domenica 26 ottobre 2008

Simone Weil e il primato della libertà

Simone Weil nacque a Parigi nel 1909 da genitori ebrei trasferitisi dall’Alsazia. Il padre era medico e la madre apparteneva ad una famiglia colta e benestante. Frequentò con successo il miglior liceo della città e a soli 22 anni conseguì, a pieni voti, la laurea in filosofia presso la Normale di Parigi. Era una persona indubbiamente intelligente ma anche molto sensibile e con un forte senso della giustizia. Per alcuni anni insegnò nei licei e al contempo si dedicò all’attività politica frequentando l’ambiente del sindacalismo rivoluzionario. Nel 1934 l’ansia di contribuire al rinnovamento sociale la spinse a lasciare l’insegnamento per condividere con gli oppressi la vita di fabbrica, e due anni dopo si aggregò come cuoca di campo ad una brigata anarco-sindacalista impegnata nella guerra civile spagnola. Tornata in patria rischiò l’arresto per i suoi contatti con la Resistenza e nel ’42, a causa delle leggi razziali, emigrò con i genitori negli Stati Uniti. Nel dicembre dello stesso anno si trasferì a Londra dove lavorò come redattrice presso il Comitato nazionale di “France Libre”. Morì nel sanatorio di Ashford il 24 agosto 1943, fiaccata dalle privazioni, a soli 34 anni. Se vogliamo sintetizzare un giudizio complessivo su questa figura eclettica potremmo far nostro quello che diede di lei la scrittrice Susan Sontag: "Nessuno che ami la vita vorrebbe imitare la sua dedizione al martirio, o se l'augurerebbe per i propri figli o per qualunque altra persona cara. Tuttavia se amiamo la serietà come vita, Simone Weil ci commuove, ci dà nutrimento".

Perché parlare di Simone Weil su Quaderni Escatologici? Perché il suo pensiero, e la coerenza con cui l’ha applicato nelle sue scelte di vita, cadono a proposito nella riflessione che stiamo compiendo sulla Chiesa e sul cristianesimo mentre percorrono l’ultimo tratto della storia del mondo. Il suo è un pensiero potente senza arroganza, pronto se necessario a tornare sui propri passi, ma anche combattivo e geloso delle proprie prerogative. La Weil affermava che bisogna essere sempre disposti a cambiare per seguire quell’eterna fuggiasca che è la giustizia. E così fece davvero. Subì inizialmente il fascino del marxismo rifiutandone però la teoria dello stato per il suo autoritarismo. Fu infatti tra i primi a denunciare le deviazioni della rivoluzione sovietica. La sua militanza ebbe sin dall’inizio un’ispirazione etica che la spingeva a porsi dalla parte degli oppressi. E proprio l’oppressione, vista come schiavitù dell’uomo, fu il tema principale da lei sviluppato nelle sue opere dopo quello della bellezza. Mai come nel suo momento storico, ella afferma, l’individuo è stato così abbandonato ad una collettività cieca; mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai propri pensieri, ma persino di pensare. In pratica essi hanno perso la loro umanità. Nulla più in questo mondo è a misura d’uomo; e all’interno di questa società, che è diventata “una macchina per comprimere il cuore”, egli sperimenta l’impotenza e l’angoscia. La storia umana racconta soprattutto l’oppressione e l’asservimento dell’uomo, quando, invece, l’individuo in quanto tale dovrebbe essere il valore supremo. L’uomo non può mai essere oggetto, neppure quando il fine è quello di costruire il bene comune. Su quest’equivoco sono inciampati i movimenti sociali che s’ispirano a Marx e per questo essi sono tutti falliti. La constatazione di questo fallimento, e la sfiducia nell’umanesimo antropocentrico laico che ne deriva, spingono la Weil verso la radicale alternativa della soluzione teologica e cristocentrica. Così questa donna, di famiglia agnostica e lei stessa partita da posizioni agnostiche, incontra Cristo pur senza mai rinunciare al suo impegno politico e alle sue posizioni sociali. La lotta per la libertà e contro l’oppressione non viene sostituita ma integrata da una prospettiva ultraterrena di salvezza. La ricostruzione sociale adesso nel suo pensiero poggia su basi etico-religiose, su una rigenerazione spirituale di individui e collettività. La sua è una vera conversione, non una mera adesione ad una dottrina; nei suoi scritti confessa esplicitamente d’essere stata rapita da Cristo: “Cristo è disceso e mi ha presa”, affermò.

Non bisogna al contempo ignorare il percorso che aveva condotto Simone Weil alla fede. Ella vi era giunta dopo aver constatato il fallimento delle ideologie e delle organizzazioni umane. Erano anni terribili ove i progetti socio-politici, persino quelli sorti per porre rimedio all’oppressione degli uomini, si erano rivelati dispotici e crudeli. Macchine di potere sofisticate e oppressive, tutte tese a sviluppare gerarchie, burocrazia e strutture di comando, mentre costringevano il corpo sociale al silenzio e lo ingannavano con i loro sistemi di propaganda. In questo contesto che aveva favorito l’emersione del lato più oscuro della natura umana nelle sue espressioni aggregative, Simone Weil maturò una comprensibile diffidenza per ogni forma di organizzazione che adoperava strumenti di coercizione e pretendeva pensare per gli altri, negando pertanto agli individui il loro diritto a pensare in autonomia e ad adoperare la loro intelligenza. Per lei che era centrale “trovare una soluzione armoniosa del problema delle relazioni tra individui e collettività”, questa soluzione non poteva passare per la compressione dell’intelligenza individuale. Come scriverà più tardi nel suo Attesa di Dio, “la situazione dell'intelligenza è la pietra di paragone di quest'armonia, perché l'intelligenza è cosa specificamente, rigorosamente individuale. Quest'armonia esiste dovunque l'intelligenza, rimanendo al suo posto, esercita senza impedimenti e adempie in pieno la sua funzione… La funzione propria dell'intelligenza esige una libertà totale, che implica il diritto di negare tutto, e l'assenza di ogni forma di predominio”. Così, con la stessa coerenza che l’aveva vista occuparsi di politica senza mai iscriversi ad alcun partito politico, ella decise di vivere la propria fede senza mai associarsi ad una chiesa, a cominciare da quella cattolica con cui principalmente si confrontò e rispetto alla quale decise di “restare sulla porta”. “La mia vocazione è di essere cristiana fuori dalla Chiesa”, scrisse nella sua Lettera a un religioso. Quella Chiesa che, a suo avviso, si era fatta impero, inquisizione, persecuzione, interiorizzando la potenza e l’oppressione così tipici di quei regimi totalitari che ai giorni della Weil imperversavano in tutta la loro tracotanza. Ella avrebbe sicuramente condiviso l'affermazione di Karl Barth secondo cui compito della Chiesa è quello d'insegnare la libertà e non la sottomissione.

Nella folgorazione sulla via di Damasco, che tutti i convertiti sperimentano, Simone scorge come qualità fondamentale di Dio il bene. Di norma Dio viene raffigurato come il Giustiziere onnipotente o come il buon Dio dolente e “bonaccioso”. Simone lo riconosce invece come il Dio sommamente buono e generoso, così innamorato degli uomini fino al sacrificio “assurdo” di suo Figlio. La potenza di Dio pertanto le si rivela come potenza vitale più che di dominio. Come lei stessa afferma, “Dio è il Bene [ed] è l’Onnipotenza solo per sovrappiù”. Nella sua visione Egli è Creatore per amore ma al contempo, per lasciare spazio d’espressione alla proprie creature, Egli rinuncia alla propria onnipotenza e la esercita solo per salvare quelli che desiderano essere salvati da lui. Per il resto Egli lascia il potere al Principe di questo mondo. Analogamente l’uomo che desidera incontrare Dio dovrà spogliarsi del proprio io, dovrà “decrearsi” come lei dice, e ciò avviene rinunciando alla dimensione della forza e accettando le umiliazioni poste sul suo percorso, ripercorrendo di fatto il cammino di Cristo.

