domenica 24 febbraio 2008

Un prato di margherite viola

Marcella era una ragazza innamorata della vita. Coglieva e trascriveva nelle sue poesie le luci, i colori e le forme della natura: il mare trasparente del mattino, il riflesso del sole sui gusci di conchiglia, la macchia vermiglia dei campi di papaveri. Marcella si era ammalata di un male che perdona raramente. Accompagnata dal padre, cominciò a viaggiare per policlinici e si sottopose a visite, consulti e cure, sospinta da quella determinazione che sino in fondo non dispera. Nel frattempo portava avanti il proprio impegno con la scuola, riuscì a diplomarsi a pieni voti ed anche a iscriversi al primo anno di medicina. Poi, in un giorno brumoso e freddo dei suoi diciotto anni, se ne andò, in punta di piedi così come era vissuta. Marcella non parlava mai della morte, però ne scriveva nelle poesie che teneva per sé. In esse il tema dominante era la luce, talora avvilita e stanca, talaltra vittoriosa. Anche se l’approdo inevitabile era “morire su un prato di margherite viola”, in esse si diffonde un’ansia inesausta di luce e la speranza d’un mondo più giusto. Un amico di famiglia, un italianista, nel commentarle vi scorse sullo sfondo gli emblemi di una umanità al suo crepuscolo che sperpera i valori, profana la natura e spegne ogni tremito di luce spirituale. Un’umanità sfrontata che non si vergogna, anzi si vanta d’aver creato una civiltà spietata che genera pena e offesa: l’eredità che lasciamo ai nostri giovani e che spinge spesso questi ad alienanti o esasperate soluzioni. È quest’ultima considerazione che mi ha dato da pensare e che mi ha spinto a raccontare questa storia. Ciò che soprattutto m’è rimasto impresso di quei fatti lontani è l’immagine di quel volto composto e dolente del mio insegnante di lettere, il papà di Marcella, i suoi occhi umidi di pianto invano padroneggiato. Tutti soffriamo per la perdita d’una persona cara, ed è particolarmente inconsolabile il cuore del genitore che sopravvive alla propria creatura. La morte è comunque uno scandalo, l’ultimo dei nemici che Cristo distruggerà (v. 1 Co 15,26), un retaggio che fino a quel giorno pesa su ogni corpo che respira. Tuttavia, una cosa è la morte che sopraggiunge per ragioni imponderabili e su cui non abbiamo autorità; una cosa ben diversa è invece quando siamo responsabili del sangue dei nostri fratelli e, ancor più, dei nostri figli. Nella misura in cui contribuiamo a rendere spietata la nostra civiltà siamo colpevoli della pena e dell’offesa che arrechiamo ai più fragili fino a spingerli a soluzioni esasperate. Nel mondo cosiddetto cristiano il suicidio è la seconda causa di morte dei giovani dopo gli incidenti stradali; forse la prima, se pensiamo che molti incidenti sono in realtà suicidi camuffati. Ed è una tendenza in aumento: la percentuale di suicidio negli ultimi 30 anni è triplicata. Abbiamo anche casi di bambini che si tolgono la vita. Ma ci pensiamo? Quanto vale una società che spinge le proprie creature a farla finita? Possiamo affermare che ha fallito clamorosamente a prescindere dai suoi punti di PIL. Mentre siamo presi a derubarci a vicenda e a litigare sin dentro le aule del Parlamento, coloro che dovrebbero rappresentare il nostro futuro, muoiono inascoltati. Più che mai queste morti sono uno scandalo. «Un giorno Gesù disse ai suoi discepoli: “Certo, gli scandali non mancheranno mai! Però, guai a quelli che li provocano. Se qualcuno fa perdere la fede a una di queste persone semplici, sarebbe meglio per lui che fosse gettato in mare con una grossa pietra al collo! State bene attenti!”» (Lc 17,1-3). Altro che darwinismo sociale… Ne parleremo ancora, se Dio vuole.

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum l' 8 novembre 2006)