sabato 22 marzo 2008

Il caro petrolio: un’opportunità?

Repubblica nello scorso novembre ha pubblicato un’intervista a Giovanni Silvestrini, direttore del Kyoto Club, che ritengo uno spunto interessante di riflessione. In quei giorni si parlava molto della corsa al rincaro del petrolio che era lì per sfiorare i 100 dollari al barile: una soglia psicologica che nessuno pensava di veder raggiungere. Si diceva: sì, è vero, i petrolieri sono degli squali senza scrupoli che non si fermerebbero di fronte a nessun ostacolo d’ordine etico pur di far soldi; tuttavia non conviene neppure a loro tirare troppo sul prezzo del petrolio perché già a 50 dollari esso consente ad altre fonti energetiche, quali il carbone, di tornare ad essere competitive. I paesi produttori di petrolio, analogamente alle compagnie petrolifere, conoscono bene questo rischio: si diceva. Altri analisti affermavano invece che produttori e petrolieri hanno in mente ben altra soglia e da tempo manovrano perché il prezzo del greggio monti verso i 150 dollari: perché, si diceva, solo oltre quella soglia l’economia dei paesi industrializzati rischierebbe la depressione con conseguente crollo della domanda di petrolio. Ma la sensazione, oggi più che mai, è che tutte queste congetture siano infondate e che agli speculatori interessi solo il profitto immediato e null’altro. Ed è naturale, pertanto, quando andiamo a far benzina, o quando riceviamo la bolletta del gas o della luce, provare un senso d’ansia e di preoccupazione.

Ecco allora trovarci l’intervista di Silvestrini a tirarci su il morale. Il rincaro del petrolio – egli afferma – è certo un disagio per i nostri portafogli e per le economie dei paesi importatori; ma non è ancora causa di crisi perché ci stiamo arrivando con gradualità e abbiamo avuto il tempo di prepararci. I problemi si presenteranno quando il greggio supererà i 150 dollari il barile, ma non è ancora il momento; anche se quella soglia sarà sicuramente raggiunta e superata a causa della sete energetica di Cina e India e del raggiungimento del picco di estrazione. Nel frattempo ci troviamo di fronte ad una irripetibile opportunità per incentivare le pratiche di risparmio ed efficienza energetica e per ricercare nuove fonti energetiche, si spera rinnovabili. Un’occasione quindi pure a favore dell’ambiente.

In teoria il pensiero di Silvestrini non fa una grinza e, almeno sul versante del risparmio energetico, vediamo pure che è corroborato da qualche dato incoraggiante. Pensiamo all’intero sistema d’illuminazione ove le inefficienti lampade a incandescenza presto non potranno neppure essere vendute, o agli elettrodomestici a basso consumo la cui vendita, grazie anche agli incentivi, è passata in pochi anni da una quota marginale al 75% del totale.

Le perplessità giungono, invece, dal versante della ricerca di nuove fonti energetiche rinnovabili e pulite. Qui davvero vediamo troppo poco, non solo per quel che è stato fatto ma pure per quel che si programma di fare. Il quadro italiano, poi, è davvero desolante. D’altra parte cosa ci si può aspettare da una pubblica amministrazione che ci ha resi lo zimbello del mondo per la gestione dei rifiuti campani? L’efficiente Germania ci ha abbondantemente superato nell’installazione dei pannelli solari: noi, il paese del sole! Persino la Spagna ha dimostrato più lungimiranza, accogliendo Carlo Rubbia che noi avevamo cacciato mentre lavorava al suo progetto di centrale solare termodinamica. Questo significa per noi non solo essere più dipendenti di altri da fonti energetiche costose e inquinanti, ma anche dover acquistare all’estero le tecnologie se e quando decidessimo di passare alle fonti rinnovabili.

