venerdì 7 marzo 2008

Etiche da usufrutto

Da qualche mese circola il libro del matematico agnostico Piergiorgio Odifreddi “Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)”. Dopo aver passato in rassegna le incongruenze della Bibbia e i misfatti della Chiesa, egli ravvisa soprattutto nella Chiesa cattolica il vero freno e non la molla del pensiero democratico e scientifico europeo, l’erbaccia che ne ha soffocato lo sviluppo civile e morale e ha condizionato – con le sue pesanti ingerenze – “la vita politica, economica e sociale delle nazioni del Sud Europa e del Sud America (non a caso, le più arretrate dei loro continenti)”. Tra l’altro l’autore ricorda che il termine cretino è un francesismo che deriva da cristiano (chre´tien > cre´tin), per assimilazione dei grulli con i fedeli; infatti, considerando che “metà della popolazione mondiale ha un’intelligenza inferiore alla media”, ciò spiegherebbe la fortuna del cristianesimo. L’autore conclude rivendicando il diritto dei non credenti di adoperarsi per arginare l’influenza del Cristianesimo in generale, e del Cattolicesimo in particolare, “soprattutto quando, come oggi, l’anticlericalismo costituisce più una difesa della laicità dello Stato, che un attacco alla religione della Chiesa”.

Nel suo complesso, il discorso di Odifreddi non dice nulla di rivoluzionario, e le sue critiche o sono superficiali o centrano altri bersagli sia pure di riguardo. La Bibbia non è parola “dettata” da Dio – come il Corano, ove la sola traduzione è già considerata tradimento – ma è parola ispirata da Dio e redatta da uomini imperfetti, condizionati dalla cultura del loro tempo. Così almeno pensano i credenti più informati. Cercarvi incongruenze non dimostra nulla ed è esercizio che non tocca la sostanza della fede. La Chiesa è comunità di uomini, per definizione imperfetti e più o meno intelligenti, come tutti. Che questi abbiano commesso errori – anche nel nome di Dio – lo riconosce la stessa Chiesa. Se dovessero smettere adesso di compierne, vorrebbe dire che Gesù è tornato a nostra insaputa. Per onestà intellettuale, andrebbero pertanto distinti i comportamenti umani, che anche nel nome della religione (come pure della ragione) hanno perseguito interessi particolari, dalle conquiste della nostra civiltà quali libertà, coscienza, diritti dell’uomo e democrazia, che s’ispirano a valori profondamente cristiani. Infine, il non credente ha tutto il diritto, come qualsiasi altro cittadino, di difendere i propri interessi promuovendo azioni lecite e denunziando gli altrui illeciti.

Ciò che invece trovo incongruente nel discorso dell’agnostico autore è quello che potrebbe sembrare un dettaglio marginale: il voler implicitamente rivendicare principi morali superiori, mutuati da una natura senza Creatore. “Se uno non è religioso – egli afferma – ciò non significa che non debba avere un’etica”. E questo possiamo concederglielo. Ma il punto è: da chi o da cosa egli ha effettivamente mutuato tale etica? I principi morali a cui egli si riferisce sono quelli biologicamente determinati? Perché – sebbene sia assodato che i sistemi etici siano influenzati dalle culture di riferimento – ci sono studi che dimostrano che effettivamente esiste un giudizio morale innato, una sorta di grammatica morale universale che si eredita come la capacità linguistica e che ci guida nella definizione di quel che è giusto o sbagliato. Ovviamente i neodarwinisti sostengono che questa facoltà si è sviluppata perché offre alla specie umana un vantaggio evolutivo. Se così fosse, però, non si capisce come mai la nostra morale innata non ci spinga ad eliminare i malati gravi, i figliastri o gli handicappati. La morale diretta solo dal caso e dalla necessità farebbe del monte Taigeto un’istituzione universale. Ma la Bibbia bistrattata da Odifreddi sembra offrire una spiegazione più convincente di questa morale innata. Scrive Paolo: “Certo i pagani non conoscono la Legge data da Dio; ma quando essi compiono ugualmente ciò che la Legge comanda, è come se l'avessero dentro di sé. La loro condotta dimostra che nei loro cuori è scritto ciò che la Legge prescrive. Lo dimostrano la loro coscienza e i loro ragionamenti che si accusano o anche si scusano a vicenda. Tutto ciò sarà chiaro il giorno in cui Dio, per mezzo di Gesù Cristo, giudicherà quel che è nascosto nella vita degli uomini. Questo è il messaggio che io ho ricevuto” (Rm 2,14-16). In altri termini, Dio ha dato ad ogni uomo la capacità innata di giudicare quel che è giusto o sbagliato, perché anche chi non ha conosciuto la religione rivelata abbia la possibilità di crescere moralmente e spiritualmente e d’ereditare la vita eterna. È una “grammatica” semplificata ma efficace allo scopo.

