Della dottrina che andava predicando, forse l’argomento meno facile che Paolo stentava a comunicare ai pagani dell’Impero fu quello della risurrezione. La testimonianza più esplicita di quella difficoltà ci è riportata nel libro degli Atti, al capitolo 17, ove viene riferito il discorso che egli tenne nell’Areòpago di Atene per annunciare i punti salienti della fede cristiana. Gli ateniesi lo ascoltarono con curiosità mentre egli descriveva il suo Dio come il Creatore di tutte le cose, come il Signore del cielo e della terra che non ha bisogno di nulla ma di cui tutti hanno bisogno, come il Padre che ha stabilito il tempo e il luogo in cui ogni uomo facendo esperienza della vita ha l’opportunità di conoscerlo e di convertirsi a lui, come il Giudice che “ha fissato un giorno nel quale giudicherà il mondo con giustizia. E lo farà per mezzo di un uomo, che egli ha stabilito e ha approvato davanti a tutti, facendolo risorgere dai morti” (v. 31). A questo punto, però, “appena sentirono parlare di risurrezione dei morti” gli ascoltatori dell’Apostolo passarono repentinamente dalla curiosità alla derisione e smisero di ascoltarlo. Da quella sosta nella capitale culturale dell’Impero Paolo raccolse un ben magro bottino. Come spiegare quest’avversione per una dottrina – la risurrezione – certo rivoluzionaria, ma non più di altre? Alcuni hanno affermato che lo spirito del tempo fosse poco interessato alle cose dell’aldilà. Questo per molti era certamente vero. Tuttavia se nell’Impero poterono diffondersi così facilmente i culti misterici – che assicuravano una vita dopo la morte felice e agevole da ottenere per gli iniziati – e lo stesso cristianesimo, è perché c’era anche tanta sete di salvezza tra la gente. Bisogna allora pensare che il concetto di risurrezione, piuttosto che indifferente, era inaccettabile per la mentalità comune. Scriveva Plutarco a proposito della leggenda secondo la quale Romolo era stato assunto in cielo anima e corpo: “Mescolare cielo e terra è stolto. Lasciamo andare tutto ciò e crediamo fermamente, con Pindaro, che il corpo è soggetto a morte, che di tutte le cose è la più potente, ma che l’anima è lasciata viva, come un’immagine dell’eternità, giacché essa sola è divina. Di là essa viene e là torna, ma non col corpo, bensì interamente liberata e disgiunta dal corpo, diventata in ogni parte pura e santa, senza alcuna macchia carnale… Non dunque i corpi dei buoni – contro le leggi di natura – si levano al cielo, ma le anime virtuose – secondo le leggi di natura” (Vita di Romolo, 28). Plutarco, come tantissimi altri, aveva abbracciato con convinzione la visione escatologica di Platone. Il grande filosofo, forte della sua intelligenza speculativa e della sua iniziazione misterica, aveva per così dire messo ordine nella selva di tradizioni sull’aldilà e costruito una dottrina il più possibile coerente sul destino degli uomini dopo la morte. Egli partiva da due presupposti: dall’idea diffusa – e quindi scontata – che l’anima sia immortale, e dalla speranza che vi sia una giustizia divina che non lasci impunite le malefatte degli uomini (“Se… la morte fosse la fine di tutto, sarebbe una fortuna insperata per i malvagi morire” Fedone, 57). Così il filosofo immagina per i peccatori senza rimedio le pene eterne del Tartaro. I mediocri, cioè la gran parte degli uomini, sono invece destinati alla palude Acherusia ove essi si purificano e scontano pene commisurate alle loro colpe. Anche i penitenti che si son macchiati di colpe particolarmente gravi scontano qui la loro pena ma dopo aver soggiornato per un anno presso il Tartaro. Solo coloro che si son distinti per santità di vita sono dispensati da ogni pena espiatoria. Così, tranne i dannati, tutti alla fine sono destinati a vivere “in alto” nelle regioni celesti, in una pura dimora, sciolti da ogni vincolo corporeo, per l’eternità. Tartaro, Acherusiade e Iperuranio come prefigurazione dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso cristiani. Ovviamente in questa concezione dell’aldilà non v’è posto per la risurrezione, come opportunamente rimarcava Plutarco, proprio perché il