Il trattamento riservato ai vivi e soprattutto ai morti, alla seconda venuta di Gesù, fu argomento su cui Paolo dovette soffermarsi nella sua prima lettera ai Tessalonicesi. Siamo attorno all’anno 50 d.C. L’Apostolo, secondo l’opinione ancora diffusa tra i cristiani, pensa che il secondo avvento di Cristo sia imminente ed è questo che insegna alla chiesa appena fondata di Tessalonica nel suo breve soggiorno che, a causa d’un tumulto provocato dai giudei, è costretto ad interrompere bruscamente. Conta di tornare per completare la catechesi della comunità quando gli giunge voce che essa versa nella costernazione per la morte di alcuni fratelli in fede, evento che non era stato messo in conto nel corso di quest’attesa che sembra prolungarsi oltre il previsto. Tessalonica, capitale della provincia romana di Macedonia, era un importante porto di mare e centro commerciale, anch’essa nota per la corruzione dei suoi costumi. Ciò nonostante, al contrario della comunità di Corinto, i quesiti sollevati dai cristiani di Tessalonica non erano collegati a problemi d’ordine morale bensì soltanto dottrinale. Essi si chiedevano che fine avrebbero fatto i credenti morti prima del ritorno di Gesù: se sarebbero stati salvati o anche solo discriminati rispetto ai viventi. A noi può sembrare una preoccupazione inconsistente ma dobbiamo tener conto del loro retroterra culturale e del fatto che Paolo non li aveva ancora istruiti sullo stato dei morti secondo la visuale cristiana. Dal contesto sembrerebbe che la loro concezione dei defunti fosse simile a quella descritta da Omero nell’Odissea, quando Ulisse si reca a far visita agli abitanti dell’Ade. Qui l’oltretomba è raffigurato come un luogo buio, irreale, intriso di malinconia; le anime dei morti, a prescindere dalle loro colpe, sono descritte come ombre che s’aggirano meste, incapaci di vedere, di odiare, d’amare, di ricordare, di pensare. Il loro è un destino sventurato e irreversibile. Questa concezione del mondo dei morti era ormai un antico retaggio, ma le credenze popolari sono radicate nell’immaginario collettivo, non solo degli sprovveduti. In Virgilio, ad esempio, convivono due concezioni contrastanti: quella platonica delle pene catartiche e quella dei “Campi del Pianto”, luogo di sofferenza indiscriminata a cui tutte le anime erano sottoposte, anche quelle non meritorie di castigo. A questa regressione avevano in qualche modo contribuito i culti misterici che nella salvezza discriminavano tra iniziati, che si salvavano comunque, e non iniziati che si perdevano a prescindere dalle virtù esercitate in vita. Bisogna infine considerare che buona parte dei cristiani di Tessalonica proveniva dalla sinagoga. Erano i cosiddetti “timorati di Dio”, vale a dire ex pagani che pur interessati alla fede non avevano adottato del tutto le regole e i riti giudaici, così come invece i proseliti. Ogni sabato avevano ascoltato la lettura della Bibbia, e sicuramente anche questa riflessione dell’Ecclesiaste così assonante con i versi omerici: “I vivi sanno che devono morire. Ma i morti non sanno proprio niente, NON RICEVONO NESSUNA RICOMPENSA perché sono dimenticati da tutti. L’amore, l’odio e le passioni umane finiscono con la morte. I morti non parteciperanno più a quello che si fa in questo mondo… Cerca di compiere con molto impegno quel che riesci a fare quaggiù. Perché nell’aldilà, dove andrai, non si lavora e non si fanno progetti, non c’è né scienza né sapienza” (Eccl 9,5-10). Probabilmente anche i giudei, dopo secoli d’influenza culturale ellenica, leggevano queste parole intrise di pessimismo da un’analoga prospettiva. Ma Ecclesiaste è anche quello che alla fine dice: “Dio giudicherà tutto quel che facciamo di bene e di male”; prospetta, cioè, una retribuzione ultraterrena differenziata su criteri etici. Non va dimenticato che gli ebrei, ossia i custodi dei libri ispirati, prima dell’ellenizzazione forzata non credevano nell’immortalità dell’anima. E quando parlavano di soggiorno dei morti si riferivano semplicemente al sepolcro, al luogo ove il defunto, in uno stato d’incoscienza simile al sonno, attendeva il risveglio della risurrezione nell’ultimo giorno. “Io so che il mio redentore vive, e nell’ultimo giorno io sorgerò dalla terra; e che nuovamente mi circonderò della mia pelle, e nella mia carne vedrò il mio Dio” (Giob 19,25-26. Vers. del Cardinal Ferrari, Firenze 1929). Ma queste premesse ai Tessalonicesi mancavano e fu facile per loro equivocare. Così Paolo si affrettò a toglierli dall’angoscia con la sua celebre lettera: “Fratelli, voglio che siate ben istruiti su ciò che riguarda i morti [lett.: quelli che dormono]: non dovete continuare a essere tristi come gli altri, come quelli che non hanno nessuna speranza. Noi crediamo che Gesù è morto e poi è risuscitato. Allo stesso modo, crediamo che Dio riporterà alla vita, insieme con Gesù, quelli che sono morti credendo in lui. Come ci ha insegnato il Signore, io vi dico questo: noi che siamo vivi e che saremo ancora in vita quando verrà il Signore, NON AVREMO ALCUN VANTAGGIO su quelli che saranno già morti. Infatti in quel giorno sentiremo un ordine, la voce dell'arcangelo e il suono della tromba di Dio. Il Signore scenderà dal cielo, e allora quelli che sono morti credendo in lui risorgeranno per primi. Noi, che saremo ancora vivi, saremo portati in alto, tra le nubi, insieme con loro, per incontrare il Signore. E da quel momento saremo sempre con il Signore. Dunque, consolatevi a vicenda, con questi insegnamenti” (1 Ts 4,13-18).
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(Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 20 gennaio 2007)