ci sarà una separazione tra i giusti e gli ingiusti… Mai, dal tempo degli apostoli, tale linea di divisione è stata tracciata”. La convinzione della porta chiusa fu certamente rafforzata dalle reazioni odiose degli schernitori e degli stessi ex milleriti all’indomani del 22 ottobre, e dall’arrestarsi delle nuove conversioni. Questo contesto, ora più che mai divenuto ostile, suggeriva con forza che la porta della grazia fosse stata chiusa e quasi tutti i milleriti superstiti, all’indomani della grande delusione, furono indotti a crederlo. Ben presto però molti rividero la loro posizione e abbandonarono questa dottrina. Il discrimine stava nel come veniva letta la delusione del 22 ottobre. Quando infatti ad aprile molti di loro s’incontrarono ad Albany e, sotto la guida di Himes, conclusero che il 22 ottobre non era successo nulla perché nulla doveva succedere convennero altresì che, non essendosi verificata la separazione tra i giusti e gl’ingiusti, non poteva neppure essersi chiusa una porta tra i due gruppi. Quei milleriti che allora costituivano la maggioranza furono così chiamati avventisti della “porta aperta” e di conseguenza si convinsero d’essere ancora in dovere di avvertire il mondo del giudizio che comunque ritenevano non lontano. Al contrario, la minoranza di milleriti ancora convinta che il 22 ottobre si era adempiuta la profezia dei 2300 giorni continuò a credere nella chiusura ormai avvenuta del tempo di grazia. Gli avventisti della “porta chiusa” ritenevano esaurita la loro missione nei confronti dell’umanità e che loro unico dovere fosse quello di lavorare sui disorientati e sui delusi che avevano fatto parte del movimento del 1844. Ovviamente allontanandosi quell’anno, tale dottrina andò perdendo significato e finì con l’essere abbandonata.

Quanto a William Miller, la delusione del 22 ottobre, com’era inevitabile, lo toccò profondamente. Assistere al dolore e allo sbandamento di quel popolo che egli aveva condotto a credere in una ben determinata vicinanza dell’avvento, non poteva che amareggiarlo. A tal proposito, va ricordato che fu proprio il timore di illudere i suoi ascoltatori a trattenerlo per lungo tempo dal rendere pubblica la sua comprensione del messaggio profetico. Adesso i suoi detrattori potevano, apparentemente a ragione, additarlo come falso profeta. “Nessuno può conoscere il giorno e l’ora dell’avvento”, ripetevano con disprezzo. In realtà Miller era sempre stato contrario a fissare la data esatta dell’avvento; e il periodo da lui indicato, quello tratto dalla profezia dei 2300 giorni, era sempre preceduto da un “circa” (about). Persino quando Snow evidenziò l’importanza della data del 22 ottobre, egli fu riluttante ad accettarla; e comunque dopo la grande delusione rifiutò sempre di seguire chi fissava nuovi appuntamenti con la parusia. Miller, d’altra parte, intuiva bene che i suoi detrattori erano più intimoriti dalla prospettiva di ritrovarsi faccia a faccia con il sommo Giudice che animati dallo zelo per le Scritture. Infatti lo stesso Gesù che aveva affermato di non conoscere neppure lui la data dell’avvento, aveva anche ammonito i farisei di disconoscere di proposito i segni che indicavano la vicinanza della sua prima venuta. Analogamente, Egli invitò i suoi seguaci a prestare attenzione a tutti gli elementi che avrebbero indicato il tempo della sua seconda venuta. Il vero cristiano, sebbene non possa conoscere in anticipo quel giorno, è tenuto a conoscerne la vicinanza. E Miller di questi elementi ne aveva presentati parecchi, così da incontrare l’attenzione convinta dei suoi ascoltatori; si