Gesù non presentò il Padre come un sovrano dispotico che assoggetta i popoli e i singoli, ma come la fonte di ogni bene. Quando i discepoli, indispettiti per la scarsa ospitalità ricevuta da un villaggio, gli chiesero di far scendere del fuoco da cielo per consumare quella gente ostile, Gesù “li sgridò. Poiché il Figlio dell’uomo è venuto, non per perdere le anime degli uomini, ma per salvarle” (Lc 9:55,56). Dio non è dalla parte del potere che domina. Così, dal momento che la Chiesa usa gli strumenti del potere che domina non è più dalla parte di Dio e assume connotati ideologici, si trasforma in una sorta di partito politico che distingue il mondo in partigiani (i fedeli) e avversari quando non proprio nemici. La Weil aveva colto e smascherato il nesso che lega la teologia alla politica. Cioè il nesso che unisce alcuni assunti di fede quali l’onnipotenza divina, il potere delle chiavi e la dottrina dell’elezione con il modello di chiesa trionfante e totalitaria. Scrive Giancarlo Gaeta, docente di Storia del cristianesimo presso l’Università di Firenze: «Se si pone in Dio l'onnipotenza riguardo agli accadimenti mondani è inevitabile che un riflesso di essa ricada sulla sua Chiesa, e che quindi essa si senta investita di un compito storico assoluto, rispetto al quale ogni ostacolo che venga dal di fuori e ogni interna opposizione assumono valore negativo se non demoniaco. Simone Weil dà tutta la misura del potere corruttore di una siffatta concezione quando coglie in fallo grandi spiriti come Agostino e Tommaso. Affermare che l'opera buona compiuta da un infedele non può piacere a Dio, oppure che chi non aderisce a un solo articolo di fede non ha affatto la fede, equivale a proporre una idolatria sociale della Chiesa, poiché di fatto la fede nella Chiesa prevale su quella nel Cristo: ‹È come se con il tempo si fosse finito per considerare non più Gesù, ma la Chiesa come Dio incarnato quaggiù›. Ora una siffatta concezione della fede implica per Simone Weil «un totalitarismo soffocante al pari o più di quello di Hitler» (G. Gaeta, Religione del nostro tempo, ed. E/O).

Questo monopolio della salvezza ha una lunga storia. Risale al vescovo di Cartagine Cipriano (210-258) il quale insegnava che nessuno può avere Dio per Padre se non ha la Chiesa per Madre. Agostino, suo grande ammiratore, riprese quest’affermazione e con il proprio imprimatur le diede imperitura autorità. La ritroviamo intatta nel Catechismo del Concilio di Trento: «Quanti vogliono conseguire la salute eterna devono aderire alla Chiesa, non diversamente da coloro che, per non perire nel diluvio, entrarono nell'arca». Proprio quel Catechismo così lontano dalla sensibilità della Weil, pieno zeppo di “anathema sit”, nella cui monotona formulazione ella individua l’elemento costitutivo dell’ideologia totalitaria! La Weil non accetta la condizione particolare, lei dice persino settaria, che l’essere cattolici comporta, e che crea di fatto un muro di separazione tra chi aderisce a questa Chiesa e il resto degli uomini. “La Chiesa non è cattolica di fatto come lo è di nome”, lei afferma; ed è questo il paradosso: una Chiesa che si definisce cattolica, cioè universale, e che rifiuta di abbracciare tutti gli esseri umani d’ogni tempo e d’ogni luogo. Così per lei l’extra ecclesiam nulla salus si ribalta in intra ecclesia nulla salus. Per quest’amante della libertà e della dignità umana, anche la fede non può costringersi in una ideologia rinchiudente poiché la contemplazione di Dio si traduce in un’esperienza di immensa apertura. Cristo è venuto a salvare gli uomini di tutti i tempi e di tutte le religioni, persino gli atei e gli agnostici, nella misura in cui i loro pensieri e le loro azioni sono guidati dalla giustizia e dalla rettitudine. Di conseguenza, una religione, non importa quanto antica e venerata, dal momento che si avvale di una “investitura divina” per cercare gloria e rafforzare il proprio potere si pone lontano da Dio più di qualunque uomo che non ha mai sentito parlare di Dio ma compie umilmente il bene. Inoltre, una religione che pone il potere al primo posto, costruisce anche un’immagine di Dio più potente che buono, e così facendo rende i suoi fedeli doppiamente idolatri, perché essi offrono il cuore ad una Chiesa che si è esaltata e perché adorano un dio che non esiste o, se vogliamo, adorano il dio di questo mondo risaputamente ubriaco di potere. Ecco perché la Weil insiste sulla necessità di un cristianesimo in cui la verità, e la veracità, non siano subordinate all’adesione religiosa, ma siano esse stesse il principio normativo. “Non c’è il punto di vista cristiano e gli altri – ella afferma – ma la verità e l’errore. Non: ciò che non è cristiano è falso, ma: tutto ciò che è vero è cristiano”. Proprio a commento di questa affermazione, Pier Cesare Bori, docente di Filosofia morale all’Università di Bologna, osserva: «Viene in mente un'opposizione – una delle tante, ma in questo caso non stereotipa – tra Dostoevskij e Tolstoj. Dostoevskij afferma in qualche luogo: "Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e si potesse effettivamente constatare che la verità è fuori di Cristo, preferirei rimanere con Cristo, piuttosto che con la verità, e cioè starei con Cristo anche se avesse torto". Tolstoj, citando Coleridge, diceva invece: "Chi comincia con l'amare il cristianesimo più della verità, amerà poi la sua setta o chiesa del cristianesimo e finirà con l'amare se stesso (la propria tranquillità) più di ogni altra cosa"». Chi meditando su Dio non s’è posta questa alternativa? Cioè il primato dei sentimenti sulla verità. Che è diverso dal primato del potere sulla verità. Una cosa è scegliere di stare con Gesù anche se egli non ci prospettasse una sua vittoria sicura (scelta comunque morale, e quindi di libertà), e ben altra cosa è scegliere di stare con Gesù anche se avesse torto. Optare per i sentimenti può apparire sul momento una scelta morale, ma di fatto non lo è. Basti pensare alla prima ribellione, quella che avvenne in Cielo. Un numero sterminato di angeli scelse di stare con Lucifero, il loro principe a cui volevano un gran bene, nella sua battaglia contro il Figlio unigenito. Lì chiaramente prevalsero i sentimenti sulla verità. Da questo conflitto, che ha coinvolto anche l’umanità, essi ne escono doppiamente sconfitti: perché hanno perso la guerra, e perché hanno perso anche la dignità in quanto la loro non è stata una scelta morale e quindi di libertà. Essi confidarono la loro lealtà a un cristo senza verità che, infatti, li ingannò. Si porse come loro grande amico fidato senza più esserlo, inducendoli a compiere un’azione di slealtà, quindi disonesta, nei confronti del loro Creatore. Viene in mente la famosa massima di Cicerone: “Si stabilisca dunque la prima legge dell'amicizia: bisogna rivolgere agli amici solo richieste oneste, compiere per gli amici solo azioni oneste” (De Amicitia, XIII 44). Ovviamente ancora più disonorevole è la scelta che sia suggerita dal mero tornaconto; come si dice: saltare, o anche solo restare, sul carro del vincitore o di colui che sul momento sembra vincere. I sodalizi che pongono Dio, quello vero e non quello ricostruito, in subordine prima o poi sono destinati ad una dolorosa sconfitta. L’affermazione di Simone Weil “a Dio e solo a Dio ci si può sottomettere” riassume la sua scelta coerente.


