mercoledì 5 maggio 2010

Studentessa aggredita al Colosseo

Di questo lunedì la notizia d'una ragazza in gita scolastica aggredita da uno sconosciuto. È accaduto in piazza del Colosseo dove la studentessa stava giocando con alcuni compagni. Ha spintonato un amico, che accidentalmente ha urtato un passante, facendolo cadere per terra. La ragazza si è prontamente scusata ma ciò non è bastato all’uomo, 38 anni, che dopo essersi rialzato l’ha insultata, l’ha sbattuta a terra con uno schiaffo e ha cominciato a darle pugni sulla testa. Solo l’intervento di alcuni poliziotti ha posto fine all’aggressione. Portata al pronto soccorso la malcapitata è stata medicata e le è stato diagnosticato un trauma contusivo cranico. L’aggressore è stato denunciato a piede libero per lesioni personali.

Ormai la violenza non fa più notizia, è questo è già indicativo di un malessere diffuso. È il sintomo del fallimento di quel supposto processo di evoluzione etico-culturale che, si diceva, stesse conducendo l’uomo fuori dal suo retaggio animale. Sono però ancora in grado di suscitare inquietudine quelle notizie che raccontano di una violenza che supera persino quella presente nelle specie animali più aggressive, ove in genere è presente l’istinto di protezione degli elementi più fragili a cominciare dai cuccioli.

È un po’ come se l’umanità stesse degradando in una sorta di analfabetismo relazionale di ritorno. Qualcosa di analogo a ciò che avviene a quei branchi di cani inselvatichiti che hanno perso i condizionamenti della domesticazione e al contempo, in parte, gl’istinti ancestrali del loro cugino, il lupo. Così, ecco, che privati anche della regolazione dei comportamenti geneticamente determinati risulta molto più rischioso imbattersi in un branco di cani che in un branco di lupi.

Come sempre, trovo interessanti i commenti all’articolo lasciati dai lettori, sia per gli spunti di riflessione che offrono sia perché essi rappresentano il polso e la sensibilità dell’opinione pubblica. Consentono di osservare l’impatto della notizia sulle coscienze, come essa viene spiegata e interpretata dall’uomo della strada che legge i giornali. In questo caso i lettori si sono divisi quasi a metà tra chi condanna il comportamento dell’uomo iperreattivo e tra chi condanna la ragazza che ne ha provocato la caduta. Diverse le spiegazioni e gli scenari prefigurati da questi ultimi, anche a causa della stringatezza con cui i giornali hanno riportato la notizia. Alcuni si son chiesti se davvero quella caduta sia stata accidentale o se piuttosto non sia stata provocata di proposito. Essi fanno notare il modo selvaggio in cui si comportano molti dei ragazzini in gita, ma anche in aula e ovunque fanno gruppo. Fanno notare che il problema parte dalle famiglie, dai genitori che non sanno educare i figli alla convivenza civile e al rispetto del prossimo; mai un rimprovero o una punizione dati al momento opportuno; genitori che spesso sono completamente assenti, salvo quando si tratta di prenderne la difesa acritica contro gl’insegnanti e chiunque altro osi eccepire sull’educazione e la bontà delle loro creature. Tutti d’accordo pertanto in questo gruppo sull’indignazione provata dall’aggressore mentre dei distinguo vengono fatti sulla sua reazione. Alcuni giustificano anche questa. “Magari quest’uomo aveva le cose sue per la testa, era già nervoso di suo”, affermano. Altri convengono che la reazione sia stata eccessiva e che questi si sarebbe dovuto fermare al sonoro ceffone. Altri ancora ritengono che l’uomo avrebbe dovuto limitarsi al rimprovero ed, eventualmente, a segnalare il comportamento agli insegnanti. Senza voler escludere la punizione. Qualcuno propone la pulizia dei bagni della scuola per 6 mesi: “Lo fanno già le donne delle pulizie… e ancora campano. Anzi, i figli dei borghesi, che teoricamente sono più ben educati e colti, dovranno pulire i cessi insieme al papà, che ne so, primario in cardiologia”.

