sabato 22 marzo 2008

Il caro petrolio: un’opportunità?

Repubblica nello scorso novembre ha pubblicato un’intervista a Giovanni Silvestrini, direttore del Kyoto Club, che ritengo uno spunto interessante di riflessione. In quei giorni si parlava molto della corsa al rincaro del petrolio che era lì per sfiorare i 100 dollari al barile: una soglia psicologica che nessuno pensava di veder raggiungere. Si diceva: sì, è vero, i petrolieri sono degli squali senza scrupoli che non si fermerebbero di fronte a nessun ostacolo d’ordine etico pur di far soldi; tuttavia non conviene neppure a loro tirare troppo sul prezzo del petrolio perché già a 50 dollari esso consente ad altre fonti energetiche, quali il carbone, di tornare ad essere competitive. I paesi produttori di petrolio, analogamente alle compagnie petrolifere, conoscono bene questo rischio: si diceva. Altri analisti affermavano invece che produttori e petrolieri hanno in mente ben altra soglia e da tempo manovrano perché il prezzo del greggio monti verso i 150 dollari: perché, si diceva, solo oltre quella soglia l’economia dei paesi industrializzati rischierebbe la depressione con conseguente crollo della domanda di petrolio. Ma la sensazione, oggi più che mai, è che tutte queste congetture siano infondate e che agli speculatori interessi solo il profitto immediato e null’altro. Ed è naturale, pertanto, quando andiamo a far benzina, o quando riceviamo la bolletta del gas o della luce, provare un senso d’ansia e di preoccupazione.

Ecco allora trovarci l’intervista di Silvestrini a tirarci su il morale. Il rincaro del petrolio – egli afferma – è certo un disagio per i nostri portafogli e per le economie dei paesi importatori; ma non è ancora causa di crisi perché ci stiamo arrivando con gradualità e abbiamo avuto il tempo di prepararci. I problemi si presenteranno quando il greggio supererà i 150 dollari il barile, ma non è ancora il momento; anche se quella soglia sarà sicuramente raggiunta e superata a causa della sete energetica di Cina e India e del raggiungimento del picco di estrazione. Nel frattempo ci troviamo di fronte ad una irripetibile opportunità per incentivare le pratiche di risparmio ed efficienza energetica e per ricercare nuove fonti energetiche, si spera rinnovabili. Un’occasione quindi pure a favore dell’ambiente.

In teoria il pensiero di Silvestrini non fa una grinza e, almeno sul versante del risparmio energetico, vediamo pure che è corroborato da qualche dato incoraggiante. Pensiamo all’intero sistema d’illuminazione ove le inefficienti lampade a incandescenza presto non potranno neppure essere vendute, o agli elettrodomestici a basso consumo la cui vendita, grazie anche agli incentivi, è passata in pochi anni da una quota marginale al 75% del totale.

Le perplessità giungono, invece, dal versante della ricerca di nuove fonti energetiche rinnovabili e pulite. Qui davvero vediamo troppo poco, non solo per quel che è stato fatto ma pure per quel che si programma di fare. Il quadro italiano, poi, è davvero desolante. D’altra parte cosa ci si può aspettare da una pubblica amministrazione che ci ha resi lo zimbello del mondo per la gestione dei rifiuti campani? L’efficiente Germania ci ha abbondantemente superato nell’installazione dei pannelli solari: noi, il paese del sole! Persino la Spagna ha dimostrato più lungimiranza, accogliendo Carlo Rubbia che noi avevamo cacciato mentre lavorava al suo progetto di centrale solare termodinamica. Questo significa per noi non solo essere più dipendenti di altri da fonti energetiche costose e inquinanti, ma anche dover acquistare all’estero le tecnologie se e quando decidessimo di passare alle fonti rinnovabili.

Ma anche senza soffermarci sulla mortificante condizione italiana, non è che la situazione generale brilli per lungimiranza! In Europa, oltre a quanto detto, abbiamo il Portogallo e la Gran Bretagna che hanno avviato progetti per lo sfruttamento del moto ondoso e la Danimarca che da tempo si cimenta nell’eolico, ma siamo ancora a percentuali di una cifra nella produzione globale di energia. Nulla, inoltre, è stato fatto nel campo dei trasporti dove la dipendenza dal petrolio raggiunge il 90% del totale; ad esempio affinando la tecnologia d’estrazione dell’idrogeno – il combustibile pulito del futuro – dalla comunissima acqua.

Ciò che semmai sta accadendo è il ritorno all’uso del carbone. Dal 2000 ad oggi il suo prezzo è raddoppiato e ne ha reso nuovamente conveniente l’estrazione. In Inghilterra stanno riaprendo miniere chiuse dai tempi della Thatcher o addirittura dalla seconda guerra mondiale. È prevalentemente destinato alle centrali elettriche delle stesse nazioni ove si estrae perché è ancora costoso da trasportare e ancora più costoso da liquefare ma, con gli opportuni investimenti, all’inconveniente si potrà porre rimedio. Questo ritorno era prevedibile, anche perché il carbone rappresenta la fonte d’energia più abbondante dopo il sole e il suo esaurimento, anche nella peggiore delle ipotesi, non riguarderà questo secolo.

L’esaurimento del petrolio invece riguarderà il nostro secolo. La maggior parte delle analisi fa cadere il cosiddetto “picco di Hubbert” (punto di produzione massima, superato il quale la produzione può solo diminuire) non oltre il 2020. La teoria di Olduvai, formulata dall’ingegnere petrolifero Richard C. Duncan, lega l’esistenza della civiltà industriale al periodo in cui la “curva di Hubbert” è in fase crescente e quindi il suo tramonto alla fase decrescente di tale curva, e precisamente lo pone tra il 2008 e il 2030, periodo che egli chiama “precipizio di Olduvai”. Queste teorie hanno molti estimatori ma anche qualche critico perché, pur concedendo l’esattezza delle stime delle riserve mondiali di petrolio su cui si basano i calcoli, non terrebbero conto dei nuovi metodi per produrre energia.

Ma il punto è proprio questo: cosa stiamo facendo per emanciparci dalle fonti attuali d’energia ormai in esaurimento? Quanto impegno abbiamo profuso nello sviluppo e nel perfezionamento di nuove tecniche non solo per produrre energia, possibilmente pulita, ma anche per riconvertire tutti i processi di produzione delle industrie attualmente legate al petrolio? Parliamo di uno sforzo immenso ma possibile se programmato per tempo, disperato se tentato all’ultimo momento, in fase di grave carenza energetica, e di crisi economica, sociale e politica. Allora ci troveremmo in un vero e proprio collo di bottiglia per le nostre società. Se poi pensiamo che l’area del pianeta in cui il picco estrattivo sarà raggiunto più tardi è quella mediorientale, in quel periodo le nazioni si troveranno a dipendere dall’area politicamente più instabile del pianeta. Bella prospettiva davvero.


Se, come afferma Silvestrini, ci troviamo di fronte ad una irripetibile opportunità: in che modo ce la stiamo giocando? Tornando a estrarre carbone? A parte il fatto che anche la sostituzione del carbone al petrolio richiede uno sforzo lungo e articolato che per la struttura delle nostre società complesse e interdipendenti non potrebbe che effettuarsi con lentezza. Ma proprio il carbone, grazie alla sua abbondanza e relativa economicità, rischia di accentuare l’inerzia che frena lo sviluppo delle energie rinnovabili. Quel carbone che bruciando si trasforma interamente in biossido di carbonio e che se divenisse la fonte primaria d’energia inietterebbe nell’atmosfera tanto di quel gas serra da concretizzare i peggiori scenari prefigurati dai climatologi più pessimisti! Da qui la necessità di dare la priorità allo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, anche se economicamente meno convenienti, se davvero vogliamo dare un’ultima chance al nostro pianeta.


Per approfondire: Clima e morale

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martedì 18 marzo 2008

Guerra e fattori climatici

I ricercatori del Georgia Institute of Technology in un loro recente studio hanno dimostrato che v’è una connessione tra i cambiamenti climatici e l’insorgere di conflitti bellici. Assumendo come periodo d’osservazione gli ultimi 500 anni, essi hanno preso in considerazione alcune variabili oggettive quali il prezzo del cibo, il livello della popolazione, i dati sul clima e, ovviamente, il numero dei conflitti. Come s’attendevano, hanno trovato una relazione diretta e consequenziale tra i dati confrontati. Infatti questi confermano che i cambiamenti climatici causano una riduzione del raccolto e un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari. La minore disponibilità di cibo accentua le disuguaglianze tra ceti e popoli e genera fame. E la fame a sua volta porta a tensioni sociali che facilmente sfociano in conflitti violenti. Quindi la crisi climatica e la carestia si rivelerebbero causa, oltre che diretta, anche indiretta di morte. Nel periodo preso in considerazione, l’aumento di conflittualità si verificava con l’irrigidimento del clima; ma i ricercatori suppongono che conseguenze analoghe si producano con il surriscaldamento climatico. Infatti anche la siccità – che segue all’innalzamento delle temperature – provoca la riduzione delle risorse naturali e spinge all’uso della violenza per impadronirsene.

Sebbene si tenda a non porre attenzione al nesso che lega la storia dei conflitti umani con il clima, non sono mancate le riflessioni in tal senso. C’è persino chi s’è presa la briga di risalire indietro fino alla preistoria del primo neolitico che fu un periodo di sommovimento climatico prima ancora che culturale (gli agricoltori che si sostituirono ai cacciatori/raccoglitori). Ma è già interessante fare collegamenti con le testimonianze documentabili in età storica. Pensiamo alle crisi avvenute nell’età del bronzo. Nel 1948 l’archeologo francese Claude Schaeffer notò che tutte le città del Vicino Oriente da lui studiate avevano patito una battuta d’arresto nel loro sviluppo attorno agli anni 2300, 1500 e 1200 a.C. Anche i libri di scuola testimoniano che questi furono anni d’invasioni, di guerre, di tramonti di civiltà.

Attorno al 2300 popolazioni di stirpe camito-semitica – provenienti dalle penisole arabica e sinaitica - irruppero nel Vicino Oriente civilizzato e ne cambiarono il volto. Gli Accadi conquistarono le città sumere, gli Amorrei occuparono la Mesopotamia occidentale a sud della Siria, i Cananei si stanziarono nel territorio che da loro prenderà il nome. Cosa spinse queste genti fuori dalle loro terre d’origine?

Le correnti d’aria fredda che oggi dall’Atlantico portano le piogge sull’Europa occidentale, durante il periodo glaciale si erano spostate verso sud, facendo dell’Africa settentrionale, del Sinai, della penisola arabica e di tutto il Medio Oriente una fertile distesa di boschi e di pascoli. La testimonianza più impressionante di quel periodo ci viene dalle famose pitture rupestri del Tassili sahariano che raffigurano giraffe, ippopotami, bufali, coccodrilli ed altri animali consimili a testimonianza di quanto diverso dovesse presentarsi quell’habitat rispetto alle distese desolate di pietre e di sabbia del giorno d’oggi.

Fu proprio l’inaridimento di quei fertili territori e la loro trasformazione in deserti arsi e inospitali che spinse buona parte dei loro abitanti ad uscirne per cercare una nuova dimora. Inevitabile fu il confronto con le popolazioni autoctone già provate dal cambiamento climatico che interessava pure le zone temperate. In Egitto l’abbassarsi del livello del Nilo segnò la fine della manodopera a buon mercato e l’era della costruzione delle grandi piramidi. Il Medio Oriente soffrì la più grave siccità degli ultimi 10 mila anni. Città popolose come Tell Leilan, in Siria, situate su terreni fertilissimi si trasformarono in distese di sabbia flagellate dai venti e rimasero disabitate per alcuni secoli, o non si ripresero mai più come le cinque città della valle del Mar Morto, “una valle tutta irrigata come il giardino del Signore, come la terra d’Egitto” (Gn 13,10), e d’improvviso ridotta ad una conca desolata e riarsa.

Ma tutto il bacino del Mediterraneo fu interessato da questo sconvolgimento climatico e dal sommovimento demografico: genti indoeuropee, costrette ad emigrare, scesero in Asia Minore e nella penisola Ellenica fondendosi o sovrapponendosi alle popolazioni locali. Le testimonianze archeologiche ci mostrano distruzioni e incendi in molti centri che avevano raggiunto un buon livello di sviluppo.