La Provocazione

Come abbiamo detto, il cristianesimo con cui principalmente la Weil si è confrontata è il cattolicesimo. E la sua figura costituisce “una grandissima provocazione alla Chiesa cattolica, perché noi quando parliamo di Simone Weil ci troviamo di fronte a una mistica di primissimo livello”, afferma il teologo cattolico Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. E prosegue: «Ebbene in che cosa consiste la provocazione alla Chiesa che la figura di Simone Weil è? Consiste nel fatto che ha avuto un contatto con la figura di Cristo così intenso e così privilegiato, sceglie di non entrare nella Chiesa, questa è la questione decisiva. Fin quando la Chiesa non approfondisce dentro di se, non si fa provocare da questa dimensione di una spiritualità che per rimanere pura, per rimanere veramente fedele alla dimensione della verità, decide di non legarsi a una istituzione. Fino a quando la Chiesa non capisce questa cosa, corre il rischio di diventare un fenomeno di divisione nell’umanità, corre il rischio di non essere fedele al suo statuto che è quello di essere cattolica, cioè universale, cioè la casa di tutti… Questa donna tanto unita a Cristo, sceglie di non entrare nella Chiesa a causa del disagio dell’intelligenza ad abbracciare la dottrina cattolica, così come si è configurata, comporta. Diceva spesso che: “Quando leggo il catechismo mi sembra di avere nulla in comune con la religione che vi è esposta”. In conclusione io dico che questo disagio dell’intelligenza che ha avvertito Simone Weil è comune a mio avviso a molti uomini e donne dei nostri giorni, perché la funzione propria dell’intelligenza esige libertà, questo è quello che manca nell’attuale configurazione della Chiesa cattolica. Occorre fare propria la grande lezione di Simone Weil e giungere a una rifondazione della fede».

Ma, a ben pensarci, la provocazione tocca anche il mondo evangelico e della Riforma. La critica della Weil era soprattutto indirizzata al cattolicesimo, ma ce l’immaginiamo aderire al calvinismo con la sua dottrina della predestinazione, proprio lei che non può concepire Dio altrimenti che come il Padre di tutti gli uomini? E poi siamo sicuri che gli evangelici siano immuni da quell’orgoglio spirituale che li spinge a considerarsi il popolo eletto, così come i cattolici? Che siano immuni dal settarismo persino al loro interno, tra denominazione e denominazione? Spesso sono proprio le dottrine, o l’uso che se ne fa, che non lasciano riconoscere nell’altro un fratello. Io che sono calvinista ho difficoltà a riconoscere in te un predestinato se vieni da un’altra realtà. Io che sono arminiano e sto compiendo un’esperienza di perfezione in questa vita come posso vedere in te un fratello se non compi un’esperienza analoga alla mia? E tu hai ricevuto il battesimo per immersione, da adulto, sia in acqua che in Spirito? No? Allora tu non sei figlio di Dio, come me, sei solo una sua creatura. Non sei mio fratello, perché “i miei fratelli e sorelle sono quelli che hanno fatto il mio stesso cammino indicato da Gesù stesso! Gloria a Dio!”. Basta girare un po’, per i forum, e queste cose si trovano. Come si trova l’intolleranza, la propensione a squalificare “in toto” i tuoi argomenti perché su qualcosa la pensi in modo diverso. Ho ancora presente la risposta che un conduttore di forum ha dato a un ospite che era intervenuto nel dibattito e la riporto in virgolettato perché è significativa: “Ammiro molto il tuo zelo per la ricerca della verità, ma non avresti dovuto riportare le riflessioni di un eretico; il Caio Sempronio è un "modalista"… le sue dottrine della grazia sono spudoratamente arminiane, quindi credo che i suoi insegnamenti non facciano testo. Tira poi in ballo Barth, Schleiermacher e Tillich, che sono dichiaratamente liberali, qui si sta parlando di Teologia Riformata Classica: un altro pianeta!”. Certo non bisogna generalizzare, non tutti la pensano così. Ma questa mentalità esiste, e a me piange il cuore perché anch’io appartengo a quel mondo ma non mi riconosco affatto in quest’atteggiamento. Viva allora Simone Weil che zittisce le chiese-bambine, non importa se cattolica, ortodosse o protestanti, quando sostiene che Dio è Padre di tutti gli uomini, anche dei pagani e degli atei, o quando afferma: "Non c'è il punto di vista cristiano e gli altri, ma la verità e l'errore". E prosegue: "Non: ciò che non è cristiano è falso, ma: tutto ciò che è vero è cristiano". È come se sgridasse le “bambine” con queste parole:

Mentre voi litigate per stabilire chi è la vera chiesa e chi possa essere considerato fratello, proprio per queste vostre vedute particolari, per i paletti che ponete al vostro interno e all’esterno, io non considero nessuna delle vostre la vera chiesa, e rimango fuori, sulla porta, proprio per continuare a considerarvi fratelli e ritenere fratello ogni altro uomo al mondo perché anche di lui Dio è Padre e per lui Cristo è morto, pur sapendo che da voi, per le preclusioni che vi siete costruite, non sarò mai considerata sorella.


