mercoledì 27 febbraio 2008

Soli a Natale

Avvicinandosi le festività di fine d’anno, il mio pensiero va a coloro che si apprestano a trascorrerle in solitudine. Le solite statistiche danno un picco di suicidi in questo periodo tra le persone sole perché, ovviamente, questa condizione è particolarmente avvertita in un contesto dove si esalta il momento di aggregazione delle famiglie. Lo dice anche il proverbio: “Natale con i tuoi…”. Mi è capitato in passato, trovandomi per lavoro lontano dalla famiglia, di dover trascorrere il Natale da solo. Posso testimoniare che non è un’esperienza gradevole sapere che nelle case attorno la gente trascorre quelle ore insieme, mentre io non ho nessuno con cui comunicare e con cui scambiare attenzioni. Ricordo quando il figlio di certi conoscenti mi sporse un fragrante calzone farcito di broccoletti… una vera delizia. Apprezzai il gesto che, tuttavia, attenuò solo in parte quella sgradevole sensazione di solitudine. Certo non è tutt’oro quel che luccica. La gioia dello stare insieme dipende soprattutto dalla qualità delle relazioni o, se vogliamo, dalla qualità delle persone che intessono le relazioni. Mi diceva Francesco, un conoscente che passa spesso a salutarmi, che per lui il Natale è un giorno di tensione. “I miei fratelli ci tengono a riunire le famiglie per rispetto della tradizione e delle apparenze. Ma per me è una sofferenza. Con le loro battute al vetriolo mi rinfacciano l’incapacità di cercarmi un lavoro o di formarmi una famiglia, la figlia che ho avuto fuori dal matrimonio. A quel punto il mangiare mi va di traverso e non vedo l’ora di scappare via. Però, poi, chi va a trovare tutti i giorni nostra madre in casa di riposo: io, la pecora nera della famiglia. Mentre loro non vanno mai, con la scusa dei troppi impegni familiari”. La solitudine non obbliga ad estraniarsi dal mondo, può anche essere il male minore, una condizione che stimola la crescita interiore. Pure nostro Signore è stato una persona sola. Crebbe in famiglia, era circondato di discepoli, ma è stato poco compreso e i più, quando non gli erano ostili, l’avvicinavano per mero opportunismo. Nei primi anni della sua vita corse meno rischi in terra straniera che tra la propria gente. La sua famiglia lo comprese pienamente solo dopo la sua ascensione. Ai genitori dovette ricordare la sua missione e, quindi, implicitamente, la sua natura: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). Sia i discepoli che i familiari cercavano di convincerlo d’ingraziarsi il favore delle autorità e trovavano insensate le sue strategie. In Giovanni 7,5 leggiamo: “Neppure i suoi fratelli, evidentemente, credevano in lui”. Qualche commentatore suggerisce l’ipotesi che quella volta in cui la Madre e i fratelli andarono a trovarlo, lo scopo della visita era quello di riportarlo a casa, così come si fa con una persona cara che ha perduto il senno e che si vuol proteggere. Di conseguenza si spiegherebbe la ferma reazione di Gesù, che era anche un invito ad ascoltare con più attenzione il suo messaggio: “Mia madre e i miei fratelli sono quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica!” (Lc 8,21). Egli tentò più volte di preparare i discepoli agli eventi drammatici che si profilavano all’orizzonte, ma essi erano troppo condizionati dalle loro ben diverse aspettative e non riuscivano a capirlo. Una volta che fraintesero con superficialità le sue parole, Egli troncò sconsolato il discorso con un: “Basta!” (Lc 22,38). Come a dire: “Lasciamo perdere!”. Li considerava amici, e desiderava aprirsi con loro così come si fa con chi può capirci e raccogliere le nostre confidenze. Tuttavia poté quasi sempre essere solo Maestro che impartisce insegnamenti per gradi. “Ho ancora molte cose da dirvi, ma ora sarebbe troppo per voi” (Gv 16,12). Nel momento in cui tutti l’abbandonavano, giunse a dir loro: “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,68). Quando, nel Getsemani, confessò ai discepoli la terribile angoscia che l’opprimeva, chiese loro di fermarsi a pregare con lui sia perché fossero pronti a reggere la prova incombente, sia perché sentiva il bisogno della loro vicinanza affettiva, altrimenti perché avrebbe dovuto svelare il suo stato d’animo? Ma anche stavolta essi non furono in grado d’incontrare le sue aspettative. E stiamo parlando delle persone care, non dei nemici. Sì, Gesù fu una persona sostanzialmente sola. Sentì la solitudine sino alla fine, quando, sulla croce, ebbe la sensazione che persino il Padre l’avesse abbandonato. Ma era solo una sensazione, ovviamente. Questo vale per tutti: Dio può vegliare con discrezione sulle sue creature ma mai distrattamente. È raro che una madre, andando contro uno degli istinti più radicati, si disinteressi dei suoi figli. Ma “anche se ci fosse una tale donna, io non ti dimenticherò mai” (Is 49,15), rassicura il Signore. La nostra esperienza terrena può prevedere dei momenti più o meno lunghi di solitudine, persino lunghi quanto tutta una vita. Ma anche la vita è un momento. Sebbene anche gli uomini apparentemente più soli in realtà, come dicevamo, soli non siano, comunque il destino dei redenti nei giorni dell’eternità è quello d’intrecciare relazioni intense e appaganti. Nel paradiso di Dio non c’è posto per la solitudine. Isaia, riferendosi a quella realtà, afferma che “la famiglia più piccola sarà di mille persone” (60,22 Tilc). Il Natale, pertanto, ci ricorda che Gesù – il quale ha sperimentato personalmente la solitudine e l’incomprensione – è venuto per provvedere agli uomini “la vita, una vita vera e completa” (Gv 10,10).

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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 22 dicembre 2006)