Una nuova ondata d’invasioni indoeuropee si ebbe attorno al 1500 a.C. Un periodo anch’esso d’instabilità climatica e geologica. Esso vide la scomparsa della civiltà minoica e l’invasione cassita della Mesopotamia. Sempre in quegli anni gli Arii, un importante gruppo indoeuropeo proveniente dall’altopiano iranico, invase l’India settentrionale ponendo fine all’evoluta civiltà dell’Indo. Anche qui i fattori climatici risultarono determinanti, per spiegare non solo l’abbandono della terra d’origine da parte degli Arii, ma anche la vulnerabilità dei Vallindi prostrati da una lunga siccità che aveva portato all’inaridimento del fiume Ghaggar-Hakra e alla desertificazione di un vasto territorio agricolo.

E che dire della crisi del 1200 a.C.? Chi non ricorda le famose invasioni dei Popoli del Mare che cambiarono fisionomia al Mediterraneo orientale? Sotto il loro urto caddero imperi come l’ittita, città come Ugarit, i regni micenei, e per poco non venne travolto lo stesso Egitto. Da cosa fuggivano queste genti, tanto da renderle così aggressive e determinate? Ce lo rivelano gli stessi documenti ugaritici ed egiziani: da una grande carestia che portò a un collasso economico l’area egeo-anatolica. Pertanto cause fisiche che si tradussero in movimenti di popoli e in guerre.

Supponevamo che la Pax Romana fosse sostenuta in modo determinante da una pax climatica? Infatti tra i secoli IV a.C. e IV d.C. si ebbe un lungo periodo caratterizzato da temperature miti e piogge regolari. L’ecotono mediterraneo si spinse fino al Baltico e al Mare del Nord, e l’Impero poté estendere i suoi granai dall’Egitto alla Britannia. Di contro, quando l’ecotono si ritrasse e il clima atlantico si spostò verso Sud fino alle coste africane, iniziò la carestia. Gli storici del tempo scrivono della terra divenuta sterile e dell’abbandono delle campagne. I barbari, anch’essi alla fame, calarono a Sud ed ebbero buon gioco di un Impero morente per la sua crisi certamente politica, culturale, morale e militare ma indiscutibilmente amplificata dal cambiamento climatico e di conseguenza economico e demografico.

Nel 900 d.C. l’ecotono mediterraneo si spostò nuovamente verso il Nord, ristabilendo quelle condizioni che avevano favorito lo sviluppo e la stabilità dell’Impero Romano. Fu il cosiddetto Optimum Medievale che, dopo i secoli bui dell’Alto Medioevo, pose le condizioni per una rinascita dell’Europa. La produzione cerealicola migliorò e si estese a più alte latitudini. In Inghilterra riapparve la coltivazione della vite. La maggiore disponibilità di cibo determinò un forte incremento demografico che, a sua volta, innescò un generalizzato sviluppo economico, sociale e politico. Fu l’età delle cattedrali gotiche e delle società comunali, indispensabile premessa sia ai vari movimenti di riforma religiosa sia all’Umanesimo e al Rinascimento.

Improvvisamente, intorno al 1300, il clima si fece umido e freddo. I raccolti marcirono e la terra divenne improduttiva. Milioni di persone morirono a causa della carestia e delle epidemie. Fu l’inizio di quella che prese il nome di PEG (Piccola Era Glaciale) e che, con andamento irregolare poiché caratterizzata da cambiamenti repentini e bruschi, durò fino al 1860. È, in gran parte, il periodo preso in considerazione dal Georgia Institute of Technology nella ricerca di cui dicevamo in apertura, caratterizzato da rivolte, sommosse, rivoluzioni e tante guerre, anche molto lunghe.

Dal 1860 ci troviamo in una condizione climatica del tutto nuova; non nel senso che nel passato non ci sia stato un clima simile all’attuale, ma nel senso che noi uomini abbiamo aggiunto nel sistema delle variabili che hanno modificato sensibilmente il corso naturale degli eventi. Con la seconda rivoluzione industriale, che è partita non a caso nella seconda metà dell’800, e con la rivoluzione verde, che si è diffusa nel secondo dopoguerra del ‘900, l’umanità da un lato si è resa meno dipendente dalle variazioni climatiche e dall’altro le ha addirittura influenzate. I progressi della medicina e la maggiore disponibilità di cibo, anche per i paesi meno sviluppati, hanno ridotto la mortalità per patologia e per inedia portando la popolazione mondiale dal miliardo del 1830 ai 6,5 miliardi del giorno d’oggi. Al contempo queste rivoluzioni tecnologiche si alimentano prevalentemente di combustibili fossili, che producono gas serra e che sono responsabili in prospettiva di uno sconvolgimento climatico di cui già adesso si scorgono le prime avvisaglie nell’irregolarità e nella diminuzione complessiva delle precipitazioni. Inoltre i fertilizzanti, i diserbanti e i pesticidi, utilizzati in agricoltura e indispensabili alla coltivazione intensiva, alla lunga devitalizzano il suolo e ne provocano la desertificazione. Quanto ai combustibili fossili assistiamo all’impennarsi vertiginoso dei prezzi dovuto all’accresciuto fabbisogno dei paesi emergenti a fronte di un esaurimento delle disponibilità. Malauguratamente i giacimenti più consistenti si trovano nell’area politicamente più instabile del pianeta, che è il Medio Oriente, oltre che climaticamente non certo tra le più favorite. Tutto questo non fa che rendere più inquietante la correlazione tra clima e guerra.


Certo, in teoria, le società moderne avrebbero più strumenti per affrontare questi problemi. Ma paradossalmente è proprio la complessità delle nostre società che rende più complicate e lente le risposte ai problemi emergenti. Siamo più attrezzati, possiamo assorbire meglio i colpi rispetto alle comunità primitive ma abbiamo scarsa lungimiranza e volontà di trovare soluzioni per il lungo periodo. I nostri governi sono incapaci di riflettere e attuare politiche altruistiche che vadano verso un mondo vivibile per i nostri figli. Con uno sforzo serio e ben coordinato potremmo emanciparci dall’uso dei combustibili fossili. Le tecnologie ci sono già per trarre energia dal sole, dal vento e dalle onde del mare; ma non lo facciamo perché l’inerzia e le resistenze sono tante. Ci dicono che sono costose e di serio impatto ambientale. Così continuiamo a importare petrolio che si avvia verso i 150 dollari al barile e diamo il nostro bravo contributo al disastro ambientale prossimo venturo che, in sopraggiunta, esasperando una situazione già di per sé tesa e precaria, avrà buone probabilità d’innescare un conflitto generalizzato e di portata inimmaginabile. Le crisi climatiche del passato insegnano.


Per Approfondire: Clima e morale

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martedì 11 marzo 2008

Passaggio a Nord-Ovest

Il calcio è lo sport nazionale della Groenlandia, tuttavia questo Paese non è membro della FIFA. Vocazione all’isolamento? Non in questo caso. La Federazione prevede, infatti, che le partite internazionali vengano disputate su campi di erba e il clima della Groenlandia è talmente rigido da aver finora ostacolato persino la crescita dell’erba. Quest’isola immensa è ricoperta dai ghiacci per l’84% della sua superficie e buona parte di quel 16% non lo è semplicemente perché fa così freddo da non consentire neppure le precipitazioni nevose. Attorno all’anno mille il clima della terra era meno rigido e quel mini-disgelo consentì una maggiore mobilità sui mari settentrionali. Per chiamare Groenlandia – cioè Terra Verde – la sua colonia Erik il Rosso dovette vederla ricoperta di vegetazione; almeno sulle coste meridionali. Con il XIV secolo iniziò quella che i climatologi chiamano Piccola era glaciale, che ebbe il picco più freddo nell’inverno 1708-1709 e che durò fin verso il 1850 quando il clima terrestre ha cominciato nuovamente a scaldarsi. Non si conoscono le cause di quel raffreddamento: si è pensato alla diminuzione dell’attività solare, all’aumento di quella vulcanica e al rallentamento delle correnti oceaniche. Nessuna di queste supposizioni, per quanto verosimili, è stata comprovata. Appare ormai certo, invece, che nel riscaldamento attuale c’entri l’attività umana. Non si sa se da sola o in concorso con altre cause, ma da qualche anno a questa parte sempre più il mondo scientifico è convinto che il clima globale della terra viene influenzato dal consumo dei combustibili fossili. I cambiamenti vanno così acuendosi che ormai si parla apertamente di sconvolgimento climatico; gli effetti sono sotto gli occhi di tutti e tutti cominciamo a farne le spese. Ma forse ciò che maggiormente ci colpisce sono le notizie di eventi testimoniati da pochi, perché si verificano in luoghi poco abitati. Pensiamo alla banchisa artica. Da un paio d’anni si è ridotta tanto da lasciare libero per alcuni mesi quel mitico “passaggio a Nord-Ovest” tra la Baia di Baffin e il Mare di Bering, dall’Atlantico al Pacifico. Un evento che ha sorpreso gli scienziati in quanto verificatosi con decenni d’anticipo sui modelli climatici che lo davano tra il 2030 e il 2050. Qualcuno dirà: “Ebbene, rallegriamoci! Nuove prospettive si aprono per le rotte commerciali”. Certo. Ci rallegriamo anche perché, per la prima volta, quest’anno sui banchi dei supermercati di Groenlandia è possibile trovare verdura coltivata sul posto. E i groenlandesi già sognano la loro terra coprirsi di fattorie e foreste produttive. Ma il punto non è questo. Sappiamo che questi benefici sono marginali rispetto a un malessere generalizzato di cui soffre il nostro pianeta. Anzi, uno studio effettuato dall’università di Santa Barbara, in California, ha documentato scientificamente la stretta connessione tra lo sciogliersi dei ghiacci nelle regioni polari e le precipitazioni pluviali nelle regioni tropicali. Gran parte della Terra diviene inospitale per i suoi abitanti umani. Per una sorta di Nemesi, paesi ostili al pur blando Protocollo di Kyoto – quali Stati Uniti, Cina e India – subiscono sul proprio territorio la furia degli elementi scatenati anche dalle loro emissioni incontrollate. Questo, a mio avviso, è il vero nodo del problema. Pur sapendo, continuiamo nel nostro comportamento distruttivo. È lo stesso atteggiamento del fumatore che conosce benissimo gli effetti del tabacco e tuttavia non smette. Questi sono gli uomini, ed è illusorio pensare di trasferirli in Groenlandia, in Canada o in Siberia. Se non si curano del proprio destino, perché dovrebbero preoccuparsi di quello altrui? Gli uomini sono molto più bravi a farsi la guerra che a solidarizzare. Persino il disgelo dell’Artico va in questo senso e già si scatenano le bramosie territoriali dei Paesi confinanti. Ricordo una vecchia barzelletta sull’Unione Sovietica. Lezione di geografia. Il maestro: “Boris, con chi confina l’Unione Sovietica?”. Boris: “Con chi le pare”. E se la Russia d’un tempo poteva annettersi tutti i territori che le aggradavano con i relativi popoli, figuriamoci se adesso si tratterrà dall’aggregarsi i fondali artici che di popoli non ne hanno. Infatti, dal 2 agosto una bandiera russa di titanio sventola a 4.200 metri di profondità come simbolica presa di possesso della dorsale sottomarina di Lomonossov. Il Canada, dopo tre giorni, ha annunciato la costruzione di una base militare sull’isola di Baffin. Il lupo perde il pelo… Per il momento contentiamoci della prospettiva che la Groenlandia possa finalmente giocare le sue partite di calcio su campi verdeggianti d'erba regolamentare.

(Pubblicato su Toscanaoggi Forum l'11 settembre 2007)

lunedì 10 marzo 2008

Adamo, dove sei?

Man mano che gli studi di archeologia sul Medio Oriente proseguono, emerge un quadro che tende a confermare l’autenticità del contesto in cui viene situata la storia dell’umanità nei primi capitoli della Genesi. Appaiono pertanto sempre meno giustificabili quelle posizioni che tendono a relegare rigidamente tra le nebbie del mito o dell’allegoria la storia biblica della prima umanità. Non bisogna tuttavia nascondere i problemi di concordanza tra l’antropologia scientifica e l’antropologia biblica dal momento che si assume come storico il racconto della Genesi, al punto da dover definire la misura e i termini di tale storicità.