Il secondo gruppo di lettori, polemizzando con il primo, parte da un presupposto del tutto diverso che prescinde dal grado di colpevolezza della ragazzina. Anche quando si ha ragione, l’uso della violenza pone subito dalla parte del torto. Questa è la prima regola di una società civile (“Se per accidente io la urtassi, anziché accettare le mie scuse lei mi prenderebbe a schiaffi e calci per insegnarmi che cos’è l’educazione? È questa la sua idea di civiltà?”). La seconda regola è che le donne non si toccano. Men che mai una ragazzina. “Un trentottenne che gonfia di botte una ragazzina… e c’è pure chi lo difende!”. “Avrebbe potuto agire in mille modi civili anche per insegnare la civiltà. Così ha insegnato solo la violenza”. “Non ho letto un commento sull’azione assurda dell’individuo, urtato senza intenzione e che aveva per giunta ricevuto le scuse dalla ragazzina”. “Tu mi hai urtato, presumo che tu lo abbia fatto apposta, quand’anche tu non lo abbia fatto apposta sono arrabbiato lo stesso, quindi ti gonfio di botte… tanto più che sei una ragazzina e non puoi difenderti più di tanto: questo il paradigma di collegamenti neuronali di elevatissimo livello. Quale esempio di civiltà, uno splendore”. “Quanta violenza! Se per un semplice urto si arriva a malmenare una ragazza, invece di sgridarla semplicemente, vuol dire che siamo proprio non alla frutta, ma al digestivo in questo tempo disgraziato”.

C’è anche chi la butta in politica. “Strano che accada a Roma, dove sindaco e giunta rappresentano il partito dell’AMOOORE, città pregna di cortesia, civiltà, educazione e rispetto per il prossimo, strano davvero!”. A questa provocazione, un lettore d’opposta appartenenza politica risponde: “Mi faccia capire il suo ragionamento illuminato, per cortesia. Se al governo del paese e della capitale ci fossero stati i suoi padroni in rosso, il tizio anziché schiaffeggiare la ragazzina le avrebbe porto una dozzina di rose rosse?”. Ma una lettrice trova un nesso: “Un paese di cafoni, maneschi, nevrastenici e stupidi. Davvero un bel paese! Forse la base vuole sempre più somigliare ai suoi rappresentanti ‘legittimamente eletti’”. È un nesso circolare tra eletti ed elettori, una gara per far prevalere sempre più l’egoismo, il tornaconto, la rapacità e le ragioni del più forte. Un altro lettore coglie ancor meglio quest’elemento disgregativo: “Quel che è peggio è l'inabissarsi di certe notizie nel mare della normalità, tra mamme che gettano i figli dal balcone, autisti che uccidono in stato d'ebbrezza e fanciulli che si alcolizzano per esser grandi. Oramai siamo tornati alla legge del più forte, soli od in branco non ci si rispetta più, si cerca di vincere a qualsiasi costo”.

Attenuandosi sempre più le consuetudini di cooperazione e buona convivenza, prende il sopravvento l’aggressività che è molto forte nella specie umana. Così forte da tradursi in comportamento predatorio nelle relazioni intra-specifiche: evento insolito nelle altre specie animali. Si traduce anche in comportamento competitivo, che invece è comune nel mondo animale tra individui della stessa specie per stabilire uno status, la precedenza o l’accesso a una risorsa. Però anche la competitività è tenuta sotto controllo nel mondo animale da vari comportamenti e meccanismi, perché porta vantaggi solo indiretti alla collettività, che tendono ad annullarsi con l’esasperazione dei comportamenti individualistici. Anche in questo gli animali danno dei punti agli uomini. Solo l’educazione alla cooperazione e alla solidarietà può far superare all’uomo il proprio retaggio animale. Mancando questa, l’uomo si ritrova subito al di sotto della naturale animalità, così come avviene nei cani inselvatichiti incapaci di regolare la propria aggressività. È stato dimostrato che maggiori sono le capacità cognitive di una specie, maggiore importanza assume l’ambiente di sviluppo nel determinare il livello di aggressività degli individui di quella specie. Pertanto, a maggior ragione nell’uomo, se già egli su base genetica ha un ottimo potenziale d’aggressività, possiamo immaginare quanto questa possa essere ulteriormente esaltata dagli stimoli ambientali e dall’addestramento. L’aggressività, al contrario della cooperazione, porta inevitabilmente alla disgregazione sociale. Sono ormai tanti i segnali che ci vedono puntare verso quest’esito di esasperato individualismo. La legge a cui tendiamo è quella del branco, d’un branco disgregato che non sa proteggere neppure i propri cuccioli.




lunedì 12 aprile 2010

Burattinai o burattini?