Ma anche senza soffermarci sulla mortificante condizione italiana, non è che la situazione generale brilli per lungimiranza! In Europa, oltre a quanto detto, abbiamo il Portogallo e la Gran Bretagna che hanno avviato progetti per lo sfruttamento del moto ondoso e la Danimarca che da tempo si cimenta nell’eolico, ma siamo ancora a percentuali di una cifra nella produzione globale di energia. Nulla, inoltre, è stato fatto nel campo dei trasporti dove la dipendenza dal petrolio raggiunge il 90% del totale; ad esempio affinando la tecnologia d’estrazione dell’idrogeno – il combustibile pulito del futuro – dalla comunissima acqua.

Ciò che semmai sta accadendo è il ritorno all’uso del carbone. Dal 2000 ad oggi il suo prezzo è raddoppiato e ne ha reso nuovamente conveniente l’estrazione. In Inghilterra stanno riaprendo miniere chiuse dai tempi della Thatcher o addirittura dalla seconda guerra mondiale. È prevalentemente destinato alle centrali elettriche delle stesse nazioni ove si estrae perché è ancora costoso da trasportare e ancora più costoso da liquefare ma, con gli opportuni investimenti, all’inconveniente si potrà porre rimedio. Questo ritorno era prevedibile, anche perché il carbone rappresenta la fonte d’energia più abbondante dopo il sole e il suo esaurimento, anche nella peggiore delle ipotesi, non riguarderà questo secolo.

L’esaurimento del petrolio invece riguarderà il nostro secolo. La maggior parte delle analisi fa cadere il cosiddetto “picco di Hubbert” (punto di produzione massima, superato il quale la produzione può solo diminuire) non oltre il 2020. La teoria di Olduvai, formulata dall’ingegnere petrolifero Richard C. Duncan, lega l’esistenza della civiltà industriale al periodo in cui la “curva di Hubbert” è in fase crescente e quindi il suo tramonto alla fase decrescente di tale curva, e precisamente lo pone tra il 2008 e il 2030, periodo che egli chiama “precipizio di Olduvai”. Queste teorie hanno molti estimatori ma anche qualche critico perché, pur concedendo l’esattezza delle stime delle riserve mondiali di petrolio su cui si basano i calcoli, non terrebbero conto dei nuovi metodi per produrre energia.

Ma il punto è proprio questo: cosa stiamo facendo per emanciparci dalle fonti attuali d’energia ormai in esaurimento? Quanto impegno abbiamo profuso nello sviluppo e nel perfezionamento di nuove tecniche non solo per produrre energia, possibilmente pulita, ma anche per riconvertire tutti i processi di produzione delle industrie attualmente legate al petrolio? Parliamo di uno sforzo immenso ma possibile se programmato per tempo, disperato se tentato all’ultimo momento, in fase di grave carenza energetica, e di crisi economica, sociale e politica. Allora ci troveremmo in un vero e proprio collo di bottiglia per le nostre società. Se poi pensiamo che l’area del pianeta in cui il picco estrattivo sarà raggiunto più tardi è quella mediorientale, in quel periodo le nazioni si troveranno a dipendere dall’area politicamente più instabile del pianeta. Bella prospettiva davvero.


Se, come afferma Silvestrini, ci troviamo di fronte ad una irripetibile opportunità: in che modo ce la stiamo giocando? Tornando a estrarre carbone? A parte il fatto che anche la sostituzione del carbone al petrolio richiede uno sforzo lungo e articolato che per la struttura delle nostre società complesse e interdipendenti non potrebbe che effettuarsi con lentezza. Ma proprio il carbone, grazie alla sua abbondanza e relativa economicità, rischia di accentuare l’inerzia che frena lo sviluppo delle energie rinnovabili. Quel carbone che bruciando si trasforma interamente in biossido di carbonio e che se divenisse la fonte primaria d’energia inietterebbe nell’atmosfera tanto di quel gas serra da concretizzare i peggiori scenari prefigurati dai climatologi più pessimisti! Da qui la necessità di dare la priorità allo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, anche se economicamente meno convenienti, se davvero vogliamo dare un’ultima chance al nostro pianeta.


Per approfondire: Clima e morale

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