era sbagliato “solo” sull’evento indicato dalla profezia, ma che comunque rientrava anch’esso tra gli eventi del tempo della fine. In un certo senso poteva essere definito un errore di dettaglio, sebbene dagli effetti dirompenti; che sperimentato dai milleriti e dai loro detrattori gettò gli uni nel disorientamento e permise agli altri di dar sfogo alle peggiori reazioni di cui è capace l’animo umano. Inoltre Miller questo non lo capì mai, non ne ebbe neppure il tempo. Subito dopo il 22 ottobre pensò persino ad un errore umano nella cronologia della profezia biblica, cioè nella sua trasmissione o nel suo computo, e quindi alla possibilità che la parusia potesse verificarsi giusto pochi giorni, settimane o mesi più in là. Mai però mise in discussione le basi su cui era fondata la sua fede. Egli stesso affermò: “Quantunque io abbia conosciuto due volte la delusione, non sono né abbattuto né scoraggiato… La mia attenzione è puntata su un altro tempo e qui intendo restare finché Dio non mi darà più luce; e questo tempo è oggi, OGGI e OGGI, finché Egli torni e io veda Colui che l’anima mia agogna… La mia speranza nella venuta di Cristo è forte come prima. Io ho fatto solo quello che, dopo anni di studi profondi, stimavo mio dovere fare… Una cosa so: ho predicato ciò in cui credevo, e Dio è stato con me; la sua potenza si è manifestata nell’opera, e ne è derivato un gran bene… Giudicando dalle evidenze, molte migliaia di persone sono state spinte allo studio della Scrittura dalla predicazione del tempo fissato e così, per la fede e per il sangue di Cristo, sono state riconciliate con Dio… Se io dovessi rivivere la mia vita, con le prove che avevo allora, per essere onesto con Dio e con gli uomini dovrei rifare quello che ho fatto”.

Miller non seguì i suoi seguaci nei loro diversificati tentativi di razionalizzare la delusione del 22 ottobre. Condivise per qualche tempo la dottrina della porta chiusa ma semplicemente perché continuava ad essere convinto dell’estrema prossimità della parusia; ed era difficile pensarla diversamente in quei giorni in cui gli schernitori del movimento gongolavano e la facevano da padroni. Egli era stato appena espulso dalla sua chiesa, la battista, e stessa sorte era toccata ad oltre 50 mila suoi seguaci. Insieme fondarono la Advent Society, antesignana delle future varie chiese avventiste, con l’importante differenza che essa non era una chiesa ma solo un’associazione, un punto di riferimento per il popolo dell’avvento, perplesso e deriso. D’altra parte era opinione comune in quei giorni, così come aveva suggerito George Storrs, che fondare una vera chiesa organizzata equivaleva a porsi sullo stesso piano delle altre chiese che, per aver respinto il messaggio dell’avvento, erano percepite come la Babilonia spirituale. Nel 1848 Miller costruì una cappella nella sua tenuta di Hampton per consentire agli avventisti del circondario d’incontrarsi tra di loro. Ma egli non fondò mai, da un punto di vista organizzativo, una chiesa avventista né si associò ad alcuna fazione, impegnandosi, semmai, nei pochi anni che gli restarono per l’unità del movimento. Non visse così a lungo da assistere agli sviluppi dell’avventismo e alle riflessioni che esso maturò. Non giunse neppure a capire in cosa si fosse sbagliato anche se onestamente ammise il suo errore; così come testimoniano le sue parole pubblicamente indirizzate “ai credenti del secondo avvento” all’indomani del 22 ottobre: “Confesso il mio errore, e riconosco la mia delusione; tuttavia continuo a credere che il giorno del Signore è vicino, proprio alle porte”.