Di questi giorni la notizia che dodici disegni fatti dal giovane Hitler tra il 1908 e il 1909 a breve saranno messi all’asta. “I disegni, a carboncino e matita, sono molto ordinari. La mano non è sicura e le prospettive non sono perfette”, afferma Michael Liversidge, che insegna storia dell’arte all’università di Bristol. “Non v’è alcuna traccia di genio artistico. Però, se l’Accademia lo avesse ammesso, Hitler sarebbe potuto diventare un discreto pittore”. Il fatto è che l’Accademia non lo ammise. Egli ci provò per due volte di seguito ma in entrambe venne respinto. La bocciatura, per lui che sognava di diventare un grande e famoso pittore, fu un vero e proprio trauma. A giudizio degli storici, forse mai una bocciatura fu così gravida di conseguenze. Ma quei professori non potevano sapere, come pure lo stesso giovane Hitler non sapeva quel che sarebbe diventato, cosa avrebbe fatto della sua vita né tanto meno di quella altrui.

Generalmente le biografie degli uomini che soggiogano le nazioni, scritte per lo più a cose fatte, descrivono costoro come eroi sovrumani, con idee subito chiare e un destino ben delineato e ineluttabile. Ma i fatti veri, non quelli alterati dall’agiografia, raccontano cose diverse. Il famigerato dittatore tedesco non fa eccezione. Prendiamo il suo omologo italiano, Mussolini. Uomo dalla storia sanguinosa, misteriosa ma, soprattutto, contraddittoria. Diplomatosi dai Salesiani, provò per qualche tempo a fare il maestro di scuola, ma con scarsi risultati. Colui che vorrà “spezzare le reni” a mezzo mondo dovette arrendersi di fronte ad una seconda elementare perché, per sua stessa ammissione, non era stato capace “di risolvere sin dal principio il problema disciplinare”. Da apostolo del socialismo, che incita il popolo alla sommossa, si trasforma in un nazionalista intransigente, devoto all’ordine e amante della disciplina. Il futuro fautore dei Patti Lateranensi, scopre inizialmente la sua “strada” nel giornalismo rovente e anticlericale. Si firma “il vero eretico” e accusa i preti di essere i “gendarmi neri al servizio del capitalismo”. Un ordinario padre di famiglia, ma con amanti e figli illegittimi da internare in manicomio, se l’opportunità lo richiede. Non fu certo un campione di coerenza. Desiderava affermarsi nella vita più d’ogni altra cosa ma non per la forza delle sue idee, che potevano anche essere sacrificate. Fu un opportunista e certamente per lungo tempo fu alla ricerca della propria strada. Pensò persino di emigrare in Brasile come in tanti avevano fatto nel suo paese. Prese anche lezioni di violino (“se diventerò bravo ho un mestiere di riserva”) e dopo aver tentato di sfuggire all’arruolamento, chiese di essere ammesso a frequentare il corso di allievi ufficiali. La sua domanda fu respinta. Peccato. Meglio un cattivo ufficiale che un cinico dittatore. Meglio ancora un violinista: tutt’al più avrebbe ferito l’orecchio dei suoi ascoltatori.

E Stalin? Neppure lui sapeva cosa avrebbe fatto da grande. Nella sua gioventù è stato molte cose: rivoluzionario e giornalista, poeta e donnaiolo, un bravo corista e un prete mancato. Proprio così. Questo feroce protagonista del secolo scorso, che fece uccidere più russi lui dello stesso Hitler, non in guerra, ma solo perché non la pensavano come lui o potevano metterlo in ombra, che fece estender la pena di morte ai ragazzini di dodici anni; questo tiranno arido e privo di scrupoli, frequentò prima la scuola religiosa del suo paese e poi, dal 1894 al 1899, il seminario di Tiflis. Ce l’immaginiamo Stalin che studia religione e recita preghiere? Eppure fu così. Anzi, nel primo anno di seminario si distinse come studente modello, come apprezzabile tenore e come poeta. Un bravo poeta. Donald Rayfield, docente di letteratura russa e georgiana alla Queen Mary University di Londra, che ha tradotto i suoi versi in inglese, ha affermato senza sarcasmo che “sarebbe persino possibile trovare motivi non puramente politici per rimpiangere il suo passaggio dalla poesia alla rivoluzione”. Anche lui: se avesse fatto il prete o il poeta, non si troverebbe tanti omicidi sulla coscienza. 26 milioni, per la precisione. Rievocando il suo passato, egli stesso dirà: “Se non ci fosse stato Lenin, sarei rimasto un corista e un seminarista”. Come in una sorta di postilla, la mia mente corre pure a Putin che, almeno per il momento, non può neppur lontanamente compararsi al suo famigerato predecessore; ma che comunque nel suo regime di democrazia autoritaria, non disdegna di chiudere per sempre la bocca a chi gli si mette di traverso. Ebbene, con il terremoto del regime comunista, anch’egli neppure immaginava che avrebbe scalato la posizione più elevata della nazione, ed anzi pensò di sbarcare il lunario facendo il tassista o l’allenatore di Judo.

