domenica 9 marzo 2008

Il dilemma dei provveduti - 2

La teoria del Disegno Intelligente (dall’inglese Intelligent Design, ID) è sorta negli Stati Uniti negli anni ’90. Essa afferma che la vita, e l’universo che la ospita, possono meglio essere spiegati dall’azione di una causa o agente intelligente anziché di fattori fortuiti quali le mutazioni casuali e la selezione naturale così come sostiene il darwinismo. Va subito precisato che l’ID non è contrario all’ipotesi evoluzionista. Esso accetta l’idea di una discendenza comune di tutti gli organismi da un unico antenato e i lunghi tempi geologici che hanno accompagnato questo complesso processo evolutivo. Tale processo, tuttavia, non andrebbe attribuito alla selezione naturale di cui peraltro, a livello macroevolutivo, non c’è prova nei reperti fossili bensì, appunto, all’intervento d’un fine progettista (designer) intelligente. Progettista che i detrattori della teoria definiscono “Dio dei vuoti” in quanto sarebbe chiamato in causa semplicisticamente in tutte quelle lacune non ancora colmate dalla ricerca scientifica. Ma l’accusa più pesante alla teoria è quella di non essere vera scienza in quanto il “progettista intelligente” non sarebbe né osservabile né ripetibile, con conseguente violazione del requisito scientifico della falsificabilità. A loro volta i sostenitori dell’ID ribattono che neppure la teoria dell’evoluzione mediante selezione naturale, per quel che riguarda la macroevoluzione, può contare sui requisiti scientifici della osservabilità, ripetibilità e falsificabilità, e non può essere provata con un esperimento. Inoltre non è neppure logica, nelle sue affermazioni e nel suo procedimento, pretendendo di voler spiegare certe complessità della natura con processi casuali ed escludendo a priori ogni intervento esterno. Essa cioè decide, con assioma arbitrario, che la natura sia autosufficiente e deve così far rientrare tutti i risultati sperimentali in tale schema; anche quando autosufficiente non dovesse essere; impedendosi per definizione di riconoscere un'eventuale progettualità e finalità nel mondo fisico anche qualora queste esistessero realmente, e condannandosi in tal modo a cercare una cosa che non esiste. Il biochimico cattolico Michael Behe, uno dei massimi esponenti del movimento, pone come primo esempio di progetto evidente la cellula, il fondamento della vita, che definisce la “scatola nera di Darwin” per il fatto che ai tempi dello scienziato neppure se ne sospettava la complessità, e di cui ora invece, man mano che la si studia, emerge una spaventosa complessità organizzativa. Suo è anche il concetto di “complessità irriducibile” che si riferisce a quei meccanismi, anche biologici, che per funzionare hanno bisogno dell’interazione di molte parti. Mancandone anche solo una il meccanismo è inutilizzabile. La cellula è forse l’esempio più convincente. Ma lo sono anche gli organi degli esseri pluricellulari, come l’occhio, che per adempiere alla loro funzione hanno bisogno al contempo di tutte le loro parti. Come concepire la formazione di questi sistemi per lenta e casuale evoluzione quando per funzionare è necessario che siano progettati e assemblati tutti in una volta? E per fermarci all’esempio dell’occhio, pensiamo all’impressionante somiglianza che c’è tra quello dell’uomo e quello del polpo. Come avrebbero fatto due organismi lontani per phylum (cordati e molluschi) a dotarsi praticamente della stessa struttura complessa mediante due distinti processi evolutivi casuali? Lo stesso Darwin scriveva: “Quando penso all’occhio mi viene la febbre”.

È da notare che l’ID, imponendosi d’utilizzare solo il linguaggio della scienza, studia gli effetti dell’azione intelligente sulla natura e non il Disegnatore in sé. Esso tiene accuratamente fuori dal proprio campo di studio la religione e i libri ispirati anche se, com’è logico attendersi, la maggior parte dei suoi sostenitori sono credenti cristiani che in altra sede identificano il disegnatore intelligente con il Dio creatore della Bibbia. Loro obiettivo è quello di fare emergere i pesanti condizionamenti che la scienza subisce dai propugnatori dell’ateismo neodarwinista che, non a caso, il famoso biologo Julian Huxley definì “una religione senza rivelazione”.