La “grossa bestia” intollerante

I cristiani di norma sono tolleranti quando si trovano in condizione di minoranza ed è posta in discussione la loro libertà di culto. Era così anche all’inizio, quando nell’Impero costituivano ancora una realtà minoritaria. “Siano pur false le credenze che noi difendiamo, e a ragione siano ritenute pregiudizi: tuttavia sono necessarie. Sia­no pur inette: ma sono utili. Perciò non è lecito con­dannare senza eccezione, per qualsiasi motivo, creden­ze che giovano”. Scriveva così il cristiano Tertulliano, invocando tolleranza per la propria fede che, invece, appena poté si guardò bene dal mostrare tolleranza nei confronti non solo delle altre fedi ma persino degli “eretici” dissidenti. Tra i pensieri di Hermann Hesse, raccolti nel volume “Religione e Mito”, si trova quest’affermazione: “Amo e venero tutte le religioni del mondo, perché traggono origine dalla facoltà più nobile dell’uomo: la devozione. Tuttavia distinguo le religioni non solo in base al livello spirituale e cultu­rale, ma anche in base alla loro tolleranza. Purtroppo la religione cristiana non è di quelle amichevoli, cle­menti e tolleranti, anzi è di quelle superbe, violente, che vogliono catechizzare e che si credono le sole de­tentrici della salvezza”. I monoteismi in genere tendono ad essere esclusivisti e intolleranti, e lo sono viepiù quando si alleano con il potere. Pensiamo alla fede musulmana che tende per sua stessa natura a non distinguersi dal potere civile. Altro che misericordia così tanto decantata e altrettanto poco praticata. Sono proiezioni: il Pantocrator dei cristiani e l’Allah benigno e misericordioso dei musulmani, altra gente di cultura violenta e oppressiva. Luigi Castaldi ha persino prefigurato un’alleanza tra queste due religioni, pure così ostili tra loro, ma ancor più ostili nei confronti della modernità intesa come pluralismo culturale, relativismo etico, liberaldemocrazia, progresso scientifico, autodeterminazione dell’individuo, ecc. Integralisti cristiani e musulmani nostalgici di un mondo dove la trascendenza innervi “ancora il tessuto di una società nei suoi stipiti tradizionali”. Alleanza questa che inevitabilmente passerebbe “sulla testa di chi crede che non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia senza l’espulsione dal consesso umano del principio autoritativo d’ogni verità rivelata e imposta”. Tale alleanza sarebbe possibile in quanto “molte voci dell’integralismo islamico hanno più volte affermato che il loro nemico in Occidente non è la Chiesa, anzi, ma è proprio tutto quanto la Chiesa indica come nemico. Nemico comune, dunque: la libertà dell’individuo. Cristianesimo e Islam concepiscono l’individuo solo in quanto parte integrata di un tutto, gregge o umma, ben ordinato negli stipiti di controllo (famiglia, e poi tribù o diocesi). Sull’altro versante, gli sforzi di dialogo interconfessionale durante il pontificato di Giovanni Paolo II sono stati enormi. In apparenza, per evitare lo scontro di civiltà. Ma poi nemmeno tanto nascostamente sostenuti nel tentativo di una comune azione contro ciò che è definito “nichilismo” in più di un’enciclica e in molti passi dei pensatori che all’inizio del Novecento ispirarono la nascita dei movimenti di integralismo islamico. Il “nichilismo” per un cattolico tradizionalista e per un wahabita-salafita è la mancanza di un valore assoluto cui tutti debbano piegarsi; la differenza la fa il fatto che nel Califfato, se non si crede, si perde la testa dal collo, mentre la Chiesa, che ha sei secoli di raffinatezza in più rispetto all’Islam, concede che, se non si crede, si possa far finta, come se quel valore assoluto daretur [ci fosse]” (L. Castaldi, Mutua comprensione tra integralismi?, Notizie Radicali,13/03/2006). La Chiesa cioè consentirebbe a chi non crede nei suoi valori di non credere, purché lo faccia con discrezione e uniformi il proprio agire “veluti si Deus daretur” (come se Dio ci fosse); il Dio così come la Chiesa lo interpreta, ovviamente. Francamente, io non credo che si arriverà ad un’alleanza tra cattolici e musulmani. Temo piuttosto un sodalizio tra integralisti cristiani e agnostici opportunisti, quali i cosiddetti “atei devoti”, che precipiti lo stato laico in un regime autoritario di stampo confessionale. Ed è in questo senso che trovo suggestivo il discorso di Castaldi, per l’efficacia che usa nel descrivere la brama irriducibile della fede intollerante volta a estinguere ogni forma di libertà. Da un lato, pertanto, il veluti si Deus daretur di quei cristiani che vorrebbero restaurare lo stato confessionale che impone simboli, scelte etiche e dogmi di una fede religiosa anche a chi non la condivide. Dall’altro l’etsi Deus non daretur (come se Dio non ci fosse), formulato nel ‘600 da Ugo Grozio, a fondamento dello stato laico che edifica il suo diritto al riparo degli artigli della religione. Non v’è spazio per situazioni intermedie: come ha detto qualcuno, non esiste la possibilità di avere uno stato quasi laico, un po’ laico, non tanto confessionale.

E Simone Weil come si pose di fronte a questi due estremi senza spazi di mediazione? Non dobbiamo dimenticare che ella visse in un momento storico in cui spesso questi due estremi si sono toccati. Non solo il comunismo ma anche i vari fascismi sono sorti da una concezione laica dello stato, che in fondo, almeno in parte, è anche sempre stata laicista. Questa separazione del potere civile da quello confessionale è sempre stata ambigua perché in varia misura animata da sentimenti di ostilità nei confronti della religione. Pertanto la laicità dello stato non si è rivelata solo strumento a tutela della libertà dei cittadini ma anche strumento di eradicazione della fede religiosa nella società europea. Questa decadenza dello spirito fu certamente una condizione che ha consentito l’instaurarsi dei regimi totalitari. Le dittature hanno in fondo cavalcato l’insopprimibile bisogno di religiosità presente negli uomini, già distolti dall’attenzione verso il soprannaturale, per indirizzarli verso l’adorazione dello Stato, del Partito, del Capo carismatico, cioè di un ordine che non appartiene al soprannaturale. Svilito lo spirito religioso autentico, i popoli ripiegarono su quella che la Weil definisce l’idolatria dello stato. Il peccato in cui ella vede precipitare il suo secolo è quello dell’idolatria. Nessuno ne è immune: le chiese perché si son fatte regime prostituendosi con il potere e il potere perché ha fatto di sé un surrogato della religione. Talvolta le due realtà si sono escluse a vicenda (nei regimi comunisti), talaltra si sono vicendevolmente strumentalizzate, così come è avvenuto nelle dittature nazionalfasciste. Più sfumata ma comunque presente la connivenza con lo stato liberale. Di conseguenza, la Weil rivolge le sue accuse sia all’umanesimo e al laicismo, che hanno distolto l’attenzione degli uomini dal soprannaturale, sia alla Chiesa che ha mutato nel tempo la propria vocazione. Quali soluzioni vengono prospettate? Ella auspica che il cristianesimo, senza imposizioni e senza forzature, penetri in profondità nel tessuto sociale, in tutte le sue articolazioni, in modo che sia possibile “leggere le verità divine nelle circostanze della vita quotidiana e del lavoro”. Per farsi strumento di tale cambiamento la Chiesa deve rinunciare all’esercizio del totalitarismo e tornare a quello dell’amore soprannaturale.