In altre parole, volendo dare una lettura il più possibile storica al racconto biblico delle prime vicende umane, è inevitabile chiedersi: dove collochiamo Adamo ed Eva nel quadro evolutivo definito dalla paleoantropologia sulla base delle testimonianze fossili, dei dati forniti dalla biologia molecolare e delle tracce lasciate dall’attività umana? E ancora: fin dove ci si può spingere nel considerare letterale tale racconto? Si è molto ragionato su quest’argomento che appare come un rompicapo di non facile soluzione. Prima di accennare a tali riflessioni, è utile riassumere il suddetto quadro evolutivo a beneficio di coloro che ne hanno poca dimestichezza.

Il processo, che prende il nome di ominazione, registra il passaggio da una fase preumana al tipo umano attuale attraverso la successione di forme intermedie sempre meno primitive di ominidi. La fase preumana sulla linea filetica dell’ominazione si è voluta vedere negli Australopiteci. Primati, questi, che si distinguevano dalle attuali scimmie antropomorfe per il possesso della stazione eretta. In base alla documentazione fossile si è potuto risalire a una diecina di specie di australopitecine raggruppabili nei due tipi gracile (onnivoro) e robusto (vegetariano); per semplificare, uno scimpanzé e un gorilla dotati di gambe e piedi sostanzialmente umani. Vissero in Africa tra i cinque milioni e un milione di anni fa.

Attorno ai due milioni d’anni fa troviamo, accanto agli Australopiteci, dei primati dotati di un volume encefalico di 650-800 cc, a fronte dei 400-450 cc (di poco superiore a quello degli attuali scimpanzé) delle australopitecine. Insieme ai loro resti furono rinvenuti ciottoli scheggiati intenzionalmente lungo il margine di una o entrambe le facce. Per tale ragione a questi primati fu attribuito il nome di Homo habilis. Altra capacità tipicamente umana che si attribuisce loro è quella di esprimersi mediante un linguaggio articolato; lo si deduce da un certo sviluppo delle aree cerebrali deputate alla fonazione (area del Broca) e alla comprensione del linguaggio (area del Wernicke) le cui impronte si riscontrano sul calco endocranico.

Sempre in Africa orientale troviamo i resti del primo Homo erectus risalenti ad 1,6 milioni d’anni fa. Il cranio di questo ominide ha tratti più massicci e robusti rispetto a Homo habilis, ma possiede un volume encefalico di 900-1000 cc. L’erectus per molti aspetti può essere considerato umano. Sa costruire con competenza e su progetto ben definito i suoi utensili. Ha una vita sociale ben strutturata. È raccoglitore ma anche cacciatore, capace di attuare strategie complesse e raffinate. Conosce l’uso del fuoco. Ha piena padronanza del territorio; sa come ripararsi, come procurarsi le materie prime e il cibo. Fu il primo emigrante che si spinse fuori dall’Africa ed invase l’intero continente euroasiatico. Si estinse attorno ai 100 mila anni fa.

Tra i 200 mila e i 100 mila anni fa vi fu un passaggio graduale tra l’erectus e l’Homo sapiens, tanto che per alcuni reperti si è in dubbio se classificarli come erectus evoluti o sapiens arcaici. L’ultima specie a divergere prima dell’emersione dell’uomo moderno è l’Homo sapiens neanderthalensis, vissuto nell’Europa dell’ultima glaciazione ed estintosi circa 28 mila anni fa. Corporatura tozza, arti robusti, adatti al clima freddo, e massa cerebrale persino maggiore di quella degli uomini moderni. I neandertaliani padroneggiavano una cultura materiale avanzata ma trovavano anche il tempo per qualche forma di pensiero religioso; seppellivano, infatti, con molta cura i loro morti insieme a fiori, cibo ed armi, dimostrando di credere in una vita ultraterrena.

L’Homo sapiens sapiens emigra dall’Africa circa 100 mila anni fa. È l’uomo anatomicamente moderno, dai tratti somatici ingentiliti rispetto alle specie che lo hanno preceduto e dalla massa cerebrale che può toccare i 1800 cc. Dapprima la sua cultura non differisce da quella neandertaliana, se non per oggetti d’ornamento personale. Ma ben presto il suo potenziale intellettivo cominciò ad esprimersi in ogni campo ed egli divenne la specie dominante, ovunque diffusa nel pianeta. Arte e religione si fondono in quella testimonianza impressionante che sono i graffiti e le pitture rupestri del Paleolitico superiore, risalenti soprattutto all’ultimo periodo: il Maddaleniano, non per nulla considerato l’epoca d’oro della preistoria. Pensiamo agli affreschi di Altamira o di Lescaux ad opera dei Cro-Magnon, i più antichi sapiens sapiens d’Europa! Subito dopo, circa 10 mila anni fa, quando l’ultima glaciazione lascia il posto a condizioni climatiche favorevoli, egli è artefice della rivoluzione neolitica.

Dopo questa importante premessa, torniamo al quesito d’apertura sulla concordanza tra il libro della Genesi e quello della natura. Australopiteci, Homo habilis, Homo erectus, Homo sapiens neanderthalensis, Homo sapiens sapiens: dove vogliamo collocare Adamo e di quale umanità egli sarebbe capostipite? In molti hanno tentato di dare una risposta a questa intrigante domanda.

I creazionisti letteralisti, pur di salvare l’interpretazione letterale della Genesi, respingono tutte le datazioni della scienza ufficiale e ricostruiscono la storia naturale in modo che possa concordare con quanto la Bibbia sembra sostenere. Premesso che la creazione dell’uomo non possa essere più antica di 10 mila anni, essi considerano posteriori tutti i fossili umani. Come gli Australopiteci anche Homo habilis sarebbe solo una scimmia. Degli altri tipi umani le differenze vengono minimizzate o attribuite ad alterazioni provocate da malattie del sistema osseo. Le glaciazioni pleistoceniche, durate oltre 1,5 milioni d’anni, vengono ridotte ad una, brevissima, collocata subito dopo il diluvio. Adamo viene di fatto collocato a monte di Homo erectus.

Una seconda soluzione del problema è quella di porre gli avvenimenti narrati nella Genesi in un passato remotissimo e quindi inverificabile. In questo modo si salvaguarderebbe sia l’interpretazione letterale di quegli eventi sia lo schema tracciato dalla paleontologia, salvo piccoli aggiustamenti. In realtà gli aggiustamenti richiesti da questa soluzione sono tutt’altro che piccoli. Bisogna supporre infatti lo sviluppo di una civiltà tecnologica ai primordi del Paleolitico – di cui non sarebbe rimasta traccia alcuna – seguita da un periodo di degenerazione a un livello pressoché scimmiesco di alcuni gruppi umani, per poter giustificare la presenza delle specie precedenti all’uomo anatomicamente moderno. A ben vedere, uno scenario che scontenta sia la scienza sia l’esegesi biblica in difficoltà a collegare un Adamo del Paleolitico inferiore con la storia dei Patriarchi.

Una terza soluzione è stata suggerita da studiosi di scuola concordista. Al contrario della prima, per il rispetto dello schema paleontologico è più disponibile a stiracchiare il testo biblico. Anche in questo caso Adamo viene collocato nel Paleolitico, ma la mutazione fatidica viene posta tra l’Homo erectus e le specie seguenti. In questa cornice, c’è chi ha visto nell’Homo sapiens sapiens la discendenza di Seth, il terzogenito della coppia edenica, e nell’Homo sapiens neanderthalensis la stirpe di Caino. Della serie brutti e cattivi. Al di là d’ogni ironia, rimane il fatto che vicende contestualizzate in uno scenario decisamente neolitico vengono trasferite di peso nel Paleolitico medio con scarso rispetto del racconto biblico.

Un’ultima soluzione proposta consente di collocare gli eventi narrati nei primi capitoli della Genesi in uno scenario rispettoso del loro contesto che è sostanzialmente quello neolitico. E man mano che avanzano, gli studi sulla preistoria dimostrano la fondatezza di questa opzione. È quella, a mio avviso, più ragionevole nonostante anch’essa possa in parte spiegarsi solo per ipotesi. È quella a cui, fino a miglior suggerimento, aderisco sia pur con qualche aggiustamento. Dunque Adamo sarebbe il padre dell’umanità neolitica, e i suoi discendenti coloro che hanno introdotto l’economia agricola e la pastorizia. Va da sé, però, che questa collocazione non fa della coppia edenica la progenitrice dell’intera umanità: sia di quella che la precedette sia, verosimilmente, di buona parte di quella che la seguì. Come metterla allora con gli uomini vissuti anteriormente al Neolitico? C’è chi ha suggerito di considerarli tutti “ominidi”, compreso l’Homo pictor, i Cro-Magnon del Maddaleniano di cui abbiamo detto. Abili artisti ma, secondo questa tesi, incapaci di afflato spirituale. Coerenza vorrebbe che tutti i gruppi umani dei nostri giorni discendano dalla coppia edenica compresi i Boscimani del Kalahari e gli aborigeni australiani, poiché se invece costoro si fanno discendere – come la scienza ha buon gioco a dimostrare – direttamente da progenitori paleolitici allora bisognerebbe considerare anch’essi “ominidi” esclusi dalla redenzione.

Ma su quali basi considerare l’uomo paleolitico diverso da quello neolitico? Concediamolo pure per l’Homo erectus che gettava i propri morti in discarica, lasciando presumere che non si ponesse domande d’ordine esistenziale. Ma le sepolture del neandertaliano indicano chiaramente che questi credeva in una vita ultraterrena. A maggior ragione come si fa a non riconoscere un fratello nel sapiens sapiens del Maddaleniano? Non solo per le sue sepolture, ma ancor più per le testimonianze artistiche che ci ha lasciato e che sentiamo così vicine alla nostra sensibilità spirituale. D’altronde Lescaux non è soprannominata la “Cappella Sistina della preistoria”?

Ma allora in cosa Adamo ebbe più, fu diverso, persino necessario? Questa domanda, per rispetto pure del racconto biblico, è strettamente connessa al discorso sull’ingresso del male nel mondo e sulla promessa di redenzione. Il creazionista fissista, prendendo alla lettera il racconto della creazione, fa entrare il male e la sofferenza nel mondo in conseguenza alla ribellione in Eden. Il creazionista “evolutivo”, invece, pensa al fenomeno della predazione – connesso inevitabilmente all’idea di violenza, sofferenza e morte – che è ben precedente alla comparsa dell’uomo sulla terra. Ma pensa pure al cosiddetto “Giardino di Ediacara”. Cioè alla prima esplosione di vita marina – di cui appunto la fauna di Ediacara è la prima testimonianza riscontrata – che non porta ancora i segni della violenza. Il mondo precambriano, infatti, era un paradiso dove non si uccideva per mangiare. I predatori comparvero nel Cambriano e da allora i viventi furono molto impegnati ad offendersi e a difendersi; apparvero le chele, le zanne, gli artigli, ma anche il mimetismo, la fuga, le corazze, gli aculei veleniferi. Chi precipitò il mondo in quell’inferno predatorio? L’uomo era ancora ben lontano da venire! Tornano in mente le parole di Gesù: “È stato un nemico a far questo… il diavolo” (Mt 13,28-39). La stessa Bibbia ci ricorda che la prima ribellione avvenne in Cielo: fu una lotta tra intelligenze non umane che proseguì quaggiù con i medesimi attori. Sembra di vedere il “nemico” – conoscitore fine della genetica – mentre tira le chele dei gigantostraci o aguzza i denti del tirannosauro, mentre il Figlio di Dio – per proteggere la sua creazione – fornisce di corazze e collari ossei i sauri erbivori. L’uomo è parte di questo mondo, plasmato con il suo fango genetico. Quando venne chiamato all’esistenza egli ereditava istinti sedimentati in centinaia di milioni d’anni. La violenza, la predazione e la guerra gli appartenevano profondamente, insieme all’istinto materno, alla cura degli anziani, alla pietas per i defunti. È difficile credere che gli uomini del Paleolitico medio e superiore non fossero esseri morali, responsabili delle proprie azioni davanti a Dio. Nulla ci è detto dei loro capostipiti, ma li ebbero! La biologia molecolare sconfessa l’ipotesi poligenista e ormai si parla di “Eva africana” come pure di “Adamo africano” perché l’esame del DNA (mitocondriale e del cromosoma Y) riconduce tutti gli uomini viventi ad un’unica genesi, individuata in Africa, circa 150 mila anni fa. La scienza non è in grado di dirci se si trattasse di un gruppo o di una coppia. Ma noi che crediamo in un intervento diretto del Creatore in questo processo evolutivo, amiamo pensare ad una coppia uscita dalle mani di Dio e da lui benedetta, forse persino istruita. Una sorta di Adamo ed Eva ante litteram. Lo stesso, in precedenza potrebbe essere avvenuto con la prima coppia di neandertaliani. Non sappiamo nulla di come il Creatore si rapportasse con quelle sue creature, anche se viene difficile credere che rapporto non vi fosse o non vi fosse stato.