E la Chiesa cattolica, come ha accolto la teoria del Disegno Intelligente? In genere con interesse. Non si è pronunciata ufficialmente e non mancano le prese di distanza individuali. Don Fiorenzo Facchini, noto antropologo e paleontologo, sostiene che finora non c’è alternativa al naturalismo metodologico (che non ammette interventi diretti, sia pure discontinui, da parte di un ente trascendente) se si vuole restare nell’ambito della scienza. Questa posizione è condivisa da padre George Coyne, già direttore della Specola Vaticana. Ma grande eco hanno sollevato le affermazioni del card. Christoph Schoenborn, arcivescovo di Vienna che, al contrario, prende le distanze da “un'evoluzione concepita in senso neodarwiniano” e sostiene invece la visuale del Disegno Intelligente. Anche papa Benedetto XVI si è riferito al progetto intelligente e lo ha attribuito alla Parola, cioè al Figlio di Dio. Mentre il suo predecessore, Giovanni Paolo II, aveva definito “un’abdicazione dell’intelligenza umana” ogni teoria scientifica che cerca di negare l’evidenza di progetto nel creato.

Da questa carrellata di teorie verrebbe da pensare che il credente informato o provveduto (cioè provvisto di conoscenze non solo teologiche ma anche negli altri campi del sapere, in particolare scientifico) abbia incontrato notevoli difficoltà ad armonizzare le conoscenze secolari con le pagine rivelate del Libro sacro, al fine di non recare offesa alla propria intelligenza e, in definitiva, alla sua stessa fede. È riuscito in tale impresa? Anche abbracciando tra le varie ipotesi quella che si confà di più alla sua sensibilità e struttura mentale, come non provare nostalgia per la fede semplice e serena di chi ha come unico riferimento la Parola rivelata, conoscenza unica e sufficiente per salvare? Ma l’uomo ha il diritto e il dovere di conoscere ciò che è alla sua portata; d’altronde, una volta acquisite, le nozioni non si possono “disimparare” e allora non si può che cercare di conviverci al meglio. Il fatto che le teorie siano così tante forse prova che nessuna d’esse sia quella perfetta, quella che riesce nell’impresa di mettere d’accordo tutte le conoscenze in nostro possesso. Forse perché tali conoscenze sono così frammentarie da non riuscire a ricomporre neppure le linee generali del grande mosaico della storia naturale e delle vicende umane.

Come non pensare alla storia indiana dell’elefante nella stanza buia? Le persone che lo toccavano lo descrivevano ognuna in modo diverso a seconda delle parti del corpo con cui venivano in contatto: chi ne aveva toccato l’orecchio lo descriveva come un ventaglio, chi la zampa lo descriveva come una colonna, chi la proboscide come un serpente, e chi aveva preso in mano la coda assicurava trattarsi di una corda. Appena uscito, ognuno sosteneva con determinazione la propria posizione. La discussione degenerò nella lite e persino nella zuffa finché… qualcuno non portò fuori dalla stanza l’elefante e tutti zittirono. Solo in quel momento i presuntuosi litiganti si resero conto d’avere tutti solo un po’ di ragione. Poiché l'opinione di ciascuno si basava su un'esperienza frammentaria, erano venute fuori tante definizioni quante le diverse parti toccate del pachiderma. Ciascuna persona credeva di aver capito ma nessuno aveva un’idea reale di cosa fosse un elefante.

In questo mondo nessuno può giungere alla piena conoscenza delle cose. Solo con l’umiltà e la capacità d’ascoltare chi la pensa diversamente potremo allargare poco alla volta il nostro sapere; altrimenti rischiamo di rimanere attaccati alla coda dell’elefante credendola per sempre una corda. Vale per tutto: non solo per la scienza ma anche per la teologia che, pur evitando strani sincretismi, dovrebbe trattenersi dalla tentazione di riprocessare Galileo all’infinito. Forse aveva ragione quel teologo presbiteriano quando affermò che il più importante interesse della religione non è l’affermazione della verità ma la ricerca del significato.