Il corpo sociale non costituisce per la Weil solo una risorsa per l’individuo ma anche un continuo rischio per la fede in Dio, da lei concepita come “bellezza che nutre”, che invece viene spostata su un dio grande-perché-forte, a cui ci si rivolge per benedire i cannoni. La pensatrice francese paragona la collettività al “grosso animale” dagli umori imprevedibili della Repubblica di Platone. Una bestia che frantuma la personalità degli individui ed ha il potere di apparire a questi come un’entità trascendente e, in qualche modo, divina. Il grosso animale pretende esso stesso adorazione e impedisce agli uomini di elevarsi fino a Dio. Ovunque la società si fa idolo e distoglie da Dio si trasforma nel grosso animale che “ha come fine l’esistenza. ‘Io sono colui che sono’: anche lui lo dice. Gli basta esistere, ma non può né concepire né ammettere che altro esista. È sempre totalitario”. Afferma così nei suoi Quaderni. Ovviamente le dittature, con la loro ossessione nazionalistica e il culto della forza nella sua forma più brutale, lo incarnano pienamente. Ma alle dittature ella paragona pure la Chiesa che “è stata un grosso animale totalitario. Essa ha dato inizio al rimaneggiamento di tutta la storia dell’umanità a fini apologetici” (ibidem). Nella misura in cui dà spazio al suo carattere istituzionale, essa si distacca dalla purezza delle origini e si fa oppressiva. Già Dostoevskij mezzo secolo prima aveva visto nel Grande Inquisitore, metafora della Chiesa, il latore di un progetto volto a unificare con la forza e a incatenare l’umanità; un progetto empio, perché alternativo al disegno divino, e al contempo così banale perché connaturato all’uso che gli uomini han sempre fatto del potere. Partendo da un’approfondita riflessione sull’uomo, egli aveva previsto il sorgere delle dittature come pure l’avvento di una società di massa disumanizzante che definisce “grande formicaio” sociale, in fondo così simile al “grosso animale” della Weil. Diverso dal Leviatano di Hobbes, che rappresenta il potere dello Stato, assoluto ma necessario per fare rispettare il contratto sociale. Qui la forza è usata per proteggere la collettività dall’istinto predatorio presente in ogni uomo, quindi per salvaguardare la vita di relazione. Il “grande formicaio” e il “grosso animale” esercitano invece un’azione disumanizzante nei confronti dei singoli, non sono il luogo della loro realizzazione ma una minaccia alla loro integrità. Giancarlo Gaeta, fine conoscitore del pensiero weiliano, spiega che la collettività si fa nemica dell’individuo esercitando nei suoi confronti un’azione confusiva e inibente: “Tutto si gioca, anche socialmente a livello di individuo, rispetto alla possibilità o meno per l'individuo di svolgere nella società un ruolo cosciente di sé, delle sue possibilità, dei suoi rapporti con gli altri… La società diventa Bestia nel momento in cui impedisce di fatto all'individuo di essere cosciente. Si sostituisce ad esso oppure l'individuo accetta di immergersi all'interno di questa nebulosa. Questo lo priva di fatto della consapevolezza, della libertà e quindi anche della possibilità di pervenire alla coscienza della propria condizione umana. La Bestia è colei che ha la capacità di emettere continui segnali che distraggono l'individuo, il pensiero personale dalla possibilità di entrare in rapporto con se stesso e con gli altri. È la sconfitta della possibilità della relazione” (L’Apocalisse in Simone Weil, Pretioperai, 22/01/1993). Allora è chiaro che il “grosso animale” usa l’immensa forza del Leviatano non per servire la relazione degli individui ma per rapinare questi dei loro diritti essenziali, a cominciare da quello di potersi relazionare in modo consapevole con se stessi e con gli altri, e lo fa evidentemente al fine di autoglorificarsi. Esso è un vero predatore. Ed è significativo il fatto che la Weil lo identifichi con la Bestia dell’Apocalisse, quella assetata di adorazione che, grazie al potere e all’autorità affidatigli dal Maligno, perseguita i giusti, inganna gli abitanti della terra, persegue un progetto unificante (inteso come annessione e uniformazione) e rende schiavi i suoi sudditi condizionando le loro menti e le loro attività, ed escludendo dal contratto sociale chi vuol conservare la propria autonomia di pensiero e la propria integrità. Il fatto è, come abbiamo visto, che pure la Chiesa nella riflessione weiliana è coinvolta in questo gioco di potere, riassunto nel “grosso animale”. Vito Mancuso, il teologo cattolico così sintonizzato con l’ideale di libertà e di autonomia di pensiero della Weil, afferma in proposito: “L’aspetto negativo è quello che identifica la Chiesa come maestra ultima del pensiero. Mater et magistra del pensiero dei singoli cristiani. Ignazio di Loyola affermava che, per essere dei buoni figli della Chiesa, bisogna comportarci affermando che è nero ciò che la Chiesa dice essere nero, anche se noi lo vediamo bianco. Ciò suppone l’idea di una Chiesa come maestra definitiva della coscienza. Penso che questa modalità di interpretare il rapporto tra il singolo e la Chiesa sia finito. Non adesso, ma almeno 400 anni fa. La modernità segna l’emancipazione della coscienza, che non è qualcosa di negativo, ma qualcosa che arricchisce. Mai come in questo periodo storico, l’umanità ha goduto di un sistema socio-politico così evoluto, dove il valore dell’individuo è percepito da società e diritto come inalienabile. È il frutto dell’emancipazione della coscienza. L’individuo vale più del sistema di riferimento. Un processo al quale la Chiesa si è, peraltro, sempre opposta, anche se oggi non è più così. C’è una considerazione di Simone Weil molto significativa. Lei era una donna che, provenendo da una formazione atea, era giunta alle più alte tensioni spirituali e mistiche. Ebbene, questa donna si è rifiutata di accettare il battesimo. Perché? Per paura della Chiesa. «Se io aderisco alla Chiesa cattolica non sono più libera». Aveva il timore che sarebbe entrata a far parte di un organismo sociale che avrebbe compresso la sua libertà spirituale. Tutte le volte che diciamo “noi”, paghiamo un tributo al “grosso animale”, quello del libro VI della Repubblica di Platone, che attrae con forza le masse, quelle che hanno bisogno di essere governate. La Chiesa rappresenta spesso — secondo Simone Weil — questa situazione. Io non sposo questa tesi. Ma l’esperienza di Simone Weil è paradigmatica ed è il sintomo di una situazione che molti contemporanei vivono. Rifiutano la fede perché rifiutano la Chiesa. Riguardo a questo aspetto della Chiesa ritengo che la coscienza personale non debba asservirsi al “noi” ecclesiale. Non debba accettare nulla che non sia sentito come profondamente vero” (Intervista a Vito Mancuso, Vita Nuova, 31/01/2008). Non so fino a che punto sia condivisibile l’ottimismo di Mancuso sul fatto che “oggi non è più così”. Il problema è strutturale e riguarda il rapporto con il potere che, una volta conquistato, l’esperienza insegna, non lo si lascia più. Riporto a proposito lo stralcio di un articolo di Maurizio Lucenti, scritto nei giorni in cui Don Vitaliano Della Sala era stato sospeso a divinis, perché coglie il nocciolo del problema: “Il Potere. Eccola la parolina magica. Se un’istituzione si basa sul potere temporale non può dirsi cristiana. Nel vangelo la scomunica del potere, di quel potere che poi manda a morte il Cristo, come prima aveva fatto coi profeti e poi farà coi martiri, è chiara e senza appello. Potere e Amore sono in antitesi. Allora di quale chiesa parliamo? Parliamo della chiesa di Sodano, quella che anche Simone Weil definiva "un grosso animale"? O parliamo della Chiesa di Cristo, quella che Andrè Frossard, un altro convertito a me particolarmente caro, rimpiangeva ("La carità è Dio e tutto ciò che è carità appartiene alla Chiesa. Io non voglio che se ne faccia un partito. Forse sarebbe dovuta restare quella che era all’inizio: un’assemblea fraterna senza gerarchia. Oggi temo che sia diventata un’istituzione che si contempla mentre è Dio che bisogna contemplare")? Don Vita, essere estromesso dalla prima forse è un dono di Dio, non una punizione. Forse solo uscendo dalla chiesa di Sodano si può entrare nella Chiesa di Cristo. Ricorda: "nessun servo può servire due padroni". O servi Mammona o servi Cristo. Chi si inginocchia al Potere tradisce la Parola di Cristo che ci vuole fratelli perché "uno solo è il Padre vostro che sta nei cieli, uno solo è il Maestro, il Dottore: il Cristo". Se Cristo si fosse inginocchiato non sarebbe stato crocefisso. Dunque non temere Don Vita: solo Cristo potrebbe estrometterti dalla sua Chiesa. Non c’è gerarchia nell’amore. Perché non esiste la misura dell’eternità” (M. Lucenti, C’è Chiesa e chiesa, Il Dialogo, 24/03/2002) .