La nostra rivelazione parte con un Adamo e un’Eva connotati come neolitici. La loro peculiarità, rispetto agli altri uomini, si può dedurre dallo stesso racconto che li ha come protagonisti. Essi sono stati sottoposti ad una prova di fedeltà, e la posta in gioco era tale che può essere spiegata solo attribuendo loro caratteristiche di un’umanità ideale. Solamente un uomo fu sottoposto ad una prova simile alla loro e questi è l’Uomo-Dio Gesù. Paolo definisce Adamo figura di Cristo (Rm 5,14) e Cristo “l’ultimo Adamo” (1 Cor 15,45). Ciò che accomuna i due non è la natura divina ma la capacità di dominare la tentazione. Cristo vinse dove Adamo perse. Ecco una sicura differenza tra Adamo e gli altri uomini: egli, sebbene creato con lo stesso fango genetico, non era dominato dagli istinti distruttivi che pesavano sui viventi da tempo immemorabile. La sua sconfitta lo rese uguale agli altri uomini e in qualche modo la maledizione che ne seguì passò sugli altri uomini; non solo sulla sua discendenza di sangue ma su tutta l’umanità. È per noi una relazione incomprensibile anche perché ci sono ignoti i rapporti intercorsi tra Dio e l’umanità paleolitica.
Rimane ancora una domanda: perché Adamo fu necessario? Ovvero, in relazione a questo test di fedeltà, perché richiederlo ad un uomo che adesso non ci risulta essere né l’unico né il primo? Credo che la risposta stia proprio nella storia evolutiva della vita terrestre; una storia profondamente condizionata dal conflitto tra il bene e il male originatosi altrove in un tempo indefinito e di cui questo mondo era diventato al contempo il campo di battaglia e la dimostrazione della giustezza d’una tesi sull’altra. Il percorso di creazione per evoluzione verso forme di vita sempre più complesse fino a giungere all’uomo, conoscendo il carattere di Dio, difficilmente doveva prevedere la lotta per la sopravvivenza, per quanto assolutamente indispensabile nello schema darwiniano. Al contrario esso dovrebbe ritenersi un elemento spurio introdotto da Satana nel tentativo di contrastare l’opera di Dio. Questo tentativo non è riuscito a fermare tale opera ma solo a rallentarla e a renderla penosa. La documentazione fossile è testimone di seri sforzi volti a corrompere l’opera creativa, seguiti da immani catastrofi che portarono quasi all’estinzione di una vita ormai degenerata e al suo nuovo rifiorire. L’ipotesi di Cuvier sui molteplici diluvi non era poi così lontana dalla realtà. Lo scopo divino era quello di portare a compimento il suo progetto che prevedeva a coronamento un’umanità a sua piena immagine e, in parallelo, la sconfessione e la distruzione dell’opera del Maligno. Il progetto edenico andava in quella direzione. Il suo fallimento, come era avvenuto tante volte in passato, non fermò il percorso creativo di Dio ma solo lo rallentò sia pure di parecchie migliaia di anni quando il nuovo Adamo, cioè Cristo, portò a termine il lavoro a suo tempo interrotto. In cosa consistette questo lavoro? La tesi di Satana voleva dimostrare che la legge di Dio era ingiusta e inosservabile: il fallimento di Adamo stava lì a confermarlo. Assumendo l’umanità di Adamo – che era al contempo filogeneticamente fragile ma moralmente libero – Cristo confutò la tesi di Satana e lo sconfisse. Altro importante impegno a cui Egli lavorò fu la fondazione della Chiesa, ovvero di un popolo che fosse di riferimento a tutte le genti della terra e le aiutasse a convertirsi a lui. Per analogia, ha senso ritenere che il compito assegnato ad Adamo fosse molto simile a questo. Rispettando la legge di Dio, egli avrebbe confutato la tesi di Satana di cui abbiamo detto e al contempo sarebbe stato di guida e benedizione per tutta quell’umanità che avrebbe trovato desiderabile il suo modo di vivere. Parafrasando la seconda lettera di Pietro: Adamo, avrebbe insegnato come si vive da uomini giusti (2 Pt 2,5 Tilc).


(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 7 maggio 2007)

domenica 9 marzo 2008

Il dilemma dei provveduti - 2

La teoria del Disegno Intelligente (dall’inglese Intelligent Design, ID) è sorta negli Stati Uniti negli anni ’90. Essa afferma che la vita, e l’universo che la ospita, possono meglio essere spiegati dall’azione di una causa o agente intelligente anziché di fattori fortuiti quali le mutazioni casuali e la selezione naturale così come sostiene il darwinismo. Va subito precisato che l’ID non è contrario all’ipotesi evoluzionista. Esso accetta l’idea di una discendenza comune di tutti gli organismi da un unico antenato e i lunghi tempi geologici che hanno accompagnato questo complesso processo evolutivo. Tale processo, tuttavia, non andrebbe attribuito alla selezione naturale di cui peraltro, a livello macroevolutivo, non c’è prova nei reperti fossili bensì, appunto, all’intervento d’un fine progettista (designer) intelligente. Progettista che i detrattori della teoria definiscono “Dio dei vuoti” in quanto sarebbe chiamato in causa semplicisticamente in tutte quelle lacune non ancora colmate dalla ricerca scientifica. Ma l’accusa più pesante alla teoria è quella di non essere vera scienza in quanto il “progettista intelligente” non sarebbe né osservabile né ripetibile, con conseguente violazione del requisito scientifico della falsificabilità. A loro volta i sostenitori dell’ID ribattono che neppure la teoria dell’evoluzione mediante selezione naturale, per quel che riguarda la macroevoluzione, può contare sui requisiti scientifici della osservabilità, ripetibilità e falsificabilità, e non può essere provata con un esperimento. Inoltre non è neppure logica, nelle sue affermazioni e nel suo procedimento, pretendendo di voler spiegare certe complessità della natura con processi casuali ed escludendo a priori ogni intervento esterno. Essa cioè decide, con assioma arbitrario, che la natura sia autosufficiente e deve così far rientrare tutti i risultati sperimentali in tale schema; anche quando autosufficiente non dovesse essere; impedendosi per definizione di riconoscere un'eventuale progettualità e finalità nel mondo fisico anche qualora queste esistessero realmente, e condannandosi in tal modo a cercare una cosa che non esiste. Il biochimico cattolico Michael Behe, uno dei massimi esponenti del movimento, pone come primo esempio di progetto evidente la cellula, il fondamento della vita, che definisce la “scatola nera di Darwin” per il fatto che ai tempi dello scienziato neppure se ne sospettava la complessità, e di cui ora invece, man mano che la si studia, emerge una spaventosa complessità organizzativa. Suo è anche il concetto di “complessità irriducibile” che si riferisce a quei meccanismi, anche biologici, che per funzionare hanno bisogno dell’interazione di molte parti. Mancandone anche solo una il meccanismo è inutilizzabile. La cellula è forse l’esempio più convincente. Ma lo sono anche gli organi degli esseri pluricellulari, come l’occhio, che per adempiere alla loro funzione hanno bisogno al contempo di tutte le loro parti. Come concepire la formazione di questi sistemi per lenta e casuale evoluzione quando per funzionare è necessario che siano progettati e assemblati tutti in una volta? E per fermarci all’esempio dell’occhio, pensiamo all’impressionante somiglianza che c’è tra quello dell’uomo e quello del polpo. Come avrebbero fatto due organismi lontani per phylum (cordati e molluschi) a dotarsi praticamente della stessa struttura complessa mediante due distinti processi evolutivi casuali? Lo stesso Darwin scriveva: “Quando penso all’occhio mi viene la febbre”.

È da notare che l’ID, imponendosi d’utilizzare solo il linguaggio della scienza, studia gli effetti dell’azione intelligente sulla natura e non il Disegnatore in sé. Esso tiene accuratamente fuori dal proprio campo di studio la religione e i libri ispirati anche se, com’è logico attendersi, la maggior parte dei suoi sostenitori sono credenti cristiani che in altra sede identificano il disegnatore intelligente con il Dio creatore della Bibbia. Loro obiettivo è quello di fare emergere i pesanti condizionamenti che la scienza subisce dai propugnatori dell’ateismo neodarwinista che, non a caso, il famoso biologo Julian Huxley definì “una religione senza rivelazione”.

E la Chiesa cattolica, come ha accolto la teoria del Disegno Intelligente? In genere con interesse. Non si è pronunciata ufficialmente e non mancano le prese di distanza individuali. Don Fiorenzo Facchini, noto antropologo e paleontologo, sostiene che finora non c’è alternativa al naturalismo metodologico (che non ammette interventi diretti, sia pure discontinui, da parte di un ente trascendente) se si vuole restare nell’ambito della scienza. Questa posizione è condivisa da padre George Coyne, già direttore della Specola Vaticana. Ma grande eco hanno sollevato le affermazioni del card. Christoph Schoenborn, arcivescovo di Vienna che, al contrario, prende le distanze da “un'evoluzione concepita in senso neodarwiniano” e sostiene invece la visuale del Disegno Intelligente. Anche papa Benedetto XVI si è riferito al progetto intelligente e lo ha attribuito alla Parola, cioè al Figlio di Dio. Mentre il suo predecessore, Giovanni Paolo II, aveva definito “un’abdicazione dell’intelligenza umana” ogni teoria scientifica che cerca di negare l’evidenza di progetto nel creato.

Da questa carrellata di teorie verrebbe da pensare che il credente informato o provveduto (cioè provvisto di conoscenze non solo teologiche ma anche negli altri campi del sapere, in particolare scientifico) abbia incontrato notevoli difficoltà ad armonizzare le conoscenze secolari con le pagine rivelate del Libro sacro, al fine di non recare offesa alla propria intelligenza e, in definitiva, alla sua stessa fede. È riuscito in tale impresa? Anche abbracciando tra le varie ipotesi quella che si confà di più alla sua sensibilità e struttura mentale, come non provare nostalgia per la fede semplice e serena di chi ha come unico riferimento la Parola rivelata, conoscenza unica e sufficiente per salvare? Ma l’uomo ha il diritto e il dovere di conoscere ciò che è alla sua portata; d’altronde, una volta acquisite, le nozioni non si possono “disimparare” e allora non si può che cercare di conviverci al meglio. Il fatto che le teorie siano così tante forse prova che nessuna d’esse sia quella perfetta, quella che riesce nell’impresa di mettere d’accordo tutte le conoscenze in nostro possesso. Forse perché tali conoscenze sono così frammentarie da non riuscire a ricomporre neppure le linee generali del grande mosaico della storia naturale e delle vicende umane.

Come non pensare alla storia indiana dell’elefante nella stanza buia? Le persone che lo toccavano lo descrivevano ognuna in modo diverso a seconda delle parti del corpo con cui venivano in contatto: chi ne aveva toccato l’orecchio lo descriveva come un ventaglio, chi la zampa lo descriveva come una colonna, chi la proboscide come un serpente, e chi aveva preso in mano la coda assicurava trattarsi di una corda. Appena uscito, ognuno sosteneva con determinazione la propria posizione. La discussione degenerò nella lite e persino nella zuffa finché… qualcuno non portò fuori dalla stanza l’elefante e tutti zittirono. Solo in quel momento i presuntuosi litiganti si resero conto d’avere tutti solo un po’ di ragione. Poiché l'opinione di ciascuno si basava su un'esperienza frammentaria, erano venute fuori tante definizioni quante le diverse parti toccate del pachiderma. Ciascuna persona credeva di aver capito ma nessuno aveva un’idea reale di cosa fosse un elefante.

In questo mondo nessuno può giungere alla piena conoscenza delle cose. Solo con l’umiltà e la capacità d’ascoltare chi la pensa diversamente potremo allargare poco alla volta il nostro sapere; altrimenti rischiamo di rimanere attaccati alla coda dell’elefante credendola per sempre una corda. Vale per tutto: non solo per la scienza ma anche per la teologia che, pur evitando strani sincretismi, dovrebbe trattenersi dalla tentazione di riprocessare Galileo all’infinito. Forse aveva ragione quel teologo presbiteriano quando affermò che il più importante interesse della religione non è l’affermazione della verità ma la ricerca del significato.