Ma è facile che Odifreddi pensi ad un’etica che sia ben più d’un semplice Bignami biodeterminato. Infatti, identificandosi egli con quella minoranza di intelligenti in quanto tali non adatti ad aderire al Cristianesimo, si suppone che pure la sua morale debba ritenersi d’ordine superiore. Tuttavia, se ci guardiamo attorno, non è che notiamo un coesistere di tanti sistemi etici nel mondo occidentale! Abbiamo l’etica cristiana, basata sulla centralità dell’uomo, sulla solidarietà, sulla giustizia sociale e sulla conciliazione, e abbiamo la cosiddetta “etica della circostanza” affermatasi con la secolarizzazione delle nostre società. Quest’ultima, più che d’un sistema alternativo, ha tutto l’aspetto d’una degradazione di sistema essendo basata sull’unica regola del proprio tornaconto. Gli uomini non sono mai fini ma solo strumenti, utili o disutili, al raggiungimento dei nostri obiettivi. Anche un sistema di valori basato solo sui meriti e che non tiene conto dei bisogni altrui risponde, di fatto, alla logica della suddetta etica.

Il filosofo Jürgen Habermas, esponente di spicco della Scuola di Francoforte, anch’egli non credente, ammette che una società democratica non può sopravvivere senza la solidarietà del cittadino. Quella solidarietà che tende ad inaridirsi con il processo di secolarizzazione. Al 1967 risale il cosiddetto “teorema Böckenförde”, secondo cui il moderno Stato liberale si nutre di premesse normative che, da solo, esso non può garantire. Riprendendo questo tema Habermas si chiede dove possa, la società, attingere forza e ispirazione per contrastare l’inevitabile sfaldamento insito in “una secolarizzazione dai caratteri aberranti”. Osservando la persistenza contro ogni previsione del fenomeno religioso, egli non solo ne prende atto ma propone di assumere positivamente tale fenomeno come “sfida cognitiva” poiché appare chiara la capacità della religione di “alimentare la coscienza normativa e la solidarietà dei cittadini”. In un lungo confronto amichevole, sia Habermas che papa Benedetto XVI, hanno visto nella società post-secolare, quella della caduta delle ideologie e della rinascita della religione, un’opportunità per tradurre e comprendere reciprocamente la lingua laica e la lingua religiosa in un processo d’osmosi e d’arricchimento reciproci, pur nel rispetto delle loro peculiarità.
Allora, se persino correnti importanti della cultura laica prendono atto del bisogno che ha la società democratica secolare di attingere alla religione per “alimentare la coscienza normativa e la solidarietà dei cittadini”, mi chiedo: a quale etica laica si riferisce Odifreddi? Vorrei sperare non a quella della circostanza, quella non solidale, sregolata e opportunista! In tal caso, chiaramente, egli avrebbe poco da farsene vanto. Se invece Odifreddi si riferisce all’etica solidale… beh… allora sta operando un’appropriazione indebita. Egli gode – per usare un’espressione di Romano Guardini – dell’usufrutto che, pur negando la Rivelazione, si appropria dei valori e delle forze che essa ha elaborato.


(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 7 marzo 2007)