William Miller morì il 20 dicembre 1849 nella sua casa di Low Hampton conservando sino all’ultimo la fede nel suo Salvatore. Come si recita in certi epitaffi, egli “non ebbe ricompense terrene”. Semmai, per condividere la propria speranza, si spese tutto in energie fisiche e risorse materiali. Certamente lo stigma di “falso profeta” e, soprattutto, gli effetti della grande delusione su una parte del popolo dell’avvento non contribuirono ad allietare i suoi ultimi giorni. Ma sarebbe un errore considerare un fallimento l’opera di quest’uomo, l’ennesimo inganno di un guru esaltato e strozzato dalle proprie menzogne. Come abbiamo detto, egli fu tutt’altro che un esaltato, e tanto meno uno sprovveduto. Era un individuo brillante, un fine pensatore, dalla mente bene organizzata e razionale. Fu un uomo umile, privo di ambizioni terrene. Un vero cristiano. Come egli stesso affermò: “Io non ho mai corteggiato gli orgogliosi, mai ho tremato dinanzi alla collera del mondo. Non cercherò di acquistarmi il loro favore, né sfiderò il loro odio oltrepassando il mio dovere. Non chiederò mai di risparmiarmi la vita, né rifiuterò, lo spero, di perderla, se Dio nella sua provvidenza lo dovesse chiedere”. Osservato dalla prospettiva odierna egli appare come la persona con le giuste qualità per portare avanti l’azione titanica di risveglio in vicinanza della fine e di avvertimento dei peccatori mentre si apriva il tempo del giudizio. Certo, se lui e il suo entourage fossero stati più attenti ad alcuni segnali che giunsero da membri dello stesso movimento, come le affermazioni di Josiah Litch che già all’inizio del 1840 aveva collegato la purificazione del santuario ad un giudizio processuale, sarebbero stati spinti a studiare con più diligenza il tema del santuario. E poi, all’indomani del 22 ottobre, quando Hiram Edson affermò che il santuario da purificare era quello del cielo e non la terra, una maggiore attenzione alle sue parole avrebbe evitato al movimento la sbandata che prese e resa meno cocente la delusione. Ma Dio tiene conto dei limiti degli strumenti umani che adopera, sia presi singolarmente che come collettività con i relativi condizionamenti culturali. Miller accettò e portò alle sue logiche conseguenze ciò che aveva potuto capire dal suo studio della Bibbia. In seguito il testimone fu preso in mano da altri suoi seguaci, ancor meno condizionati dai luoghi comuni a cui nemmeno la teologia sfugge, che giunsero ad una migliore conoscenza del quadro profetico. Vuol dire che in quel momento storico più di quella luce non era possibile recepire, e d’altra parte ancora più importante era che il messaggio fosse proclamato. Qui ancora una volta è possibile osservare l’imperscrutabile progetto sospinto dalla provvidenza divina e fare i dovuti confronti con la prima proclamazione del messaggio cristiano, quello effettuato dalla Chiesa primitiva. I seguaci di Cristo ci avrebbero messo lo stesso impegno ad evangelizzare la terra se avessero saputo che il secondo avvento si sarebbe verificato decine di secoli nel futuro? In quel contesto storico e con quel materiale umano, probabilmente no. Diversi episodi narrati nei Vangeli, ci indicano però che Gesù avrebbe voluto rivelare di più ai suoi discepoli, ma che Egli dovette trattenersi dal farlo perché non ancora alla loro portata. Così probabilmente avvenne con il movimento del secondo avvento. Ma nonostante i limiti in quanto uomo, e in quanto uomo del suo tempo, William Miller rimane comunque un gigante del secondo grande risveglio. Qualcuno lo ha definito il Billy Graham del XIX secolo. Egli lasciò un segno profondo nella cultura religiosa americana e sull'onda lunga della sua predicazione la posizione postmillennarista finì per ridursi ad una consistenza residuale. La sua casa, oggi museo William Miller’s Home, è stata dichiarata monumento storico d’interesse nazionale. Ellen White, che presto incontreremo, nei giorni della grande delusione era solo un’adolescente metodista che aveva abbracciato il millerismo. Essa lo vide predicare ed era certa che la sua predicazione fosse voluta dall’alto e adempisse le stesse profezie bibliche. Nei suoi Primi Scritti annotò che “gli angeli vegliano sulle preziose spoglie di questo servitore di Dio ed egli risusciterà al suono dell’ultima tromba”.