Conclusioni
Forse ha ragione chi afferma che Simone Weil non si sarebbe mai potuta convertire al cattolicesimo, per una serie di ragioni legate al proprio percorso di vita e culturale, a prescindere dal fatto che la Chiesa sia o non sia un’agenzia di libertà. Non si può tuttavia portare quest’impedimento a pretesto per dubitare dell’onestà del suo pensiero o mettere in dubbio la realtà della sua conversione perché testimonia per lei la sua stessa vita. D’altronde non è necessario condividerne a fondo la teologia per ritrovarsi nel suo anelito di libertà. Almeno così dovrebbe essere per tutti coloro che con lei scorgono nell’intelligenza un dono “specificamente e rigorosamente individuale”, e nel suo esercizio un dovere non delegabile a singoli uomini o istituzioni in quanto “la funzione propria dell'intelligenza esige una libertà totale, che implica il diritto di negare tutto, e l'assenza di ogni forma di predominio”. Libertà totale, poiché la salvezza e il giudizio sono un fatto individuale. La Weil non considerava ciarpame le altre tradizioni religiose perché era convinta che lo Spirito di Dio abbia ispirato pensieri profondi ai mistici sinceri di tutte le fedi. Non era neppure contraria alla diffusione della fede cristiana, purché lo si faccia con il dovuto tatto. "Credo - affermava nella Lettera a un religioso - che per un uomo cambiare religione sia altrettanto pericoloso che per uno scrittore cambiare lingua. La cosa può avere successo, ma può anche avere conseguenze funeste". Deplorava il fatto che la religione si fosse ridotta ad una faccenda privata al punto da occupare una dimensione modesta nella vita individuale e di quella pubblica a cominciare dalle attività economiche. Prioritaria era per lei la necessità che si edificasse una spiritualità del lavoro. Temeva l’impostazione laicista della cultura, sin dai banchi di scuola, e la riduzione della religione ad una serie di convenzioni, com’era avvenuto tra la classe borghese e come stava per avvenire, con conseguenze ancora più funeste, tra i contadini e gli operai, sradicati dai loro ambienti e distolti verso valori materiali. Era convinta che mai come nel suo tempo la vita delle anime fosse in pericolo e che solo il cristianesimo potesse offrire l’ancora di salvezza a condizione, però, che rinunciasse all’uso della forza e tornasse alla dimensione dell’amore soprannaturale. Questo era il punto: la diffusione dell’Evangelo non poteva attuarsi con lo spirito e gli strumenti di una Chiesa connivente con il potere, convinta di possedere l’unica verità da imporre al resto dell’umanità, giudicata incapace di attingerla autonomamente. La verità s’impone da sé, e ogni “incoraggiamento” che coarta le coscienze è controproducente perché genera le distorsioni cui è andata incontro la civiltà occidentale. A cominciare dall’idolatria: “Siamo realmente malati di idolatria; una malattia così profonda che toglie ai cristiani la capacità di testimoniare per la verità”. Il “totalitarismo della fede” mette il bavaglio all’intelligenza ed attenta alla libertà individuale che è condizione essenziale per le scelte esistenziali. D’altra parte la Weil era consapevole che la perfetta libertà è un’ideale irraggiungibile in questo mondo, ove tutto il bene è imperfetto e dove l’individuo è condizionato dallo stato di necessità e quindi dai vincoli che la società gl’impone. “Lo sforzo di affermare la libertà di pensiero si compie all'interno di una macchina sociale in cui sembra perdersi il senso del vivere. La libertà viene concepita come un ideale regolativo, cioè un obiettivo a cui aspiriamo senza poterlo mai raggiungere: proprio come le "idee" kantiane. Ciò non vuol dire che sia inefficace, perché, a differenza dei sogni, gli ideali orientano e muovono uomini e donne, li impegnano a cambiare lo stato delle cose, rendendo meno imperfetta la società” (Antonino Magnanimo). Persino il diritto alla libertà, però, può essere rivendicato solo se si riconosce anche l’obbligo di rispettarlo: la Weil cioè afferma il primato del dovere sui diritti. La sua è un’etica della responsabilità. L’affermazione del diritto alla libertà è costata molto cara a Dio. Quindi per la creatura morale l’esercizio della libertà oltre che un dono è pure una responsabilità, un compito a favore della vita. La stessa escatologia non può prescindere dall’uso che si fa di questo dono. Massimo Cacciari coglie bene questo punto: “…sulla base del testo paolino della lettera ai Romani 8,19, l'attesa dell'apocalisse non del Figlio che è avvenuta, ma dei figli. Qui il discorso di Simone Weil si carica davvero della sua massima tensione tragico-escatologica. Direi appunto che il pensiero della Weil ha una curvatura tragica qui, più che pessimistica, più che disperata: cioè siamo davvero noi gli eredi, tutto è stato davvero posto nelle nostre mani; siamo totalmente responsabili dell'apocalisse nostra, l'apocalisse dei figli. È questa l'apocalisse che tutto il creato attende e qui vi sono le domande più drammatiche di Simone Weil, in perfetta linea con le domande più drammatiche del testo evangelico. Cosa avverrà se perderanno fede e libertà? Perché non avete fede? Troverà ancora fede il Figlio nella dimensione della sua parusia; cioè di fronte al Figlio avranno ancora fede, cioè vita, i figli?” (L’Apocalisse in Simone Weil, cit.). Il cristiano è cioè invitato a guardare alle cose ultime non con spirito di resa ma con senso di responsabilità per far buon uso della propria libertà. Ancora oggi bisogna fare i conti con il percorso speculativo di Simone Weil.


Attualizzazioni
Alla fine di questo breve excursus sul primato della libertà nel pensiero di Simone Weil, mi vengono in mente due considerazioni che vorrei esprimere a margine perché ritengo utile collegare il più possibile un bel pensiero alla realtà del nostro tempo. Riteniamole una sorta di ampliamento della sezione “La Provocazione” che è già essa un’attualizzazione. Per farlo mi avvarrò di due riflessioni che condivido pienamente nel loro contenuto, reperibili in rete e a cui rinvio per il testo completo.

La prima considerazione riguarda la laicità delle istituzioni civili, che vanno garantite per consentire a tutti i cittadini di vivere liberamente e serenamente la propria dimensione religiosa, qualunque essa sia o non sia, nel rispetto chiaramente delle comuni regole di convivenza civile. Degenerazione dello Stato laico, che si pone neutralmente al di sopra delle fedi, è lo Stato laicista che può assumere varie sfumature, dall’ateismo dichiarato a quello dissimulato, e che di fatto o di diritto scoraggia l’espressione di ogni fede religiosa. All’altro estremo abbiamo lo Stato confessionale che assume come ufficiale una precisa fede religiosa e rende difficile la vita a tutte le altre. Come spunto di riflessione su questo tema trovo utile richiamare il contenuto dell’intervento pronunciato dal teologo valdese Daniele Garrone lo scorso 28 agosto presso il Parlamento Europeo, nell’ambito del convegno “Secularism and Religions”. L’intervento dal titolo “Religioni, laicità e modernità: un punto di vista protestante italiano”, si articola in quattro punti.

Nel primo punto, Garrone osserva come fino a pochi decenni fa sembrava irreversibile il processo di secolarizzazione del nostro pianeta e come oggi, inaspettatamente, si assiste ad una rinascita del fenomeno religioso, che in alcune realtà si radicalizza fino all’eccesso della violenza sanguinaria, e che in occidente assume la forma “di una sostanziale messa in questione della laicità, della separazione tra stato e chiesa, soprattutto con la richiesta ‘di trasformare in ragioni pubbliche tesi confessionali’ (G. E. Rusconi)”. Questo movimento pone in discussione la stessa legittimità, così faticosamente acquisita, dello Stato laico e trova il pieno consenso “dell’attuale pontefice romano, secondo il quale tutto si è guastato dopo Bacone, Lutero e Kant, lasciando il posto alla dittatura del relativismo, ad una laicità sinonimo di ateismo intollerante ed estromettendo Dio dalla sfera pubblica”.