Ed è per questo che preferisco non prendere una netta posizione a favore di alcuna delle teorie che ho elencato finora, pur non ritenendole tutte sostenibili in ugual misura. Credo che tutte, in fondo, abbiano qualcosa da suggerirci per giungere ad una migliore visione della realtà. Persino il Creazionismo letterale e fissista ha qualcosa da insegnarci. Per esempio il primato della fede: esiste una scala di valori nella nostra vita, no? È commovente osservare con quanta determinazione i creazionisti fissisti tentino di neutralizzare ogni informazione che possa mettere a repentaglio la loro fede che, giustamente, ritengono il bene più importante! D’altronde il racconto della creazione non è stato creduto nella sua accezione letterale per millenni? Mentre ispirava lo scrittore sacro Dio non sapeva bene che sarebbe andata così? Se ha scelto tale percorso è perché forse, ai fini della salvezza, quest’informazione era sufficiente. Se Egli ha ritenuto di tacere sui lunghi tempi geologici e sulle scimmie aveva le sue ragioni. Se già oggi è difficile integrare questi dati nei nostri schemi mentali figuriamoci quanto più lo sarebbe stato 3500 anni fa! Gli ebrei avrebbero introdotto il culto totemico della scimmia e sulla spianata avrebbero lasciato scorrazzare i macachi come avviene in certi templi indiani. Come disse Gesù? “Ho ancora molte cose da dirvi, ma ora sarebbe troppo per voi” (Gv 16,12).

La posizione dell’Eziologia metastorica ha un pizzico d’umiltà e di consapevolezza in più. Mi suggerisce infatti che si può ribadire il primato della fede pur ammettendo che esistono zone d’ombra nel nostro sapere; se i piani di conoscenza non sono ancora integrabili lasciamoli allora separati; se non siamo ancora in grado di difendere i fatti narrati nella Genesi possiamo però difendere e salvaguardare il senso che il loro racconto intende trasmetterci. Mi suggerisce, cioè, che il racconto biblico per essere capito va contestualizzato: quali erano le categorie del tempo in cui era calato lo scrittore? È possibile narrare una storia prescindendo da tali categorie? Ha senso ispirare un racconto senza tener conto del significato che può avere sul lettore, sulle sue capacità di ricezione? Se suo scopo è trasmettere un determinato messaggio, che sia comprensibile, allora bisogna accettare l’idea che possa contenere immagini e semplificazioni. In altre parole questa posizione focalizza la ricerca sul significato che il racconto biblico può avere per il lettore.

E l’interpretazione profetica quale riflessione mi suggerisce? Una non da poco. Mi convince infatti che il racconto biblico delle origini è il risultato non solo dell’ispirazione ma anche di una precisa rivelazione. Non è pensabile, infatti, che lo scrittore si sia limitato a ordinare del materiale in suo possesso pur guidato dall’ispirazione. Troppo tempo infatti era trascorso tra l’accadimento dei fatti e la loro narrazione perché sia credibile una trasmissione senza pesanti alterazioni del loro ricordo e conseguente trasformazione in mito. Ancor meno pensabile è che egli abbia compiuto un’operazione di “demitologizzazione” attingendo alle cosmogonie del Medio Oriente, soprattutto a quella babilonese, depurandole degli elementi mitici. Ma abbiamo presente il racconto della creazione babilonese? Marduk che uccide il mostro primordiale Tiamat e ne taglia in due il corpo, con una parte fa il cielo e con l’altra la terra? Poi con il sangue di un altro mostro, Kingu, crea gli uomini? Come si fa a trarre il pulito racconto di Genesi, con tanto di nomi e circostanze, da una storia così incrostata e degenerata come l’Enuma Elish? Non ci riuscirebbero neppure gli studiosi moderni con la forza dei loro strumenti e del materiale a loro disposizione, con buona pace dei panbabilonisti. Il Pentateuco viene attribuito a Mosè, salvo qualche aggiunta posteriore sia pure rilevante. Quel Mosè considerato il primo dei profeti non perché abbia predetto qualcosa ma perché parlava con Dio e poi riferiva agli uomini. E parlava così come si parla a un potente amico, con rispettosa confidenza, ma facendo vera conversazione. Perché non supporre allora che sia andata così: “Mosè, oggi ti racconto la storia di Terroso e Viviana (Adamo ed Eva, nella loro etimologia)…”. Quindi rivelazione, oltre che ispirazione.

L’approccio concordista m’ispira sensazioni contrastanti. Da un lato mi verrebbe da dire: ecco, finalmente persone che umilmente tengono conto delle conoscenze importanti che negli ultimi due secoli si sono aggiunte allo scibile umano, che sanno fare un passo indietro per non chiudersi nella prosopopea teologica che non ascolta nessuno, che intende dettar legge in ogni cosa, che si ritiene autosufficiente come il califfo Omar che nel 641 incendiò la biblioteca scientifica di Alessandria perché riteneva quei libri inutili se conformi al Corano e dannosi se contrari. Ma mi chiedo anche se quella del concordismo non sia un’umiltà a buon mercato. I concordisti sono spesso seguaci di quella scuola liberale che a cavallo tra l’800 e il ‘900 si è divertita a dissezionare il testo biblico, come direbbero gl’inglesi, “in countless pieces”; allora non dovrebbe essere così doloroso sacrificare qualcosa di cui si ha una stima moderata sull’altare paludato della scienza. Non a caso è spesso un concordismo a senso unico: che cioè cerca soprattutto di adattare la Bibbia al paradigma scientifico del momento e molto meno il contrario. Ecco allora venirci incontro la teoria del Disegno Intelligente che, pur non facendo mai cenno alla Bibbia per scelta metodologica, ci suggerisce che la fede non deve soffrire complessi d’inferiorità nei confronti del mondo accademico; se necessario, per difendere le proprie ragioni, deve sapersi introdurre in casa d’una scienza faziosa e con gli strumenti di questa riequilibrare posizioni d’ingiustificata sudditanza.

Nel mio comprensibile dilemma, io, cristiano informato, accetto ogni idea come utile contributo alla riflessione. Quindi niente paletti ma antenne. Però, pur non riconoscendomi pienamente nelle attuali teorie, come dicevo, ritengo alcune più sostenibili di altre. Mi son fatto anch’io la mia scala valoriale di priorità, e nel valutare con più interesse alcune ipotesi ritengo utile fissarmi almeno un paio di riferimenti che mi aiutino ad orientarmi nella mia ricerca personale di conoscenze e di significati. Il primo riferimento poterebbe avere come titolo: “Nessuna sudditanza del racconto biblico verso le discipline secolari”. Nonostante siano ormai da tempo riconosciute le intemperanze esegetiche della famigerata “Alta critica”, il testo biblico agli occhi di molti cristiani è ancora visto con sospetto; per esso vale il principio che in termini giuridici si definisce “ribaltamento dell’onere della prova”, per cui spetterebbe alla Bibbia dimostrare la propria attendibilità; ogni suo passo, in mancanza di prove certe, sarebbe da considerare inaffidabile. Ebbene, io non accetto questa impostazione. Fino a prova contraria, per me la Bibbia è fonte attendibile in virtù di quell’ispirazione in cui io credo. Certo, quando mi si dimostra che un passo biblico contrasta con dati storici o scientifici inoppugnabili, io ne prendo atto. Tale approccio cambia molte cose. Ad esempio, mi costringe a pensarci bene prima di rifiutare un’affermazione biblica o di rifugiarmi nella sua simbolizzazione; al contrario, mi spinge a privilegiare ove possibile gli aggiustamenti fini. Una sorta di concordanza senza soggezione, insomma. Il secondo riferimento ha come titolo: “La vera scienza non è nemica della Rivelazione”. Condivido pienamente l’osservazione di Michael Behe: “L'immagine pubblica della scienza è stata alterata per sostenere l'ateismo, ma si tratta di una falsa rappresentazione della realtà. I risultati attuali della scienza portano decisamente a Dio. I cristiani non devono avere paura. La vera scienza è una loro alleata”.

(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 26 aprile 2007)

sabato 8 marzo 2008

Il dilemma dei provveduti - 1

I primi undici capitoli della Genesi narrano della creazione, della caduta, della corruzione dell’umanità, del diluvio, della nuova ribellione e della dispersione. Parlano cioè dell’umanità, dalle origini fino a Israele. Privata di tali capitoli la Bibbia sarebbe solo il libro sacro degli ebrei, così come i Purana lo furono per gli indiani e il Popol Vuh per i maya; sebbene anch’essi esordiscano con il racconto della creazione. Sono proprio questi capitoli che conferiscono al racconto biblico l’ampio respiro che coinvolge l’umanità intera e sui quali si sviluppa il racconto della salvezza, fino alla completa redenzione della famiglia umana, a prescindere da ogni connotazione etnico-religiosa. Essi sono la premessa che spiega e convalida la storia della salvezza. Ecco perché la loro autenticità riguarda il fondamento della fede e per millenni non è mai stata messa in discussione dai credenti devoti. Con l’avvento della rivoluzione scientifica, però, l’uomo ha acquisito strumenti che gli hanno dischiuso prospettive di conoscenza inimmaginabili. Lo scrigno del passato si è aperto sommergendolo di dati apportati da nuove discipline o anche vecchie ma adesso sorrette dal rigore del metodo scientifico. Astronomia, geofisica, geologia, paleontologia, paleobotanica, zoologia, etologia, antropologia, archeologia, genetica delle popolazioni, linguistica comparata, storia dei miti e delle religioni: discipline molto diverse tra loro ma che tutte gli svelano uno scenario molto più complesso di quello narrato nel racconto biblico. Altro che creazione in sei giorni e ordine fisso della natura! Altro che seimila anni di storia umana! Centomila anni ci separerebbero dal primo uomo anatomicamente moderno e ben cinquecentoquarantacinque milioni dalla prima esplosione di vita marina nel precambriano.

Uno scenario che dà le vertigini. Profondamente inquietante per chi fa della Bibbia il fondamento della propria fede. Ecco quindi che la prima reazione del credente è quella di squalificare ogni dato che non si armonizzi con il racconto biblico. Ogni informazione, anche scientifica, che sembra contrastare con l’annuncio del Dio creatore e redentore si pone in automatico come disinformazione. A maggior ragione la diffidenza del credente viene rafforzata se argomentazioni scientifiche sono utilizzate dallo scienziato agnostico per avvalorare la propria posizione ideologica, mescolando senza distinzione il puro dato accertato con le interpretazioni influenzate dalle convinzioni personali. Ecco contrapporsi pertanto le cosiddette “teorie creazioniste” alle famigerate “teorie evoluzioniste”, allo scopo di difendere l’integrità del racconto biblico della creazione soprattutto dagli attacchi di persone che usano slealmente i propri titoli accademici per difendere posizioni ideologiche atee. La teoria creazionista più diffusa è quella che intende la settimana creativa di Genesi 1 come periodo di sette giorni letterali di 24 ore ciascuno. È quella che ha avuto da sempre il maggiore consenso nella storia della chiesa, almeno finché il progresso scientifico non ha reso sempre più intelligibile la documentazione fossile sulla storia della terra. Il creazionismo letterale è ormai relegato agli ambienti evangelici di tendenza più o meno fondamentalista. E, sebbene esso cerchi in qualche modo di conciliare la posizione letteralista con le evidenze delle scoperte scientifiche, la sua appare in realtà come una battaglia di retroguardia, antistorica e antiscientifica. Una battaglia che per le sue motivazioni riscuote la simpatia del credente ma che può essere sostenuta seriamente solo da chi non ha ricevuto un minimo di formazione scientifica.