E infine consideriamo un tiranno dell’antichità, uno per tutti ma ben rappresentativo per la fama sinistra che lasciò ai posteri: Nerone. Fama, in realtà, tramandata più dalla classe dei patrizi che dalla plebe. Da attento leader populista, quale fu, egli lasciò un buon ricordo nel popolo che nel giorno della sua morte, ogni anno, fino al dodicesimo secolo portò fiori sulla sua tomba. Tradizione interrotta da papa Pasquale II che, per porre fine a quella consuetudine, ordinò la demolizione del mausoleo dei Domizi-Enobarbi. Di Nerone non può negarsi che il suo destino fosse delineato molto per tempo. Ma non per una sua vocazione, quanto piuttosto per la sfrenata ambizione della madre Agrippina. Anzi, se fosse dipeso da lui, probabilmente non avrebbe mai accettato il potere offertogli con tanti pericoli e tante preoccupazioni. Nei suoi primi anni, quando la madre era in esilio, egli fu allevato dalla zia paterna Domizia Lepida. Il suo primo precettore fu un ballerino, e da questi il piccolo Lucio imparò l’amore per la danza e per lo spettacolo. Ma non fu solo un fatto d’imprinting, il futuro imperatore era davvero inclinato per il mondo delle arti. Secondo Svetonio egli nutrì passione per la pittura e per la scultura ma, soprattutto, per la musica, il canto e la poesia. “Compose versi volentieri e senza fatica e non pubblicò mai, come insinuano alcuni, quelli degli altri spacciandoli per suoi”. Imparò pure a suonare la cetra e, curiosamente, se la cavava bene anche tra i fornelli. Durante i graditi soggiorni presso la residenza estiva di Torre di Giano, volentieri deliziava il palato dei suoi ospiti con delicati manicaretti da lui stesso preparati. Il suo famoso viaggio tra le isole della Grecia altro non fu che una tournée. A bordo di una lussuosa galea divertì i suoi ospiti, compresi gli stupefatti notabili delle città visitate, con le sue rappresentazioni artistiche. L’accusa più grave che gli mossero i suoi detrattori non fu la crudeltà bensì che gareggiò come auriga, che si esibì come cantante, che fece il ballerino. Se gli avessero lasciato seguire le sue inclinazioni, invece di costringerlo ad esercitare l’incombenza del governo presso la corrottissima corte di Roma, oggi il suo nome sarebbe associato ad una fama ben meno sinistra.