Nel secondo punto, Garrone paventa i rischi di certo dialogo inter-religioso volto a far fronte comune contro la modernità, che garantisce il pluralismo, al fine di ripristinare il principio autoritativo delle rispettive verità rivelate. Questo tipo di dialogo tende a coalizzarsi su temi specifici per un impegno comune a favore della “vita”, della “famiglia” (nelle loro interpretazioni particolari), “per la rivendicazione pubblica dello spazio che compete a Dio (così Benedetto XVI ad Ankara)”, ecc. Al contempo questa spinta identitaria antimoderna tende a togliere spazio al pluralismo interno alle singole confessioni “facendo diventare certezza ciò che era oggetto di ricerca e aperto ad opzioni anche diverse che non mettevano però in questione il senso di una appartenenza comune. Ora si tende alla logica del dentro/fuori”.

Nel terzo punto, il teologo valdese sottolinea la fragilità del nostro Paese che non ha conosciuto, come gli stati europei più evoluti, il pluralismo confessionale ma ha subito la vittoria schiacciante della controriforma. Per cui la riscossa clericale si confronta con una laicità “asfittica”, incapace di contrastare le richieste delle gerarchie cattoliche che “diffondono l'idea che prevalga nel paese la volontà di emarginare i cattolici” quando in realtà incassano quotidiani successi. La prospettiva è purtroppo sconfortante, non tanto per le continue ingerenze dei chierici, quanto per la mancanza di cultura dei nostri politici (avendo l’Italia perso Lutero e Kant) e quindi di postura “per gestire da adulti l’autonomia della politica”.

Nel quarto ed ultimo punto, Daniele Garrone spiega le ragioni per cui gli evangelici italiani sostengono tutte le battaglie per i diritti e per la laicità. E le trova nel loro modo di intendere la fede cristiana. La testimonianza di questa fede “è inequivoca solo quando è priva di presupposti, necessità, tutele, privilegi. L’unico ‘spazio per Dio’ nel mondo che ci interessa è quello della libera risposta della fede, con le scelte che ne conseguono, non quello di un’etica supposta valida e vincolante per tutti. Tutto il resto fa del cristianesimo civiltà, non fede”. Sebbene il papa esorti tutti, prescindendo dalle loro convinzioni, a vivere “come se Dio fosse dato”, lo stesso modo in cui Dio si è rivelato in Cristo dovrebbe in realtà suggerire “che la vita veluti si Deus daretur è quella che nasce dalla conversione personale (vieni e seguimi) e dalla risposta individuale della fede e non dal riconoscimento pubblico di valori disgiunti dalla fede”. Anche se la fede implica dei non possumus (non possiamo altrimenti) la loro forma legittima è la testimonianza personale, così come negli esempi biblici; essi “non pretendono un riconoscimento preventivo e statutario sulla agorà in cui si esercitano, ma si esprimono invece proprio come parola rischiosa nel novero delle opinioni. Penso cioè – conclude Garrone – che la teologia cristiana, proprio a partire dal centro della sua confessione di fede, la cristologia e la teologia della croce, dovrebbe rivendicare la laicità, la neutralità religiosa della sfera pubblica, il separatismo, in vista di una testimonianza autentica perché non legata ad alcun vincolo imposto ad alcuno né ad alcun privilegio. Nella nostra comprensione, proprio Cristo come rivelazione di Dio e come unica mediazione implica la laicità della piazza su cui il suo nome è annunciato e l’esclusione di ogni mediazione e tutela clericale”.

La seconda considerazione riguarda le divisioni nel mondo cristiano. Non mi riferisco solo ai due grandi scismi storici pur nell’ambito del solo cristianesimo trinitario (Chiesa latina da quelle orientali e il Protestantesimo dalla Chiesa di Roma); ma anche all’immensa galassia in cui è polverizzato l’universo della Riforma. La prima impressione, osservando questa divisione tra comunità che si richiamano allo stesso Signore, è quella dello sconcerto, anche dell’indignazione. “Sembra proprio che non ci sia alternativa: o il blocco politico-economico-istituzionale dello strapotere cattolico-romano, o l’infinita frammentazione e l’esasperato individualismo del mondo protestante-evangelico, che ha di fatto tradito il grande principio di partenza (Sola Scriptura) per inventarsi centinaia di tipi di presunto cristianesimo che con la Scrittura, per molti aspetti hanno ben poco a che fare”. È il grido d’angoscia emesso dalla Chiesa di Cristo di Udine, che quindi suggerisce la seguente soluzione: “Dobbiamo reagire e riscoprire e riproporre nella pratica la sola e vera Chiesa di Cristo, quella del Nuovo Testamento. La ribellione, la sete di potere, il tradizionalismo e/o l’approssimazione alle quali tendiamo tutti come uomini peccatori deve lasciare il posto all’obbedienza nei confronti della Parola di Dio, parlando dove la Bibbia parla e tacendo ove essa tace. Nonostante tutto, è ancora possibile, oggi, dare vita a una realtà che conservi la semplicità e al tempo stesso la serietà, la coerenza e l’unicità del messaggio del Vangelo, per evitare di illudersi di essere uniti nella diversità di credi, ricercando invece la vera unità possibile nella verità di Dio. Non si deve trovare "unità nella diversità", bensì unità nell’unica Verità (cfr. Efesini 4:4-6). L’ecumenismo non giova a nulla, se non a una pur auspicabile forma di tolleranza; ma non aiuta a trovare il vero rapporto con Dio. Ogni confessione deve spogliarsi da tutte le proprie tradizioni, teologie e incrostazioni storiche, per rivolgersi solo al vangelo. Questa è l’unica medicina divina”. Parole condivisibili. Chi è però l’interprete infallibile della Parola di Dio? Il Magistero Pietrino, quello dei culti della Madonna e dei santi, delle immagini e delle statue, del sacrificio della messa, del purgatorio e delle pene eterne? Insegna questo la Parola di Dio? O c’è una chiesa evangelica che ha a sua volta il monopolio della corretta interpretazione? Perché a sentirle, ognuna di loro possiede la “verità”! E se questa sicurezza non c’è quale unità vogliamo quella imposta dal più forte, quella della “normalizzazione” forzata condotta per secoli a partire dai decreti di Teodosio? Vorremmo davvero che il “grosso animale” ecclesiastico imponesse ancor oggi i suoi dogmi a forza di roghi, squartamenti, annegamenti ed altri consimili atti di carità cristiana? Allora sorge un dubbio: e se queste divisioni paradossalmente fossero volute da Dio come il minore dei mali? Ricordiamo l’episodio del profeta Semaia, inviato a fermare Roboamo in procinto di riconquistare i territori secessionisti d’Israele? Qual era il messaggio? “Così dice il Signore: Non andate a far guerra agli Israeliti, vostri fratelli. Ognuno se ne torni a casa sua, perché HO VOLUTO IO QUESTA SITUAZIONE” (1 Re 12:24). Partendo da questa lettura del fenomeno, quella della divisione come male minore, il pastore riformato Paolo Castellina offre un contributo alla riflessione con un bell’articolo dal titolo: “La molteplicità delle chiese: i valori del pluralismo e della libertà”.