fine dell’anima è quello di liberarsi del corpo. Tale avversione aveva una ragione. Platone, infatti, immaginava l’anima come scintilla divina, eterna e preesistente, che incedeva per l’universo insieme alla biga della Divinità. Poco alla volta essa si appesantì, perse le ali e cadde sulla terra ove si legò al corpo materiale che assunse come involucro e dimora ahimè corruttibile. Quindi, come un uccello che guarda al cielo, anelito supremo dell’anima è quello di svincolarsi dall’involucro, di rimettere le ali e di librarsi verso il luogo perfetto di provenienza. Perché questo percorso si compia occorrono diecimila anni, afferma il filosofo; uno sconto è previsto per i soli filosofi che se la cavano con tremila. In questo lasso di tempo l’anima è sottoposta a un ciclo “terapeutico” fatto di successive trasmigrazioni in corpi diversi e di supplizi, soprattutto nell’Acherusiade, tra un’incarnazione e l’altra finché essa, purgata e alleggerita, non mette le ali e s’invola verso il mondo perfetto delle idee, l’Iperuranio. Questa concezione dell’aldilà, sistematizzata da Platone, era molto diffusa nel mondo greco-romano. Sicuramente Paolo avrebbe trovato un’accoglienza ben diversa ad Atene se avesse parlato di trasmigrazione anziché dell’inconcepibile risurrezione. Ma la concezione platonica era così radicata che il Cristianesimo, anche nella sua fase d’affermazione, dovette farvi i conti; ben più di quello che siamo disposti ad ammettere. Ricordo quel parroco che curava una rubrica molto seguita agli albori delle tivù locali. Ebbene questi in una delle sue trasmissioni dichiarò apertamente di non credere nella risurrezione. Per lui la retribuzione avveniva tutta al momento della morte quando si stabiliva la destinazione dell’anima. La risurrezione e il giudizio finale sarebbero elementi spuri, posticci e ridondanti. Elementi di disturbo, non necessari nell’economia della salvezza. Dovremmo ammettere che il ragionamento di questo sacerdote – sebbene non condivisibile – aveva una sua coerenza, se non altro nel richiamarsi all’inconciliabilità di due concezioni. Tuttavia, volendo riferirci all’evidente modello, lo stesso Platone, che era persona avveduta e saggia, mise in guardia i suoi ascoltatori dall’accogliere la sua costruzione sull’aldilà come verità dogmatica certa e indiscutibile. Tale fiducia incondizionata “non s’addice a un uomo intelligente”, egli affermò. Ma, ammessa l’immortalità dell’anima, “mi par davvero che le cose debbano essere pressappoco così… val la pena sperarlo” (Fedone, 63). L’escatologia di Paolo si fondava invece su una premessa ben diversa. Anch’egli come Platone carezzava una speranza. Ai cristiani di Corinto che stentavano a credere nella risurrezione chiese di riflettere attentamente sulla portata della loro esitazione. Per amore di sintesi, riassumiamo così le sue parole che troviamo nel capitolo 15 della prima lettera a quella comunità: “Ma vi rendete conto di cosa significherebbe per la nostra fede se non vi fosse risurrezione dei morti? Significherebbe che neppure Cristo è risuscitato, che egli non ci ha salvato dai nostri peccati, che la nostra fede è illusoria, che i nostri cari defunti sono per sempre perduti. E noi, a che pro rischieremmo la vita tutti i giorni per proclamare un falso evangelo? Se abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo i più infelici di tutti gli uomini. Perché se i morti non risuscitano, allora, mangiamo e beviamo poiché domani moriremo”. Ma Paolo ci tiene a precisare che la sua speranza, che altrove egli definisce “beata”, non trae origine da speculazioni umane bensì da un fatto concreto: la risurrezione di Cristo, che lui e tanti altri possono testimoniare: “È risuscitato il terzo giorno, come è scritto nella Bibbia, ed è apparso a Pietro. Poi è apparso ai dodici apostoli, quindi a più di cinquecento discepoli riuniti insieme. La maggior parte di essi è ancora in vita… alla fine è apparso anche a me… Cristo è veramente risuscitato dai morti, primizia di risurrezione per quelli che sono morti… Così, fratelli miei, siate saldi”.
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