Sembra insomma che i dittatori non vengano su con una vocazione ben chiara e lineare, che non siano una specie a sé e predestinata rispetto al resto dei comuni mortali. Anche se storicamente va preso atto che molti di loro ebbero condizionamenti familiari e l’attitudine mentale (diremmo le physique du rôle) che li aiutarono a scalare il potere e a mantenerlo. La violenza non gli era estranea. Alessandro, il padre di Mussolini, era esponente del socialismo facinoroso, anarchico e violentemente anticlericale di Romagna. Vissarion, il padre di Stalin, aveva il vizio dell’alcol e un carattere litigioso. Nei momenti d’ira scatenava la sua violenza su moglie e figlio che, ancora imberbe, in una di queste liti non esitò a lanciargli addosso un coltello. E accoltellato morì in una taverna durante una rissa tra ubriachi. In una taverna morì anche Alois, il padre di Hitler, mentre beveva il suo solito bicchiere di vino. Era lì che preferiva stare quando non lavorava piuttosto che a casa. Fu descritto come uomo duro, sgradevole e collerico. In famiglia si comportava come un tiranno. Urlava, sgridava e picchiava i figli; quanto alla moglie, con lei era assai ruvido e raramente le rivolgeva la parola. Essi stessi, questi futuri dittatori, ebbero un carattere tutt’altro che facile. Il piccolo Adolf è descritto come un bambino intelligente ma caparbio e lunatico. In nuce erano già presenti in lui quei tratti che crescendo si esaspereranno: la sospettosità, la litigiosità, la collericità, l’insofferenza per la più piccola critica. Il giovane Benito era insofferente alle regole, aveva un carattere umorale e rissoso e giunse ad accoltellare un compagno di scuola più anziano. Di lui i coetanei dicevano “non discute, picchia”. Forse aveva innata una vena cinica ma lui non fece molto per contrastarla. Quand’era al fronte, durante la prima guerra mondiale, riuscì a lasciare esterrefatti i suoi superiori per la gratuità della sua violenza, come quando uccise con una granata alcuni austriaci che fumavano tranquillamente di notte nella loro trincea. Quando il capitano gli chiese il perché del gesto, dato che quei ragazzi in quel momento non costituivano un pericolo ma stavano solo fumando e parlando delle loro fidanzate, Mussolini rispose con macabra ironia: “Signor Capitano e allora andiamo tutti a spasso in galleria, a Milano, che è meglio”. Come stupirsi allora della cinica motivazione che diede anni dopo a Badoglio per giustificare l’ingresso in guerra: “Voi non capite, io ho bisogno di qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo di pace”. E non fu il più spietato dei dittatori; all’indomani della sua morte Stalin disse: “Con la morte di Mussolini scompare uno dei più grandi uomini politici cui si deve rimproverare solamente di non aver messo al muro i suoi avversari”. Del giovane Josif abbiamo già detto che, quantunque esasperato, tentò d’accoltellare il padre. In seminario, superato il primo anno d’ambientamento, manifestò insofferenza per i metodi e le regole medievali lì in uso ed acuì lo spirito ribelle già presente in lui. Invece di apprendervi la teologia, in quella scuola egli affinò le sue doti di cinismo, imparò la dissimulazione e i metodi di controllo delle persone e delle coscienze. Come osservò uno storico, in seminario egli imparò a maneggiare le idee “con l’indifferenza attenta di chi non cerca quella giusta ma quella utile”. A quel punto era pronto per mettersi al servizio della rivoluzione o, se preferiamo, per mettere la rivoluzione al proprio servizio. E nel nome di alti ideali da subito si diede ad azioni turpi e spregiudicate: alle rapine, alle estorsioni, agli incendi dolosi, all’assassinio, ecc.

Nonostante gli elementi negativi di contesto e caratteriali, fu il loro un percorso obbligato? La storia della loro infanzia e della loro gioventù indica che il loro fu un percorso tormentato ma non obbligato. Spesso ebbero delle madri affettuose e religiose. Ekaterina Geladze, la madre di Stalin, lavorò duramente come lavandaia, cuoca e sarta per consentire al figlio di studiare. Era molto pia e legata alla religione ortodossa, e suo grande desiderio era quello che il figlio abbracciasse la vocazione sacerdotale. L’abbandono del seminario da parte di Josif le arrecò un grande dispiacere che si portò sempre dietro. Quando il figlio le fece visita sul letto di morte, per spiegarle la propria posizione le disse: “Sono come uno zar”. E lei rispose: “Sarebbe stato meglio se tu fossi divenuto un sacerdote”. Anche Rosa Maltoni, la madre di Mussolini, era una donna di fede. Cercò di trasmettere i propri valori ai figli: andò meglio con Arnaldo ed Edvige ma ebbe poca fortuna con Benito. Fece anche dei sacrifici per farlo studiare presso il collegio salesiano di Faenza e sottrarlo in qualche modo all’influenza del padre. Klara Pölzl, la madre di Hitler si dedicò alla cura della casa e dei figli. Era una devota cattolica e frequentava la chiesa regolarmente. Il giovane Adolf le era molto legato. Oltre alla scuola della vicina abbazia, egli ne frequentava anche la chiesa. Attivamente. Servì la messa come chierichetto, fu un buon elemento della corale di voci bianche e prese lezioni di violino da un Padre benedettino. In seguito confesserà che durante quelle solenni liturgie, a cui anch’egli dava il suo contributo, provava delle forti emozioni. Nel 1904, quando aveva 15 anni, durante la catechesi per la cresima, Hitler per alcuni mesi meditò persino di farsi prete. Anche Nerone ebbe le sue possibilità. Non fu fortunato con la madre ma ebbe una zia che gli volle bene; e Agrippina, accortasi dell’influenza che la cognata esercitava sul ragazzo, pensò di eliminarla con l’accusa di complotto contro l’imperatore. Al processo fu chiamato a testimoniare contro la zia. Egli sapeva bene che con la sua falsa testimonianza avrebbe segnato il destino della congiunta e perso un caro affetto, ma sapeva anche che salvando la zia avrebbe messo a repentaglio la propria vita. Fece la scelta più facile, anche se dolorosa, e da allora iniziò il suo progressivo corrompimento. Almeno nei primi anni del suo impero, Nerone perseguì un programma politico finalizzato al miglioramento delle condizioni delle classi popolari, e non è da escludere che all’inizio le sue intenzioni fossero sincere e non inquinate, come in seguito, da intenti populistici e demagogici. Ma il continuo ricorso alla violenza e la vita dissoluta decisero il corso della sua parabola discendente.