Ed è per questo che preferisco non prendere una netta posizione a favore di alcuna delle teorie che ho elencato finora, pur non ritenendole tutte sostenibili in ugual misura. Credo che tutte, in fondo, abbiano qualcosa da suggerirci per giungere ad una migliore visione della realtà. Persino il Creazionismo letterale e fissista ha qualcosa da insegnarci. Per esempio il primato della fede: esiste una scala di valori nella nostra vita, no? È commovente osservare con quanta determinazione i creazionisti fissisti tentino di neutralizzare ogni informazione che possa mettere a repentaglio la loro fede che, giustamente, ritengono il bene più importante! D’altronde il racconto della creazione non è stato creduto nella sua accezione letterale per millenni? Mentre ispirava lo scrittore sacro Dio non sapeva bene che sarebbe andata così? Se ha scelto tale percorso è perché forse, ai fini della salvezza, quest’informazione era sufficiente. Se Egli ha ritenuto di tacere sui lunghi tempi geologici e sulle scimmie aveva le sue ragioni. Se già oggi è difficile integrare questi dati nei nostri schemi mentali figuriamoci quanto più lo sarebbe stato 3500 anni fa! Gli ebrei avrebbero introdotto il culto totemico della scimmia e sulla spianata avrebbero lasciato scorrazzare i macachi come avviene in certi templi indiani. Come disse Gesù? “Ho ancora molte cose da dirvi, ma ora sarebbe troppo per voi” (Gv 16,12).

La posizione dell’Eziologia metastorica ha un pizzico d’umiltà e di consapevolezza in più. Mi suggerisce infatti che si può ribadire il primato della fede pur ammettendo che esistono zone d’ombra nel nostro sapere; se i piani di conoscenza non sono ancora integrabili lasciamoli allora separati; se non siamo ancora in grado di difendere i fatti narrati nella Genesi possiamo però difendere e salvaguardare il senso che il loro racconto intende trasmetterci. Mi suggerisce, cioè, che il racconto biblico per essere capito va contestualizzato: quali erano le categorie del tempo in cui era calato lo scrittore? È possibile narrare una storia prescindendo da tali categorie? Ha senso ispirare un racconto senza tener conto del significato che può avere sul lettore, sulle sue capacità di ricezione? Se suo scopo è trasmettere un determinato messaggio, che sia comprensibile, allora bisogna accettare l’idea che possa contenere immagini e semplificazioni. In altre parole questa posizione focalizza la ricerca sul significato che il racconto biblico può avere per il lettore.

E l’interpretazione profetica quale riflessione mi suggerisce? Una non da poco. Mi convince infatti che il racconto biblico delle origini è il risultato non solo dell’ispirazione ma anche di una precisa rivelazione. Non è pensabile, infatti, che lo scrittore si sia limitato a ordinare del materiale in suo possesso pur guidato dall’ispirazione. Troppo tempo infatti era trascorso tra l’accadimento dei fatti e la loro narrazione perché sia credibile una trasmissione senza pesanti alterazioni del loro ricordo e conseguente trasformazione in mito. Ancor meno pensabile è che egli abbia compiuto un’operazione di “demitologizzazione” attingendo alle cosmogonie del Medio Oriente, soprattutto a quella babilonese, depurandole degli elementi mitici. Ma abbiamo presente il racconto della creazione babilonese? Marduk che uccide il mostro primordiale Tiamat e ne taglia in due il corpo, con una parte fa il cielo e con l’altra la terra? Poi con il sangue di un altro mostro, Kingu, crea gli uomini? Come si fa a trarre il pulito racconto di Genesi, con tanto di nomi e circostanze, da una storia così incrostata e degenerata come l’Enuma Elish? Non ci riuscirebbero neppure gli studiosi moderni con la forza dei loro strumenti e del materiale a loro disposizione, con buona pace dei panbabilonisti. Il Pentateuco viene attribuito a Mosè, salvo qualche aggiunta posteriore sia pure rilevante. Quel Mosè considerato il primo dei profeti non perché abbia predetto qualcosa ma perché parlava con Dio e poi riferiva agli uomini. E parlava così come si parla a un potente amico, con rispettosa confidenza, ma facendo vera conversazione. Perché non supporre allora che sia andata così: “Mosè, oggi ti racconto la storia di Terroso e Viviana (Adamo ed Eva, nella loro etimologia)…”. Quindi rivelazione, oltre che ispirazione.