Chi ha familiarità con le discipline scientifiche sa che non può essere dimostrata l’assenza di progettualità dietro al fenomeno della vita, ma sa anche che l’evoluzione delle specie biologiche è un fatto. È un fatto che la vita sulla terra, con il lento trascorrere dei millenni, si sia trasformata da forme semplici ed elementari a forme sempre più complesse ed organizzate fino alla comparsa dell’uomo. Il credente, che vive un rapporto personale con il trascendente, non ha bisogno di conferme scientifiche per nutrire la propria fede; tuttavia la sfiducia nella Parola rivelata inevitabilmente induce disorientamento in chi si appoggia ad essa per connotare di qualità e caratteristiche la figura trascendente con cui è in relazione. La Bibbia gli rivela, infatti, che egli si rapporta con un essere onnipotente e unico nel suo genere, un essere buono, che lo ha creato, lo segue nel suo tormentato percorso, gli offre la salvezza dal male e il dono della vita e la propria amicizia, vuole persino adottarlo come figlio. Se questa cornice viene meno, chi lo rassicura del fatto che vi sia risurrezione, o che non si ritroverà tra le Uri dei terroristi o nel Nirvana (ricordate la sorpresa di Fantozzi giunto nell’aldilà?) anziché nel Paradiso? Pertanto il credente informato ha bisogno di definire l’affidabilità delle Scritture in quanto Parola rivelata. Egli parte dal presupposto che il suo Ispiratore è anche l’autore della natura e non può entrare in contraddizione con se stesso, pertanto le contraddizioni tra Bibbia e Scienza non possono che essere apparenti. Non potendo contentarsi di una visione “fissista” del Creazionismo perché troppo mortificante per gl’innumerevoli dati scientifici ormai accertati e, in definitiva, per la propria intelligenza… allora cerca soluzioni più aperte.

E certamente una soluzione molto aperta è rappresentata dalle teorie cosiddette “concordiste”. Queste si definiscono così perché pongono in evidenza la sostanziale concordanza tra la visione scientifica dello sviluppo della vita nel susseguirsi delle ere geologiche e i giorni creativi descritti nella Genesi, se intesi come epoche e non come periodi di 24 ore, che indicano l’ordinamento del creato e l’apparire degli esseri viventi secondo una successione che va dal generale e meno strutturato al particolare e più organizzato, dal Big-bang all’uomo, per intenderci. Anche il Concordismo, tuttavia, presenta dei rischi che sono esattamente opposti a quelli del Creazionismo fissista; se questo, infatti, sacrifica la Scienza per salvare una lettura letterale della Bibbia, l’approccio concordista subordina e piega il testo biblico alle esigenze del paradigma scientifico del momento. E dato che i modelli scientifici si evolvono e si modificano continuamente, man mano che le conoscenze aumentano, anche le ipotesi concordiste sulla creazione dell’universo e della vita subiscono continui aggiustamenti. E così al soggettivismo di una lettura non letterale del testo biblico si aggiunge la provvisorietà delle sue continue reinterpretazioni.

Per evitare la subordinazione del testo biblico alle ipotesi scientifiche o, all’opposto, qualsiasi forma di chiusura e d’arroccamento, altri credenti informati hanno preferito vedere nei primi undici capitoli della Genesi una costruzione letteraria che non pretende offrire la spiegazione scientifica o storiografica degli eventi primordiali; scopo di tale racconto sarebbe invece quello di fornire le ragioni morali e spirituali dell’esistenza e della condizione umana. Tutte le ipotesi che partono da questo presupposto prendono il nome di “Teorie delle forme letterarie”. A questa categoria appartiene la cosiddetta “interpretazione profetica” del racconto delle origini. Essa suppone che gli eventi primordiali siano stati rivelati allo scrittore ispirato con le stesse modalità con cui ai profeti venivano svelati gli eventi futuri. Caratteristica della visione profetica è quella di mancare spesso di prospettiva temporale: avvenimenti distanti tra loro molti secoli vengono descritti come compenetrati o sovrapposti. Non di rado lo scenario profetico è ricco di figure e di connotazioni simboliche e, in ogni caso, il racconto risente dei riferimenti culturali del narratore. Toccherà alla storia discernere tra i vari avvenimenti descritti e collocarli nel tempo. Analogamente, il racconto sulle origini sarebbe una profezia non sulla fine ma sul principio del tempo; la sua interpretazione richiede di calarsi nella prospettiva del narratore e d’avvalersi dell’indagine scientifica per liberare il messaggio profetico dall’abito temporale. Un’altra teoria delle forme letterarie, che oggi va per la maggiore, è quella che definisce il racconto primordiale della Genesi “eziologia metastorica sapienziale”. Traduzione: il racconto, pur presentandosi come storico (con trama, personaggi e colpi di scena), in realtà trascende la storia ed ha un valore “sapienziale”, cioè ha lo scopo di rivelare ad ogni lettore umano il senso ultimo del suo esistere e di spiegare le cause (eziologia) che rendono il presente così com’è. Queste teorie offrono il vantaggio di evitare conflitti e polemiche con il mondo scientifico poiché ne rispettano l’ambito ed eludono il confronto diretto. Tuttavia questo viaggiare in parallelo incontrandosi solo per suddividersi i compiti, presenta almeno due pericoli: quello di cadere in un modo di pensare schizofrenico che lascia coabitare due paradigmi che si vuole al contempo veri ma irraffrontabili, e quello di lasciarsi comunque condizionare dalle ipotesi scientifiche del momento senza il vantaggio del confronto possibile che almeno l’approccio concordista consente. Bisogna inoltre ammettere che tali teorie, per quanto affascinanti, rimangono semplici ipotesi di lavoro: ai primi undici capitoli della Genesi è tutt’altro che facile attribuire un preciso genere letterario. Allora, come affermare con sicurezza che essi non abbiano del tutto carattere storico e che quindi Adamo, Eva, Caino, Enoc o Noè siano solo un artificio letterario?

In realtà le ipotesi che tentano un chiarimento tra le scienze naturali e l’esegesi biblica sono ben più di quelle appena esposte: abbiamo ancora l’ipotesi mitica, l’interpretazione parabolica, le visioni di Adamo, l’agostiniana “conoscenza degli angeli”, e tra le ipotesi letteraliste quella detta del “gap” o restituzionista. E la carrellata continuerebbe. Sono quasi tutte costruzioni che hanno richiesto voli di fantasia non indifferente e che preferiamo tralasciare per non stancare troppo il lettore. Tuttavia, prima della nostra riflessione finale, voglio almeno ancora soffermarmi sulla teoria del Disegno Intelligente che tante polemiche ha sollevato soprattutto tra l’establishment scientifico d’oltreoceano. Lo faremo nella seconda parte di quest’articolo.

(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 24 aprile 2007)

venerdì 7 marzo 2008

Etiche da usufrutto

Da qualche mese circola il libro del matematico agnostico Piergiorgio Odifreddi “Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)”. Dopo aver passato in rassegna le incongruenze della Bibbia e i misfatti della Chiesa, egli ravvisa soprattutto nella Chiesa cattolica il vero freno e non la molla del pensiero democratico e scientifico europeo, l’erbaccia che ne ha soffocato lo sviluppo civile e morale e ha condizionato – con le sue pesanti ingerenze – “la vita politica, economica e sociale delle nazioni del Sud Europa e del Sud America (non a caso, le più arretrate dei loro continenti)”. Tra l’altro l’autore ricorda che il termine cretino è un francesismo che deriva da cristiano (chre´tien > cre´tin), per assimilazione dei grulli con i fedeli; infatti, considerando che “metà della popolazione mondiale ha un’intelligenza inferiore alla media”, ciò spiegherebbe la fortuna del cristianesimo. L’autore conclude rivendicando il diritto dei non credenti di adoperarsi per arginare l’influenza del Cristianesimo in generale, e del Cattolicesimo in particolare, “soprattutto quando, come oggi, l’anticlericalismo costituisce più una difesa della laicità dello Stato, che un attacco alla religione della Chiesa”.

Nel suo complesso, il discorso di Odifreddi non dice nulla di rivoluzionario, e le sue critiche o sono superficiali o centrano altri bersagli sia pure di riguardo. La Bibbia non è parola “dettata” da Dio – come il Corano, ove la sola traduzione è già considerata tradimento – ma è parola ispirata da Dio e redatta da uomini imperfetti, condizionati dalla cultura del loro tempo. Così almeno pensano i credenti più informati. Cercarvi incongruenze non dimostra nulla ed è esercizio che non tocca la sostanza della fede. La Chiesa è comunità di uomini, per definizione imperfetti e più o meno intelligenti, come tutti. Che questi abbiano commesso errori – anche nel nome di Dio – lo riconosce la stessa Chiesa. Se dovessero smettere adesso di compierne, vorrebbe dire che Gesù è tornato a nostra insaputa. Per onestà intellettuale, andrebbero pertanto distinti i comportamenti umani, che anche nel nome della religione (come pure della ragione) hanno perseguito interessi particolari, dalle conquiste della nostra civiltà quali libertà, coscienza, diritti dell’uomo e democrazia, che s’ispirano a valori profondamente cristiani. Infine, il non credente ha tutto il diritto, come qualsiasi altro cittadino, di difendere i propri interessi promuovendo azioni lecite e denunziando gli altrui illeciti.

Ciò che invece trovo incongruente nel discorso dell’agnostico autore è quello che potrebbe sembrare un dettaglio marginale: il voler implicitamente rivendicare principi morali superiori, mutuati da una natura senza Creatore. “Se uno non è religioso – egli afferma – ciò non significa che non debba avere un’etica”. E questo possiamo concederglielo. Ma il punto è: da chi o da cosa egli ha effettivamente mutuato tale etica? I principi morali a cui egli si riferisce sono quelli biologicamente determinati? Perché – sebbene sia assodato che i sistemi etici siano influenzati dalle culture di riferimento – ci sono studi che dimostrano che effettivamente esiste un giudizio morale innato, una sorta di grammatica morale universale che si eredita come la capacità linguistica e che ci guida nella definizione di quel che è giusto o sbagliato. Ovviamente i neodarwinisti sostengono che questa facoltà si è sviluppata perché offre alla specie umana un vantaggio evolutivo. Se così fosse, però, non si capisce come mai la nostra morale innata non ci spinga ad eliminare i malati gravi, i figliastri o gli handicappati. La morale diretta solo dal caso e dalla necessità farebbe del monte Taigeto un’istituzione universale. Ma la Bibbia bistrattata da Odifreddi sembra offrire una spiegazione più convincente di questa morale innata. Scrive Paolo: “Certo i pagani non conoscono la Legge data da Dio; ma quando essi compiono ugualmente ciò che la Legge comanda, è come se l'avessero dentro di sé. La loro condotta dimostra che nei loro cuori è scritto ciò che la Legge prescrive. Lo dimostrano la loro coscienza e i loro ragionamenti che si accusano o anche si scusano a vicenda. Tutto ciò sarà chiaro il giorno in cui Dio, per mezzo di Gesù Cristo, giudicherà quel che è nascosto nella vita degli uomini. Questo è il messaggio che io ho ricevuto” (Rm 2,14-16). In altri termini, Dio ha dato ad ogni uomo la capacità innata di giudicare quel che è giusto o sbagliato, perché anche chi non ha conosciuto la religione rivelata abbia la possibilità di crescere moralmente e spiritualmente e d’ereditare la vita eterna. È una “grammatica” semplificata ma efficace allo scopo.

Ma è facile che Odifreddi pensi ad un’etica che sia ben più d’un semplice Bignami biodeterminato. Infatti, identificandosi egli con quella minoranza di intelligenti in quanto tali non adatti ad aderire al Cristianesimo, si suppone che pure la sua morale debba ritenersi d’ordine superiore. Tuttavia, se ci guardiamo attorno, non è che notiamo un coesistere di tanti sistemi etici nel mondo occidentale! Abbiamo l’etica cristiana, basata sulla centralità dell’uomo, sulla solidarietà, sulla giustizia sociale e sulla conciliazione, e abbiamo la cosiddetta “etica della circostanza” affermatasi con la secolarizzazione delle nostre società. Quest’ultima, più che d’un sistema alternativo, ha tutto l’aspetto d’una degradazione di sistema essendo basata sull’unica regola del proprio tornaconto. Gli uomini non sono mai fini ma solo strumenti, utili o disutili, al raggiungimento dei nostri obiettivi. Anche un sistema di valori basato solo sui meriti e che non tiene conto dei bisogni altrui risponde, di fatto, alla logica della suddetta etica.

