venerdì 29 febbraio 2008

Schegge di tempo e sete d’infinito

Soprattutto da giovani tendiamo a considerare la vita come un evento tanto lungo da confondersi con l’infinito. A quest’errore percettivo sicuramente contribuiscono dei fattori biologici. Leggiamo in Ecclesiaste 3,11 che Dio “ha messo la nozione dell’eternità nel cuore” degli uomini. Di tutti gli uomini. Se consideriamo questa tensione bio-mentale verso l’eternità, non è il pensiero d’un futuro senza fine che ci fa difetto. Tant’è vero che siamo disposti a faticare pesantemente con gli studi, con il lavoro, con la costruzione di relazioni per assicurarci un domani decisamente migliore del presente, più ricco, più gioioso, più appagante. Un domani realizzato che ci prefiguriamo come stabile e definitivo, che pervada tutti gli aspetti della vita, affetti compresi. Non a caso ci promettiamo “eterno amore”, e usiamo espressioni come “per sempre”. Usiamo cioè le parole delle favole, ossia di storie a lieto fine che “finiscono” bene ma non terminano. Biancaneve e il Principe Azzurro, dopo essersi liberati della strega cattiva, vivono felici e contenti “per sempre”. Poi però aggirandoci tra le lapidi dei nostri cimiteri leggiamo troppi epitaffi di questo tenore: “… fu sposo devoto, padre affettuoso, lavoratore instancabile, (…) e non ebbe ricompense terrene. Lasciò questa vita prematuramente. Inconsolata la famiglia pose”. Evidentemente, sotto ognuna di queste iscrizioni giace un sogno incompiuto. Sotto una selva sterminata di lapidi altrettanti sogni incompiuti. E man mano che gli anni passano e “si fugge” la giovinezza si accentua pure il contrasto tra la mia storia e il mio sogno. Il nostro corpo si disfa e perde vigore, i nostri cari uno alla volta ci lasciano, e le frustrazioni si accumulano. Anche quando riusciamo ad ammucchiare beni e benemerenze sentiamo il senso della loro precarietà, della loro inadeguatezza, della loro incompleta fruibilità. Comunque non possiamo condividerli con le persone che non ci sono più. Così, pian piano, il nostro sguardo si distoglie dal domani ed anche dal presente, in cui ormai non ci riconosciamo, e si volge indietro dove abbiamo lasciato i nostri affetti e i nostri ricordi. Continuiamo a serbare il senso dell’eternità ma non lo associamo più alla fugace e deludente esperienza di questa vita. Che i nostri giorni non sono eterni, che esiste la morte, è una nozione che apprendiamo molto malvolentieri. Lo dimostrano tutte le tecniche di neutralizzazione che mettiamo in atto per vivere ignorando il fatto che moriamo. Parlare della morte è sconveniente, è argomento tabù, ne abbiamo paura: perché ci colpisce pesantemente, ferisce i nostri affetti e i nostri sogni e ci costringe ad affrontare il problema del senso della vita. Infatti, che senso ha concentrare tutte le nostre energie e tutte le nostre risorse, anche a costo di giocare sporco e di disseminare di cadaveri il nostro percorso di guerra, solo per costruirci un futuro comunque effimero, limitato ai pochi giorni di questa vita? Non è un correre dietro al vento? Eppure in quest’impresa sembra impegnata la maggior parte degli uomini… nonostante avvertiamo istintivamente che un futuro limitato a pochi lustri, cioè un futuro senza avvenire, è un nonsenso, una sorta di condanna a morte. Ed è proprio su questa incoerenza tra il fine e gli strumenti che preferiamo sorvolare: cioè tra la speranza in una vita piena e infinita e l’impegno a conseguire traguardi effimeri e sopravvalutati. Forse quel che ci manca è l’audacia di sganciare da subito tale sete d’infinito dalla scheggia di tempo in cui si consumano i nostri brevi giorni. Non per negare i bisogni contingenti, in una sorta di macerazione e di contemplazione passiva ed estatica delle cose ultime, o per far vita da cicala, senza alcuna pianificazione. Ma per dare il giusto posto e il ponderato valore alle cose. Dalla catechesi di Giovanni Paolo II leggiamo: «Sappiamo che in questa fase terrena tutto è sotto il segno del limite, tuttavia il pensiero delle realtà “ultime” ci aiuta a vivere bene le realtà “penultime”». Certo dobbiamo mettere in conto che questa vita è troppo breve e accidentata per poterla affastellare di traguardi sia pure legittimi ma non ugualmente prioritari. Essa non è che la mesta ma fondamentale overture di una sinfonia eterna che avremo tempo e occasione di riempire di contenuti. Di coloro che camminano in questa prospettiva è detto: “Nella fede morirono tutti questi uomini, senza ricevere i beni che Dio aveva promesso: li avevano visti e salutati solo da lontano. Essi hanno dichiarato di essere su questa terra come stranieri, in esilio. Chi parla così dimostra di essere alla ricerca di una patria: se avessero pensato a quel paese dal quale erano venuti, avrebbero avuto la possibilità di tornarvi; essi invece desideravano una patria migliore, quella del cielo. È per questo che Dio non si vergogna di essere chiamato il loro Dio” (Eb 11,13-16).

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 6 gennaio 2007)