L’approccio concordista m’ispira sensazioni contrastanti. Da un lato mi verrebbe da dire: ecco, finalmente persone che umilmente tengono conto delle conoscenze importanti che negli ultimi due secoli si sono aggiunte allo scibile umano, che sanno fare un passo indietro per non chiudersi nella prosopopea teologica che non ascolta nessuno, che intende dettar legge in ogni cosa, che si ritiene autosufficiente come il califfo Omar che nel 641 incendiò la biblioteca scientifica di Alessandria perché riteneva quei libri inutili se conformi al Corano e dannosi se contrari. Ma mi chiedo anche se quella del concordismo non sia un’umiltà a buon mercato. I concordisti sono spesso seguaci di quella scuola liberale che a cavallo tra l’800 e il ‘900 si è divertita a dissezionare il testo biblico, come direbbero gl’inglesi, “in countless pieces”; allora non dovrebbe essere così doloroso sacrificare qualcosa di cui si ha una stima moderata sull’altare paludato della scienza. Non a caso è spesso un concordismo a senso unico: che cioè cerca soprattutto di adattare la Bibbia al paradigma scientifico del momento e molto meno il contrario. Ecco allora venirci incontro la teoria del Disegno Intelligente che, pur non facendo mai cenno alla Bibbia per scelta metodologica, ci suggerisce che la fede non deve soffrire complessi d’inferiorità nei confronti del mondo accademico; se necessario, per difendere le proprie ragioni, deve sapersi introdurre in casa d’una scienza faziosa e con gli strumenti di questa riequilibrare posizioni d’ingiustificata sudditanza.

Nel mio comprensibile dilemma, io, cristiano informato, accetto ogni idea come utile contributo alla riflessione. Quindi niente paletti ma antenne. Però, pur non riconoscendomi pienamente nelle attuali teorie, come dicevo, ritengo alcune più sostenibili di altre. Mi son fatto anch’io la mia scala valoriale di priorità, e nel valutare con più interesse alcune ipotesi ritengo utile fissarmi almeno un paio di riferimenti che mi aiutino ad orientarmi nella mia ricerca personale di conoscenze e di significati. Il primo riferimento poterebbe avere come titolo: “Nessuna sudditanza del racconto biblico verso le discipline secolari”. Nonostante siano ormai da tempo riconosciute le intemperanze esegetiche della famigerata “Alta critica”, il testo biblico agli occhi di molti cristiani è ancora visto con sospetto; per esso vale il principio che in termini giuridici si definisce “ribaltamento dell’onere della prova”, per cui spetterebbe alla Bibbia dimostrare la propria attendibilità; ogni suo passo, in mancanza di prove certe, sarebbe da considerare inaffidabile. Ebbene, io non accetto questa impostazione. Fino a prova contraria, per me la Bibbia è fonte attendibile in virtù di quell’ispirazione in cui io credo. Certo, quando mi si dimostra che un passo biblico contrasta con dati storici o scientifici inoppugnabili, io ne prendo atto. Tale approccio cambia molte cose. Ad esempio, mi costringe a pensarci bene prima di rifiutare un’affermazione biblica o di rifugiarmi nella sua simbolizzazione; al contrario, mi spinge a privilegiare ove possibile gli aggiustamenti fini. Una sorta di concordanza senza soggezione, insomma. Il secondo riferimento ha come titolo: “La vera scienza non è nemica della Rivelazione”. Condivido pienamente l’osservazione di Michael Behe: “L'immagine pubblica della scienza è stata alterata per sostenere l'ateismo, ma si tratta di una falsa rappresentazione della realtà. I risultati attuali della scienza portano decisamente a Dio. I cristiani non devono avere paura. La vera scienza è una loro alleata”.

(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 26 aprile 2007)