sabato 24 maggio 2014

Italiani, brava gente

“Giovanni Falcone è stato applaudito da morto dalle stesse mani che lo hanno pugnalato da vivo. Sembra la parabola di un moderno Gesù Cristo”, scrive il giornalista Mauro Di Gregorio sulla rivista online NanoPress. In questi giorni ricorre l'anniversario della strage di Capaci, il cosiddetto “attintatuni” – come amava chiamarlo Totò Riina – che pose fine all’esperienza umana e professionale del più qualificato magistrato antimafia che l’Italia abbia avuto. E allora giornali e telegiornali fanno a gara per commemorare le doti umane e professionali di questo servitore dello Stato che per la prima volta, dai tempi del prefetto Cesare Mori, turbò il sonno della più nota organizzazione criminale e di coloro che con essa erano collusi. Nessuna testata giornalistica o rete televisiva vuol mancare all’appuntamento dedicando servizi, trasmissioni e persino fiction all’argomento. Penne prestigiose, accademici, politici e uomini delle istituzioni non perdono occasione per rendere omaggio alla statura di quest’uomo e di additarlo come esempio alle giovani generazioni. Io però sono vecchio quanto basta per aver osservato quella vicenda, e al contempo non così rincitrullito da perderne la memoria. Ricordo anzi molto bene l’implacabile ostilità che incontrò sul suo percorso questo magistrato, direttamente proporzionale al suo successo. Talvolta aperta, talaltra subdola e sorda, a cominciare da quella agìta dai suoi colleghi magistrati d’ogni ordine e grado. E ovviamente anche tra i politici, dove s’annida il cosiddetto terzo livello. La prima cosa che veniva da pensare, osservando la vastità e la diffusione di quella ostilità, era il livello d’infiltrazione del malaffare nei gangli vitali dello Stato e, di pari passo, del corpo sociale. L’analogia che veniva alla mente era quella di un tumore che si estende silenziosamente finché la presenza e la pervasività delle metastasi si percepisce dai sintomi che prorompono improvvisamente su tutto il corpo.  Poi però s’intuiva che questa era una lettura semplificata, per quanto vera. Anche persone che godevano di prestigio morale salirono sul banco degli schernitori: cosa pensare di loro? Che fossero anch’essi sul libro paga delle cosche? Invece di molti altri che gettavano fango dall’anonimato della palude rimase il dubbio. Oggi d’alcuni di essi, politici, uomini delle istituzioni o anche solo penne prezzolate, si sa che erano immanicati con il malaffare. Ma di altri sempre oggi si capisce che ferirono e ostacolarono l’eroico magistrato per altri motivi: per invidia, per calcolo politico, per furore ideologico o anche solo per pigrizia intellettuale. Motivi comunque abietti. E oggi fa male ascoltare gli stessi uomini e leggere i medesimi giornali che allora spararono a zero contro l’uomo e il magistrato, insinuando, travisando e denigrando, oggi invece celebrarlo e glorificarlo senza un minimo d’autocritica “in between”, direbbero gl’inglesi. E allora devo dire che ho letto con piacere l’articolo di Di Gregorio che ho inalato come una ventata d’aria fresca, tra tanti altri discorsi pur veri ma ipocriti e di maniera. Concluderei questa mia breve riflessione con un’ultima considerazione. Coloro che ostacolarono Falcone, fino a eliminarlo fisicamente, perché mafiosi o collusi con la mafia suscitano in me meno amarezza di tutti gli altri che invece lo ferirono, lo criticarono, o semplicemente non lo sostennero, per invidia, per calcolo o per egoismo. E non mi riferisco solo ai personaggi famosi che ancora insegnano nelle università, che ricoprono incarichi istituzionali o che hanno fatto carriera nelle redazioni. No, mi riferisco pure agli anonimi cittadini, ai vicini di casa del giudice antimafia infastiditi dalle sirene della scorta e preoccupati d’essere coinvolti in possibili attentati. Sono proprio loro che "meritano" la morte di Falcone e sono giustamente privati della sua opera di pulizia radicale che se adeguatamente sostenuto egli avrebbe potuto compiere. Oggi i loro nipotini, accompagnati dagli insegnanti, visitano l’albero Falcone per appendervi le loro letterine. Spiace per questi poveri ragazzi costretti a vivere in un mondo che i loro padri non hanno contribuito a rendere migliore. Al contempo però consola il fatto che esistano ancora uomini e donne che hanno sete di giustizia e tentano di trasmettere sani valori alle nuove generazioni. Forse non riusciranno ad invertire la tendenza allo sfaldamento sociale che è sotto gli occhi di tutti, però conforta comunque il pensiero che il loro lavoro, almeno a livello individuale, possa un minimo contrastare tale processo.

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