Non si può pertanto affermare che questi uomini non fossero responsabili delle proprie scelte e quindi delle loro azioni. Perché se il loro percorso non fu obbligato non lo furono neppure le loro scelte, almeno quelle fondamentali. Il fatto che i loro percorsi non fossero obbligati non esclude, però, che fossero in qualche modo guidati. Colpisce infatti, scorrendo le biografie di questi uomini e ancor più le loro autobiografie, la presenza di circostanze che facilitarono certe scelte utili a conseguire (o, comunque, a creare le premesse per conseguire) tappe determinanti verso la conquista del potere. Prendiamo il libro di Adolf Hitler Mein Kampf che racchiude insieme il suo pensiero delirante, il suo programma politico e la sua autobiografia. Tra i tanti episodi, qui egli ne racconta uno che, come lui dice, decise in poche settimane del suo avvenire. Egli si sentiva attratto dall’arte; in particolare, come abbiamo detto, dalla pittura e dall’architettura. Suo padre, però, criticava queste velleità e più concretamente progettava per lui un destino d’impiegato. Prospettiva che il giovane Adolf semplicemente aborriva. Successe allora qualcosa che consentì agli eventi di assecondare le inclinazioni del ragazzo. Racconta egli: “Una malattia mi venne improvvisamente in aiuto, la quale decise in poche settimane del mio avvenire e pose fine al lungo conflitto. Una grave affezione polmonare consigliò a un medico di proporre a mia madre di non lasciarmi mai, a nessun patto, far vita d'ufficio. Per le stesse ragioni, la frequentazione della scuola tecnica doveva venir sospesa almeno per un anno. Ciò che avevo desiderato in silenzio per tanto tempo, ciò per cui mi ero sempre battuto, s'era fatto ora realtà, improvvisamente, quasi da sé. Sotto l'impressione della mia malattia, mia madre accettò di togliermi più tardi dalla scuola tecnica, e di lasciarmi frequentare l'Accademia”. Da sottolineare quel “quasi da sé”. L’Accademia, come sappiamo, non lo ammise e così egli si trovò in mezzo al guado. Andò anche lui a Vienna, come aveva fatto il padre da ragazzo, per cercarvi la sua realizzazione. I presupposti però erano diversi. Esclusa l’accademia, restava la scuola d’architettura; ma lui non poteva accedervi perché non aveva completato la scuola tecnica. Cercarsi un impiego, neanche a parlarne. La sua vita nella capitale imperiale fu pertanto caratterizzata dagli espedienti e dagli stenti. La miseria lo condusse ad alloggiare in abitazioni di fortuna e persino nel dormitorio pubblico, e la fame divenne la sua “fedele compagna”. Gli anni viennesi si rivelarono utili a incattivirlo e a fargli assorbire lo spirito del tempo, a cominciare dal pangermanismo e dall’antisemitismo, vera e propria “moda intellettuale” sulla bocca di tutti e propagandati da libri e riviste. Senza l’esperienza viennese sarebbero mancate la spinta e le basi ideologiche per fare di Hitler il Fürer del Reich tedesco. In quest’evento, come in molti altri, egli scorse una volontà trascendente che lo aveva predestinato a ricoprire quel ruolo. Egli si credeva eletto e protetto da Dio. Anche se verosimilmente aveva poco chiaro chi fosse questo “dio” che guidava il suo cammino. Per approfondire questo tema si rinvia all’articolo Il vero burattinaio. Pensando all’enorme potere che questi uomini “della Provvidenza” concentrarono nelle loro mani vien facile pensare a loro come degli incontrastati burattinai. Ma se il vero burattinaio è “Satana, il dio di questo mondo” (2Cor 4:4), allora va preso atto che anch’essi sono dei burattini. Burattini responsabili, però, delle loro azioni. Formati e usati con il loro consenso per fare il lavoro sporco, e poi gettati via. Intercambiabili. Perché anche il potere degli uomini è effimero. Interrogato ad esprimere il suo giudizio sulle celebrazioni per i vent’anni della caduta del Muro di Berlino, John Le Carré, lui che su quel Muro aveva costruito la sua fortuna di romanziere, affermò che quelle cerimonie gli avevano dato una tristezza infinita. “Quella sfilata di ex potenti del mondo che sembravano fantasmi, venuti da non si sa dove a commemorare qualcosa di cui parevano non ricordare più nulla”. Erano trascorsi solo vent’anni eppure quei grandi leader acciaccati e spaesati sembravano commemorare se stessi più che il Muro, sembravano dei morti viventi, un’ombra di ciò che furono. Erano trascorsi solo vent’anni pure quando Mussolini concesse la sua ultima intervista nel suo studio presso la Prefettura di Milano. Il suo volto portava visibili tracce di stanchezza; sembrava molto invecchiato. Sembravano pure molto lontani i giorni in cui risuonava lo slogan: “Se il destino è contro di noi… Peggio per lui!”. Le folle s’erano dileguate, il dialogo con le piazze s’era rivelato un reciproco inganno, un’illusione. “Ho concluso che ho sopravvalutato l’intelligenza delle masse. Nei dialoghi che tante volte ho avuto con le moltitudini, avevo la convinzione che le grida che seguivano le mie domande fossero segno di coscienza, di comprensione, di evoluzione. Invece, era isterismo collettivo...”. Il Duce e le folle si erano strumentalizzati a vicenda e tutti loro erano stati strumentalizzati dal “dio di questo mondo”.