Castellina parte proprio da questa sorta di confronto surreale ove ogni denominazione protestante dichiara il proprio sistema dottrinale essere “la verità” in quanto basato sulla Parola e ispirato dallo Spirito Santo. Qualcosa evidentemente non quadra, soprattutto se il fenomeno lo si osserva dalla prospettiva dei cattolici i quali vi scorgono la prova di cosa può accadere quando si disconosce il Magistero della Chiesa. Ma la monoliticità non appartiene neppure al mondo cattolico che al suo interno è molto più differenziato di quel che in apparenza possa credersi, composto com’è “da un numero enorme di congregazioni, tendenze e linee diverse”. C’è anche tanto dissenso tenuto a bada con molta fatica dalle gerarchie, con l’unica alternativa per i dissidenti di nascondere le proprie idee o d’incorrere in sanzioni, non si sa poi quanto efficaci. Qui sine peccato est

Se però questa realtà la si osserva da una prospettiva protestante, “è possibile averne un’immagine senz’altro più serena e meno ossessionata dall’idea di unità a tutti i costi”. L’unità rimane comunque un valore verso cui puntare, con il dialogo e il confronto però, non certo da imporre. Anche la libertà infatti è un valore fondamentale, cosa che soprattutto nel mondo cattolico si tende a sottovalutare. “Il pluralismo delle espressioni della fede cristiana, è un valore altrettanto importante dell’unità”. Senza riflessione autonoma e serena molte verità non sarebbero emerse, aggiungo io, e l’unità non si può certo perseguire disconoscendo tali verità. L’unità della fede che piace a Dio è quella che si compie verso la luce e non verso le tenebre. E per far ciò tutti i dialoganti devono avere l’umiltà di dichiararsi fallibili anche nei propri sistemi dottrinali.

A questo punto dell’analisi, Castellina paragona l’unità tra i fratelli al matrimonio. L’ideale è che la comunione degli sposi duri “vita natural durante”, ed a questo è giusto tendere, “ma in alcuni casi può essere giustificata e persino consigliata la separazione”. I principi sono importanti ma bisogna tener conto del dato di realtà vincolato alla fragilità della condizione umana. Persino la legge mosaica, così formalista, dovette prendere atto dei limiti umani introducendo l’istituto del ripudio. Non si può costringere la gente a stare insieme per forza, siano essi gli sposi, siano essi i fratelli in fede. “In ogni caso, anche la separazione va sdrammatizzata e può essere vissuta responsabilmente”.

Senza voler rinunciare ai principi fondamentali dell’Evangelo e all’ideale di unità, il pluralismo è un valore auspicabile e irrinunciabile. È sempre stato così nella Chiesa. Anche ai giorni degli apostoli, le comunità risentivano della cultura locale, dell’origine dei membri, della sensibilità del loro fondatore. Tutti erano testimoni di Cristo ma gli esprimevano la loro fedeltà, dall’organizzazione alla liturgia, in modalità differenti. E così è stato anche in seguito: “Le comunità cristiane delle isole britanniche erano diverse da quelle del Medio Oriente, del Nord Africa o della Spagna. È stata la Chiesa di Roma che gradualmente ha imposto forzatamente la propria autorità ed uniformità, e non senza forti resistenze”. Il pluralismo all’interno della cornice protestante pertanto non è un fatto nuovo e neppure negativo in sé. Ogni denominazione ha la sua storia e la sua ragion d’essere. Alcune “chiese sono sorte come protesta locale contro il Cattolicesimo, ritenuto oggettivamente irriformabile. Altre sono sorte attorno all’opera, predicazione, insegnamento, influenza di un particolare leader o riformatore, e del quale hanno assunto il nome. Altre sono sorte quando un gruppo di cristiani ha riscoperto un particolare aspetto o principio della dottrina cristiana che era stato trascurato e che non riusciva adeguatamente a vivere nella propria realtà di partenza. Altre sono sorte dopo un risveglio spirituale rispetto ad una chiesa sclerotizzata in un insopportabile tradizionalismo e nel vuoto formalismo. Altre ancora come liberazione da un leader religioso autoritario e dittatoriale. Sono i vantaggi (irrinunciabili) e gli svantaggi (spesso inevitabili) della libertà, valore importante quanto l’unità e il pluralismo… Perché mai si dovrebbe essere scandalizzati dalle differenze? Tutto questo può essere vissuto come un valore che arricchisce. Perché la piatta uniformità dovrebbe essere desiderabile?” I modelli ispirati ad un unitarismo radicale hanno sempre prodotto dittature.

Non è il pluralismo che inibisce il dialogo e la crescita del cristianesimo; è semmai l’esclusivismo delle sette e delle chiese settarie, che si ritengono le uniche depositarie della verità, le uniche ispirate dallo Spirito Santo, e pertanto, aggiungerei, si pongono fuori da ogni possibile onesto dialogo, o isolandosi o mirando ad annettere gli interlocutori, considerati tutti nell’errore. “Questo non è lo spirito delle chiese autenticamente evangeliche. Lo spirito evangelico è ispirato alla tolleranza, al rispetto degli altri, ed alla paziente ricerca di dialogo e cooperazione con gli altri. Il denominazionalismo stesso può essere un valore positivo: nessuna denominazione fu concepita come “la chiesa” per eccellenza, ma piuttosto come un ramo particolare della chiesa”.

Nella misura in cui i cristiani interagiscono tra loro, le differenze possono essere considerate una ricchezza, perché “nessun raggruppamento cristiano può dire di avere una comprensione piena della verità, e quindi la vera Chiesa non è mai rappresentata in alcuna singola denominazione”. La separazione delle comunità cristiane per ragioni di coscienza non le rende scismatiche; anche se le diversità in qualche modo dividono, quando si è uniti a Cristo, si appartiene alla stessa religione. A dispetto delle differenze teologiche, in ogni chiesa vi sono autentici cristiani rigenerati dalla Spirito Santo. “Certo, sarebbe bello – osservava Jeremiah Burroughs – che fossimo d’accordo negli stessi mezzi e nel nostro modo di opporci al nemico. Sarebbe la nostra forza. Questo però non lo possiamo attendere in questo mondo”.

Che aggiungere alla riflessione di Paolo Castellina? Che purtroppo il settarismo e l’intolleranza allignano anche all’interno delle chiese che settarie non si ritengono. Ogni comunità locale fa testo a sé. Ci son quelle più abituate al dialogo ecumenico, che considerano e chiamano “fratelli” anche i cristiani che appartengono ad altre denominazioni, ma ci son quelle che non nascondono la propria diffidenza, quando non proprio ostilità, nei confronti degli “estranei”. Probabilmente i pastori dovrebbero fare di più per aiutare le loro comunità a non sentirsi “la Chiesa” quanto piuttosto “un ramo particolare della Chiesa”. Un’altra osservazione che mi sentirei di fare è quella di vedere nel pluralismo anche un modo per raggiungere particolari sensibilità e culture di un’umanità fortemente articolata. Aderire ad una denominazione piuttosto che ad un’altra può anche essere un fatto di affinità, di compatibilità culturale o caratteriale. Viene da pensare che se certe chiese non ci fossero, alcuni non si convertirebbero a Cristo o resterebbero ai margini della cristianità organizzata. L’ultima considerazione riguarda l’evoluzione di questo pluralismo. Come avviene sempre, l’uomo finisce per fare cattivo uso della libertà che gli viene concessa. Le divisioni sono un male minore ma sono comunque un male. L’esasperata frammentazione, più che al desiderio di libertà è spesso da ascriversi ad un accentuato individualismo di certi leader carismatici che trasmettono settarismo e intolleranza al loro gruppo. E allora mi chiedo: con questo spirito, che è lo spirito anche delle grandi chiese settarie, quelle che posseggono il monopolio della salvezza, verso che tipo di unità potrà ritrovarsi la cristianità? Probabilmente non un’unità in Cristo, ma un’unità contro qualcosa o contro qualcuno. Come dire un’unità intollerante e persecutoria, antilibertaria. Lo vediamo già adesso in queste alleanze tra fondamentalismi cristiani che si coagulano attorno a grandi battaglie tematiche di sapore oscurantista. E allora l’identificazione che Simone Weil ha fatto tra il “grosso animale” e la Bestia dell’Apocalisse, or sono 66 anni, assume anche un sapore profetico.