Il filosofo Jürgen Habermas, esponente di spicco della Scuola di Francoforte, anch’egli non credente, ammette che una società democratica non può sopravvivere senza la solidarietà del cittadino. Quella solidarietà che tende ad inaridirsi con il processo di secolarizzazione. Al 1967 risale il cosiddetto “teorema Böckenförde”, secondo cui il moderno Stato liberale si nutre di premesse normative che, da solo, esso non può garantire. Riprendendo questo tema Habermas si chiede dove possa, la società, attingere forza e ispirazione per contrastare l’inevitabile sfaldamento insito in “una secolarizzazione dai caratteri aberranti”. Osservando la persistenza contro ogni previsione del fenomeno religioso, egli non solo ne prende atto ma propone di assumere positivamente tale fenomeno come “sfida cognitiva” poiché appare chiara la capacità della religione di “alimentare la coscienza normativa e la solidarietà dei cittadini”. In un lungo confronto amichevole, sia Habermas che papa Benedetto XVI, hanno visto nella società post-secolare, quella della caduta delle ideologie e della rinascita della religione, un’opportunità per tradurre e comprendere reciprocamente la lingua laica e la lingua religiosa in un processo d’osmosi e d’arricchimento reciproci, pur nel rispetto delle loro peculiarità.
Allora, se persino correnti importanti della cultura laica prendono atto del bisogno che ha la società democratica secolare di attingere alla religione per “alimentare la coscienza normativa e la solidarietà dei cittadini”, mi chiedo: a quale etica laica si riferisce Odifreddi? Vorrei sperare non a quella della circostanza, quella non solidale, sregolata e opportunista! In tal caso, chiaramente, egli avrebbe poco da farsene vanto. Se invece Odifreddi si riferisce all’etica solidale… beh… allora sta operando un’appropriazione indebita. Egli gode – per usare un’espressione di Romano Guardini – dell’usufrutto che, pur negando la Rivelazione, si appropria dei valori e delle forze che essa ha elaborato.


(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 7 marzo 2007)

giovedì 6 marzo 2008

Pasque di sangue

Una notizia di questi giorni su cui riflettere riguarda il ritiro di un libro dalle librerie. L’autore è Ariel Toaff, figlio di Elio Toaff, il noto rabbino capo emerito di Roma. Ariel è professore di Storia del Medioevo e del Rinascimento all’università israeliana Bar-Ilan, un docente stimato dai colleghi e dagli studenti. Nel suo ultimo saggio, dal titolo “Pasque di sangue”, egli giunge alla conclusione che l’accusa rivolta in passato agli ebrei di praticare l’uccisione rituale di bambini cristiani, in occasione della Pasqua, potrebbe avere un fondamento di verità. Gruppi sparuti di ebrei fondamentalisti, tra l’XI e il XV secolo, per reazione all’intolleranza e alle persecuzioni messe in atto dai cristiani, potrebbero realmente aver compiuto questi crimini abietti in occasione della Pasqua ebraica. Io non ho ancora letto il libro e, non essendo un esperto di medievalistica, non avrei comunque gli strumenti per esprimere un giudizio informato sia di merito che sul metodo. Lo storico Sergio Luzzatto, anch’egli ebreo, ha recensito l’opera sulle pagine del Corriere della Sera dandone un giudizio positivo e definendo quello dell’autore “un gesto di inaudito coraggio intellettuale”. Tuttavia, in generale, l’accoglienza data al libro dalla comunità ebraica, sia in Italia che nel mondo, è stata di aperta ostilità. Anche coloro che non hanno letto il libro, avrebbero espresso quanto meno perplessità sull’opportunità di occuparsi di questa storia, a maggior ragione per sostenerne l’autenticità. Lo stesso autore – apostrofato con epiteti quali “vampiro”, traditore e rinnegato – avrebbe rivelato d’essere stato caldamente “consigliato” di non farsi vedere a Roma dalle parti del quartiere ebraico. Persino l’università Bar-Ilan, copiosamente sovvenzionata con i fondi degli ebrei ortodossi americani, nonostante egli goda della considerazione e della solidarietà dei colleghi, ha ritenuto doveroso prendere le distanze da Toaff; accusandolo di inadeguata “sensibilità e prudenza nel gestire il libro e la sua pubblicazione”. Da qui il dichiarato rincrescimento dell’autore “per le interpretazioni errate” attribuite al suo lavoro e la decisione di ritirare il volume dalle librerie per poterne rielaborare i passi più controversi.

Ora, come dicevo, non è per prendere posizione a favore o contro le tesi di Ariel Toaff che mi soffermo su questa vicenda. Ciò che invece mi dà soprattutto da pensare è la pesante campagna di discredito a cui vengono sottoposte l’opera sua e persino la sua persona. “Beato l’uomo che non si siede sullo scanno degli schernitori”, si legge aprendo il libro dei Salmi. Eppure di schernitori il povero Toaff ne sta incontrando a milioni proprio tra la sua gente. Certo, il timore degli ebrei che ogni argomento sia buono per rinfocolare gli odi contro di loro è tutt’altro che infondato. Se il Capo dello Stato ha sentito l’esigenza di ribadire il suo pubblico no all’antisemitismo “anche quando si travesta da antisionismo” è perché egli ritiene concreto questo pericolo, non solo a destra degli schieramenti politici e religiosi, ma soprattutto presso certa sinistra che nutre tenera simpatia per figuri altrimenti famigerati, quali il dottor Alzawairi o il presidente Ahmadinejad, solo perché antiamericani e antiebraici. Ma è poi certo che sia utile nascondere le verità storiche o, peggio ancora, tappare la bocca a chi diffonde idee che riteniamo pericolose? Pensiamo al decreto Mastella sul negazionismo che ha di fatto reintrodotto il reato d’opinione. È più utile turare la bocca a quegli imbecilli che negano l’Olocausto o lasciare sempre a chiunque la libertà di dire come la pensa? Perché la storia c’insegna che la stessa legge che oggi costringe al silenzio il mio avversario domani sarà utilizzata per costringere me al silenzio. Il processo alle idee è l’inizio del totalitarismo. Non possono esserci limiti alla libertà d’opinione: essa è per tutti o per nessuno. Questa furia contro Toaff, a prescindere dalle sue ragioni, offende proprio la libertà di pensiero e di coscienza; e soprattutto gli ebrei, che la persecuzione l’hanno abbondantemente provata sulla loro pelle, dovrebbero dare esempio di tolleranza. Per le idee e ancor più per le persone che le esprimono.

Massimo Introvigne ci suggerisce una chiave di lettura su questa vicenda che si spiega con il “clima in certe università israeliane dilaniate fra una componente religiosa e una laicista”. Clima che, in realtà, è quello dell’intera società israeliana ove la popolazione degli haredim, gli ultra-ortodossi, è in piena espansione demografica e minaccia la laicità dello Stato nelle sue scelte politiche e nella ridefinizione delle libertà individuali. La componente laica e produttiva della nazione vive naturalmente con apprensione l’affermarsi di questa compagine scarsamente produttiva ma sempre pronta a chiedere esoneri, privilegi e finanziamenti, e a pretendere d’imporre la propria visione retriva, razzista e intollerante nel governo della cosa pubblica. Nulla di più naturale, pertanto, in questo clima, per un liberale d’Israele, andare col pensiero ai fanatici giudei del Medioevo, che usavano nei loro riti il sangue dei bambini cristiani gettando discredito sull’intera comunità ebraica, mentre si pensa ai fanatici di casa che, mutatis mutandis, ottengono un risultato analogo, tenendo in ostaggio l’intera nazione israeliana e proiettando all’esterno un’immagine che non è indicativa della mentalità dell’intera popolazione. Tuttavia se Introvigne getta luce sul contesto che spiega l’iniziativa di Toaff, dice poco sulla reazione violenta e generalizzata che nel mondo si è scatenata contro lo studioso. Non sono infatti solo gli ultra-ortodossi che si sono scagliati contro Toaff ma l’intera comunità ebraica con poche significative eccezioni. Dato che gli episodi non mancano d’altri linciaggi balzati alle cronache (si pensi all’accoglienza riservata al libro di Jimmy Carter, “Palestine: Peace, not Apartheid”) sorge il dubbio che per gli ebrei della diaspora l’unica libertà di pensiero ammissibile sia quella di pensare come loro. In tal caso è evidente che essi debbano risolvere un problema di tolleranza all’interno della loro comunità, a maggior ragione se temono l’intolleranza altrui sempre in agguato nei confronti dei diversi. Non è solo un fatto di coerenza, ma direi proprio di sopravvivenza. Ricordiamo che il peggior nemico della pace in Israele non è stato il terrorista Arafat bensì lo zelota Yigal Amir, l’assassino di Rabin. Un pio ebreo ortodosso studente presso quella stessa università Bar-Ilan ove insegna il nostro Toaff. “Ho agito – dirà – in obbedienza alla Halakhah, la legge ebraica, che prescrive sia soppresso chiunque ceda al nemico anche un solo lembo della terra dei padri”. Amir non è purtroppo un outsider, magari squilibrato. Moltissimi la pensano come lui e cresce il numero di coloro che approvano il suo gesto. Sarà la sindrome del popolo accerchiato. Ma sa tanto anche di sindrome del popolo eletto. Per chi ne è affetto – poco importa se Cattolico, Testimone di Geova o Israelita – i dissidenti interni sono dei rinnegati, e quelli esterni semplicemente filistei o cananei. Tutti comunque privi della grazia di Dio, custoditi per la geenna. Con buona pace della tolleranza e del rispetto dovuto al proprio interlocutore in quanto persona.


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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 24 febbraio 2007)