Eh, sì, le folle! L’altro lato della piazza. Gli altri burattini, anch’essi responsabili delle loro azioni e a cui sarà ridomandato conto. Nessun tiranno potrà essere usato come alibi; non solo perché nessuno può costringere nessuno a violare la propria coscienza, ma soprattutto perché nessun dittatore può conquistare il potere e tenerlo senza una maggioranza che condivida i suoi stessi ideali, o che comunque non ne sia offesa. Dote indispensabile di un leader, e a maggior ragione di un despota, è quella di saper intercettare gli umori della sua gente. Egli sa cavalcare i loro pregiudizi, le loro paure, le loro aspirazioni. Sa convincerli che solo lui può realizzare i loro più profondi desideri. Disse Otto Strasser di Hitler: “Le sue parole colpiscono l’obiettivo come una freccia; egli mette il dito sulla piaga di ognuno, libera il suo inconscio, mette a nudo le sue più riposte aspirazioni, dice quello che ognuno più desidera ascoltare”. Tuttavia il consenso si crea solo se c’è una base comune d’interessi, se c’è un clima di complicità. Spesso il dittatore vince le elezioni, c’è una maggioranza che lo vota e che accetta il suo programma di prevaricazione. In genere si è complici in un’azione criminosa, a danno di qualcuno, in questo caso di una minoranza, o di qualcosa, quali sono i principi morali e le regole in cui non ci si identifica più e finiscono per star strette. La storia non è fatta da un uomo soltanto ma sempre da una comunità. All’indomani della morte di Mussolini, la scrittrice Elsa Morante scrisse una pagina di diario molto significativa, in cui individuava perfettamente questo rapporto di complicità tra gli italiani e il tiranno da cui s’erano lasciati governare. Ritengo utile a questa serie di considerazioni riportarne uno stralcio:

“Durante la sua carriera, Mussolini si macchiò più volte di delitti che, al cospetto di un popolo onesto e libero, gli avrebbe meritato, se non la morte, la vergogna, la condanna e la privazione di ogni autorità di governo (ma un popolo onesto e libero non avrebbe mai posto al governo un Mussolini). Fra tali delitti ricordiamo, per esempio: la soppressione della libertà, della giustizia e dei diritti costituzionali del popolo (1925), la uccisione di Matteotti (1924), l’aggressione all’Abissinia, riconosciuta dallo stesso Mussolini come consocia alla Società delle Nazioni, società cui l’Italia era legata da patti (1935), la privazione dei diritti civili degli Ebrei, cittadini italiani assolutamente pari a tutti gli altri fino a quel giorno (1938). Tutti questi delitti di Mussolini furono o tollerati, o addirittura favoriti e applauditi.

Ora, un popolo che tollera i delitti del suo capo, si fa complice di questi delitti. Se poi li favorisce e applaude, peggio che complice, si fa mandante di questi delitti. Perché il popolo tollerò, favorì e applaudì questi delitti? Una parte per viltà, una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse o per machiavellismo. Vi fu pure una minoranza che si oppose; ma fu così esigua che non mette conto di parlarne. Finché Mussolini era vittorioso in pieno, il popolo guardava i componenti questa minoranza come nemici del popolo e della nazione, o nel miglior dei casi come dei fessi (parola nazionale assai pregiata dagli italiani). Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è cosiffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo tornaconto.

Mussolini, uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo. Presso un popolo onesto e libero, Mussolini sarebbe stato tutto al più il leader di un partito con un modesto seguito e l’autore non troppo brillante di articoli verbosi sul giornale del suo partito. Sarebbe rimasto un personaggio provinciale, un po’ ridicolo a causa delle sue maniere e atteggiamenti, e offensivo per il buon gusto della gente educata a causa del suo stile enfatico, impudico e goffo. Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura, alla fine. In Italia, fu il Duce. Perché è difficile trovare un migliore e più completo esempio di Italiano”.

Una pagina di straordinaria attualità che non dimostra affatto i suoi 65 anni di distanza. La Morante coglie l’esprit d’un popolo che, a quanto pare, non impara dai propri errori e che pertanto è destinato a ripeterli. Non era ancora risalito dal precipizio e già subito vi si ributta a capofitto. Quel che ancor più fa paura è che i meccanismi della corruzione causano un circolo vizioso che accelera l’avvitamento verso l’abisso. Un popolo che si sceglie come leader un uomo corrotto e lo lascia legiferare, pone lui e il suo sistema a migliore esempio a cui ispirarsi, e così ancor più rapidamente la società si corrompe. Una società corrotta nei suoi esempi e nelle sue istituzioni non può che influire negativamente sugli individui che la compongono, anche su quelli non particolarmente portati al male ma che facilmente possono restare condizionati dalle sue regole e dai suoi valori. Il sociologo Philip Zimbardo ha chiamato quest’influsso che trasforma persone normali in persone malvagie Effetto Lucifero. “Non è abbastanza – egli afferma – focalizzare l’attenzione solo su chi compie il male, ma anche sulle condizioni del sistema che supporta e mantiene l’abitudine al male. Intendo dire anche i valori legati alla cultura, alla legalità, alla politica, alla storia, che legittimano le persone che si comportano in modo malvagio”.

Se Hitler, Mussolini, Stalin o Nerone avessero trovato realizzazione in un’arte, mestiere o professione per cui, s’è visto, avevano mostrato inclinazione o, comunque, interesse sarebbero stati uomini migliori? Forse sì, perché se il potere assoluto corrompe assolutamente, essi sono stati sottoposti a maggiori sollecitazioni e tentazioni. O forse no, perché il cammino del bene o del male si compie a piccoli passi, un passo alla volta. Prima di cedere alle grandi tentazioni, si cede a tentazioni minori. Ci s’incammina verso l’abisso a costo di molti compromessi con la propria coscienza, dapprima più difficili da compiere poi sempre più facili; magari cercando di convincersi che si sta facendo la cosa migliore, perché, come recita l’adagio, la strada dell’abisso è lastricata di buone intenzioni. E il mondo, senza di loro, sarebbe stato un luogo migliore? Non credo. Perché la loro opera sarebbe stata compiuta da altri. Da altre anime inquiete e ribelli che avrebbero ceduto a un disegno malvagio scorgendovi perfino il segno dell’elezione. Certo dà i brividi pensare che dietro qualunque pittore, poeta, violinista, giornalista, cuoco o prete possa nascondersi in potenza un despota efferato, ma così è. Fa parte del solenne gioco della vita; dell’uso che facciamo della libertà che a noi tutti viene concessa e di cui un giorno dovremo rendere conto.

Per approfondire: Il vero burattinaio

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