mercoledì 5 marzo 2008

I dieci Re del nocciolo duro

Ho sentito parlare, per la prima volta, di Europa a doppia velocità quando ancora era ministro degli Affari esteri Gianni De Michelis. Da allora molte cose sono successe: se l’introduzione della moneta unica ha reso più forte e stabile la valuta, la corsa all’aumento dei prezzi ha contribuito a diffondere sentimenti euroscettici; l’accordo sulla costituzione europea, che avrebbe dato all’Unione più efficaci strumenti di governo, è fallito miseramente in una ingloriosa bagarre sciovinistica; nel frattempo i Paesi che dovrebbero decidere all’unanimità sono diventati ventisette; le recenti crisi internazionali hanno offerto il solito desolante spettacolo di politiche estere meschine e frammentate, perfino contrapposte. L’Europa è percepita dal resto del mondo al contempo come gigante economico e come nano politico-militare. Il cosiddetto superministro degli esteri UE, in un recente suo viaggio presso le cancellerie mediorientali, si è sentito dire: voi europei limitatevi a scucire i soldi e impicciatevi degli affari vostri. Questa identificazione con il giullare ricco ovviamente va stretta agli statisti europei sebbene essi stessi l’abbiano determinata. Ed è comprensibile che soprattutto gli stati pionieri dell’unificazione pensino a soluzioni alternative per uscire dal guado in cui si trovano impantanati ormai da quasi un lustro. Ed ecco così che l’idea mai sopita di Europa a doppia velocità riprende vigore, sia pure con una terminologia rinnovata ed immagini d’effetto. Si parla di iniziativa degli “Stati pionieri”, di forme di “cooperazione rafforzata”, di sistema delle “geometrie variabili”, con la mente ad accordi paralleli a quelli comunitari, qual è stata ad esempio la creazione dello Spazio Schengen. Si pensa ad un trattato che aggreghi quei Paesi determinati ad accelerare la reciproca integrazione, a cominciare da una comune politica estera anche in tema di difesa. Il progetto ormai è così sentito che persino i suoi detrattori si limitano a raccomandare che esso non si sviluppi a danno di quei Paesi non intenzionati o non ancora pronti ad aderirvi. Quando io ne sentii parlare, invece, era ancora un’idea isolata riferita quasi incidentalmente dai mezzi d’informazione. Eppure già allora colpì subito la mia attenzione. C’era una spiegazione, e vi chiedo un po’ di pazienza per seguirmi nel mio ragionamento. In quel periodo stavo approfondendo le mie conoscenze delle profezie apocalittiche, che si trovano in parecchi libri della Bibbia ma in particolare nell’Apocalisse di Giovanni e nell’ingiustamente bistrattato libro di Daniele. Caratteristica delle visioni profetiche di quest’ultimo è quella di riproporre, pur con immagini diverse e con l’aggiunta di sempre nuovi particolari, il medesimo scenario: i quattro imperi universali che, partendo da Babilonia, si sarebbero succeduti sino alla fine dei tempi quando Cristo avrebbe posto fine al dominio degli uomini per instaurare il proprio regno eterno. Tutto qui. I commentatori cristiani fino a Girolamo hanno pressoché sempre associato queste entità politico-militari con gl’imperi babilonese, medo-persiano, greco-macedone e romano. Quest’ultimo viene raffigurato come il più forte e terrificante ma anche come il più fragile nelle sue fasi successive. Nel sogno della statua l’impero Romano è rappresentato dalle gambe di ferro, ma poi giunti ai piedi e alle dita il ferro si trova mescolato a terracotta in un amalgama inconsistente e instabile, in altri termini disunito. Nella visione delle quattro bestie feroci (il leone per Babilonia, l’orso per la Medo-Persia, la pantera per la Macedonia e la belva inapparentabile per Roma) quest’ultimo impero è descritto come una fiera “spaventosa, terribile, dotata di una forza straordinaria; aveva grandi denti di ferro per divorare e stritolare le sue vittime, e calpestava tutto quel che non mangiava. Era assolutamente diversa dalle tre bestie precedenti e aveva dieci corna” Dn 7,2. “Le dieci corna rappresentano dieci re…” (v. 24). Interessante l’accostamento delle 10 corna-re con le 10 dita fragili della statua. “Le dita fatte di ferro e terracotta indicano che questo regno sarà in parte forte e in parte fragile; esse mostrano anche che alcuni re faranno alleanza attraverso matrimoni ma, come il ferro non si mescola con la terracotta, queste alleanze non saranno stabili” (7,42-43). L’Impero Romano d’Occidente, al di qua del Reno e del Danubio, tra l’Illiria e la Lusitania, si sfaldò in una decina di stati, che ancora oggi conservano una certa omogeneità culturale. Vari ma vani sono stati i tentativi di riunificarli per ricostituire l’impero, da Carlo Magno a Hitler. Neppure i matrimoni tra le case regnanti d’Europa hanno raggiunto lo scopo. Tuttavia dal secondo dopoguerra questa “missione impossibile” non appare più tale. L’Apocalisse di Giovanni ritorna sulle immagini di Daniele arricchendole di ulteriori informazioni. Al capitolo 13 troviamo una bestia dall’aspetto spaventoso ma familiare perché ricapitola in sé le caratteristiche delle quattro fiere di Daniele: “Era simile a una pantera. Aveva zampe come quelle di un orso, e una bocca come la bocca di un leone” (Ap 13,2). È come se Giovanni volesse rimarcare il progetto e la natura comuni di questi poteri ispirati da una medesima mente: quella del drago (v. 2), cioè di Satana (cfr 12,9). In questa bestia ritroviamo anche le 10 corna (v. 1). In più, rispetto alla descrizione di Daniele, appaiono sette teste di cui una, verosimilmente la penultima, viene descritta come mortalmente ferita (v. 3). Se è vero che tali teste rappresentano le varie fasi del governo umano da Babilonia alla fine dei tempi, allora questa testa ferita dovrebbe descrivere lo stato attuale in cui versa l’Europa dei nostri giorni, quella delimitata dai vecchi confini dell’Impero, che politicamente e militarmente conta nel consesso mondiale quanto il due di briscola. Però, attenzione, Giovanni ci dice che questa ferita in apparenza mortale sarà guarita e “allora la terra intera presa d’ammirazione, andò dietro alla bestia” (v. 3). Per il futuro dobbiamo aspettarci che l’Europa riprenda autorevolezza, anche se per poco tempo. E qui torniamo alle dieci corna, cioè ai dieci re della missione ormai possibile. Questi stati egoisti e opportunisti, tutti tesi a fare i propri interessi, eppure per la prima volta catturati dall’idea dell’unificazione; riottosi a cedere potere a quest’entità sovranazionale eppure costretti a farlo. Costretti da chi? Giovanni ci rivela pure questo: “Dio infatti ha messo loro in cuore di realizzare il suo disegno e di accordarsi per affidare il loro regno alla bestia, finché si realizzino le parole di Dio” (17,17). Ecco perché sono interessato ai movimenti, potremmo dire sovrannaturali, di questa decina di stati dello “zoccolo duro” verso l’unione politica. Non perché ci tenga che l’Europa torni a contare; soprattutto se penso quanto male utilizzerà il suo potere (cfr v. 14). Ma perché questo è un sicuro segno della fine, uno dei pochi inequivocabili e veramente a ridosso della Parusia! Infatti è detto che tale unione politica, e il potere che le deriverà, dureranno “per un’ora soltanto” (v. 12), cioè per un tempo brevissimo. E così, finalmente, verrà posta fine all’esperienza disastrosa dei governi umani di cui nessuno avrà nostalgia. “Al tempo di questi re, il Dio del cielo susciterà un regno che non sarà mai distrutto e non cederà mai il dominio a un'altra nazione. Questo regno durerà per sempre, dopo aver distrutto tutti i regni precedenti e aver messo fine alla loro esistenza” (Dn 2,44).


Per approfondire: Due bestie che si supportano

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 18 febbraio 2007)

martedì 4 marzo 2008

Il discorso profetico di Gesù

“Colui che non ha visto il Tempio di Erode in vita sua, non ha mai visto un edificio maestoso”, recita il Talmud. Il tempio era il simbolo più sacro dell’identità ebraica. Quello di Erode fu il terzo rifacimento e sembra che superasse in splendore persino l’opera originaria di Salomone. Il riflesso della luce diurna sui marmi e sugli ori che vi furono profusi senza risparmio conferiva all’opera un aspetto sovrumano, come se fosse calata dal cielo in anticipazione al regno messianico che l’aspettativa comune riteneva ormai prossimo. Non sorprende pertanto la fierezza con cui i discepoli additarono la costruzione al loro Maestro. Ciò che invece dovette molto sorprendere loro fu la sua risposta: “Vedete tutto questo? Vi assicuro che non rimarrà una sola pietra sull'altra. Tutto sarà distrutto” (Mt 24,2). Gesù usciva per sempre dal Tempio, dopo aver cacciato i mercanti e aver pronunciato il suo ultimo discorso pubblico, decretando di fatto la propria condanna a morte. Giunti che furono sul Monte degli Ulivi, da cui si dominava con uno sguardo la città e la spianata del Tempio, Gesù si sedette con lo sguardo rivolto alla maestosa costruzione. Allora i quattro discepoli più confidenti «si avvicinarono a lui in disparte e gli chiesero: “Puoi dirci quando avverranno queste cose? E quale sarà il segno del tuo ritorno alla fine di questo mondo?”» (v. 3). Questa domanda è davvero illuminante per entrare nella psicologia di coloro che attendono l’evento finale della Storia, come d’altra parte è ugualmente illuminante la risposta che seguirà, non solo per la luce che Gesù getta sugli eventi futuri, ma per ribadire la cautela con cui Dio passa informazioni sui fatti non ancora avvenuti. Nella domanda rivolta a Gesù appare chiaro che i discepoli associano la distruzione del Tempio (e quindi di Gerusalemme) con la fine del mondo. Questo accostamento è del tutto naturale perché nelle profezie dell’Antico Testamento raramente la prima venuta del Figlio di Dio viene distinta dalla seconda. L’uomo del dolore, che deve patire per i peccati dell’umanità, viene descritto in Isaia 53, in Zaccaria 13, in qualche Salmo, ma in genere di lui si parla pochissimo per privilegiare il momento finale del ritorno in gloria. Per gli ebrei il “giorno del Signore” comprendeva al contempo il giudizio finale d’Israele e il castigo definitivo dei popoli pagani subito a ridosso dello stabilimento del Regno di Dio. Ecco perché per i discepoli la distruzione del Tempio non poteva che associarsi alla fine del mondo. Nella sua risposta Gesù non identifica i due avvenimenti. Anzi spiega chiaramente che tra il castigo della nazione ebraica e il giorno del giudizio ci sarebbe stato un “tempo dei gentili” (gentile = non ebreo) durante il quale Gerusalemme sarebbe stata calpestata e interdetta ai superstiti ebrei esiliati in paesi stranieri (cfr Lc 21,24). Egli tuttavia non definisce la lunghezza di quel tempo; anzi, nel descrivere la distruzione della città e il tempo della propria parusia, sfuma l’uno sull’altro i due avvenimenti come a voler rimarcare le analogie dei loro contesti (sorgere di falsi cristi e falsi profeti, formalismo religioso, rapacità e mancanza d’amore fin dentro la famiglia, intolleranza, persecuzione, conflitti ad ogni livello, carestie, epidemie, catastrofi nel mondo fisico). Ma sfuma i due eventi anche per misericordia verso i suoi interlocutori. Si dice che Dio rivela quello che fa ma non quando lo fa. È un’estremizzazione, ovviamente, poiché nella Bibbia non mancano le profezie accompagnate da riferimenti cronologici. Ma è anche vero che queste sono molto rare. Conoscere i tempi spesso scoraggia e non aiuta a tenere un atteggiamento di attenzione e di preparazione. La prospettiva dei nostri pochi anni mal si concilia con i millenni di Dio. L’attesa escatologica iniziò con la cacciata dall’Eden. Eva dovette pensare che la profezia della vittoria sul serpente stesse per compiersi con la nascita di Abele. Ma tra Abele e il Messia ne sarebbe corso di tempo! Intanto ogni generazione di fedeli sperò in una liberazione vicina. Gli stessi profeti, che pure desideravano meglio comprendere le rivelazioni ricevute (cfr Lc 10,23-24; 1 Pt 1,10-12), non sempre trassero un incoraggiamento dalla luce ricevuta. Mentre a Daniele veniva spiegato il senso di una visione riguardante la fine dei tempi, egli ne fu sconvolto e stette male “per qualche tempo” (Dn 8,27). E l’angelo che gli parlava gli chiese di tenere “segreta questa visione, perché essa” riguardava “un'epoca ancora lontana!” (v. 26). Pertanto non dovremmo stupirci della cautela con cui Gesù parlò degli eventi futuri. Pensiamo che la Chiesa nascente avrebbe potuto affrontare con la stessa determinazione fatiche, rinunce, opposizione e persecuzione se avesse saputo che l’incontro con l’amato Salvatore si sarebbe fatto attendere ancora, addirittura, per millenni? «Allora quelli che si trovavano con Gesù gli domandarono: “Signore, è questo il momento nel quale tu devi ristabilire il regno per Israele?”. Gesù rispose: “Non spetta a voi sapere quando esattamente ciò accadrà: solo il Padre può deciderlo”» (At 1,6-7). Scopo della profezia non è quello di soddisfare la curiosità bensì quello di sostenere la fede. E tutte le informazioni che giovano in tal senso sono garantite. Gesù affermò che il Tempio sarebbe stato distrutto nel corso di quella generazione e così avvenne davvero: nel 70 d.C. per mano del generale romano Tito, di lì a poco imperatore. La struttura, terminata appena sei anni prima, era così imponente che – racconta Giuseppe Flavio – lo stesso Tito esclamò: “Davvero… abbiamo fatto la guerra insieme con Dio e fu Dio che da questa fortezza tirò abbasso i giudei! Poiché mani d’uomini o macchine che cosa possono contro queste torri?” (Guerre Giudaiche, VI, 409). Quanto alla sua venuta finale, Gesù dette solo degli elementi di contesto per riconoscerne il tempo ed anche per invitare ad affrettarlo. Non che tali elementi siano specifici ed esclusivi di quel periodo: il raffreddamento degli affetti naturali o le guerre o i terremoti si sono sempre verificati. Egli stesso invita a non deformare l’analisi della realtà con gli occhi del desiderio (“…ma non sarà ancora la fine… Ma tutto questo sarà come quando cominciano i dolori del parto” Mt 24,6-8). Tuttavia tutti insieme, così generalizzati, intensi a tal punto come iniziamo ad osservarli oggi lascia sospettare che quello scenario non sia poi così remoto, in un futuro che sicuramente non ci toccherà. Insomma, è come se Gesù nel suo pensiero riunisse due grandi crisi, una prossima che stava per riguardare Israele ed una lontana che avrebbe riguardato il mondo intero, e ne ponesse a confronto le situazioni comuni per fornire elementi di conforto e di orientamento ai suoi discepoli di oggi come d’allora. Ne viene fuori uno scenario che potremmo riassumere in questa progressione: l’annunzio dell’Evangelo a tutto il mondo (Mt 24,14), l’aperta opposizione ai principi amorevoli della legge di Dio (v. 12), una grande sofferenza generalizzata (v. 29 p.p.), segni nel mondo fisico e nel cosmo (v. 29 s.p.; Lc 21,11). Su una di queste variabili possiamo sicuramente influire: "Intanto il messaggio del regno di Dio sarà annunziato in tutto il mondo; tutti i popoli dovranno sentirlo. E allora verrà la fine” (v. 14). Il cristiano in attesa del gran giorno non si limita a recitare: “Venga il tuo regno!”. Ma è colui che si sforza di realizzare nella propria vita i principi di tale regno e di farsene testimone.
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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 4 febbraio 2007)