“Colui che non ha visto il Tempio di Erode in vita sua, non ha mai visto un edificio maestoso”, recita il Talmud. Il tempio era il simbolo più sacro dell’identità ebraica. Quello di Erode fu il terzo rifacimento e sembra che superasse in splendore persino l’opera originaria di Salomone. Il riflesso della luce diurna sui marmi e sugli ori che vi furono profusi senza risparmio conferiva all’opera un aspetto sovrumano, come se fosse calata dal cielo in anticipazione al regno messianico che l’aspettativa comune riteneva ormai prossimo. Non sorprende pertanto la fierezza con cui i discepoli additarono la costruzione al loro Maestro. Ciò che invece dovette molto sorprendere loro fu la sua risposta: “Vedete tutto questo? Vi assicuro che non rimarrà una sola pietra sull'altra. Tutto sarà distrutto” (Mt 24,2). Gesù usciva per sempre dal Tempio, dopo aver cacciato i mercanti e aver pronunciato il suo ultimo discorso pubblico, decretando di fatto la propria condanna a morte. Giunti che furono sul Monte degli Ulivi, da cui si dominava con uno sguardo la città e la spianata del Tempio, Gesù si sedette con lo sguardo rivolto alla maestosa costruzione. Allora i quattro discepoli più confidenti «si avvicinarono a lui in disparte e gli chiesero: “Puoi dirci quando avverranno queste cose? E quale sarà il segno del tuo ritorno alla fine di questo mondo?”» (v. 3). Questa domanda è davvero illuminante per entrare nella psicologia di coloro che attendono l’evento finale della Storia, come d’altra parte è ugualmente illuminante la risposta che seguirà, non solo per la luce che Gesù getta sugli eventi futuri, ma per ribadire la cautela con cui Dio passa informazioni sui fatti non ancora avvenuti. Nella domanda rivolta a Gesù appare chiaro che i discepoli associano la distruzione del Tempio (e quindi di Gerusalemme) con la fine del mondo. Questo accostamento è del tutto naturale perché nelle profezie dell’Antico Testamento raramente la prima venuta del Figlio di Dio viene distinta dalla seconda. L’uomo del dolore, che deve patire per i peccati dell’umanità, viene descritto in Isaia 53, in Zaccaria 13, in qualche Salmo, ma in genere di lui si parla pochissimo per privilegiare il momento finale del ritorno in gloria. Per gli ebrei il “giorno del Signore” comprendeva al contempo il giudizio finale d’Israele e il castigo definitivo dei popoli pagani subito a ridosso dello stabilimento del Regno di Dio. Ecco perché per i discepoli la distruzione del Tempio non poteva che associarsi alla fine del mondo. Nella sua risposta Gesù non identifica i due avvenimenti. Anzi spiega chiaramente che tra il castigo della nazione ebraica e il giorno del giudizio ci sarebbe stato un “tempo dei gentili” (gentile = non ebreo) durante il quale Gerusalemme sarebbe stata calpestata e interdetta ai superstiti ebrei esiliati in paesi stranieri (cfr Lc 21,24). Egli tuttavia non definisce la lunghezza di quel tempo; anzi, nel descrivere la distruzione della città e il tempo della propria parusia, sfuma l’uno sull’altro i due avvenimenti come a voler rimarcare le analogie dei loro contesti (sorgere di falsi cristi e falsi profeti, formalismo religioso, rapacità e mancanza d’amore fin dentro la famiglia, intolleranza, persecuzione, conflitti ad ogni livello, carestie, epidemie, catastrofi nel mondo fisico). Ma sfuma i due eventi anche per misericordia verso i suoi interlocutori. Si dice che Dio rivela quello che fa ma non quando lo fa. È un’estremizzazione, ovviamente, poiché nella Bibbia non mancano le profezie accompagnate da riferimenti cronologici. Ma è anche vero che queste sono molto rare. Conoscere i tempi spesso scoraggia e non aiuta a tenere un atteggiamento di attenzione e di preparazione. La prospettiva dei nostri pochi anni mal si concilia con i millenni di Dio. L’attesa escatologica iniziò con la cacciata dall’Eden. Eva dovette pensare che la profezia della vittoria sul serpente stesse per compiersi con la nascita di Abele. Ma tra Abele e il Messia ne sarebbe corso di tempo! Intanto ogni generazione di fedeli sperò in una liberazione vicina. Gli stessi profeti, che pure desideravano meglio comprendere le rivelazioni ricevute (cfr Lc 10,23-24; 1 Pt 1,10-12), non sempre trassero un incoraggiamento dalla luce ricevuta. Mentre a Daniele veniva spiegato il senso di una visione riguardante la fine dei tempi, egli ne fu sconvolto e stette male “per qualche tempo” (Dn 8,27). E l’angelo che gli parlava gli chiese di tenere “segreta questa visione, perché essa” riguardava “un'epoca ancora lontana!” (v. 26). Pertanto non dovremmo stupirci della cautela con cui Gesù parlò degli eventi futuri. Pensiamo che la Chiesa nascente avrebbe potuto affrontare con la stessa determinazione fatiche, rinunce, opposizione e persecuzione se avesse saputo che l’incontro con l’amato Salvatore si sarebbe fatto attendere ancora, addirittura, per millenni? «Allora quelli che si trovavano con Gesù gli domandarono: “Signore, è questo il momento nel quale tu devi ristabilire il regno per Israele?”. Gesù rispose: “Non spetta a voi sapere quando esattamente ciò accadrà: solo il Padre può deciderlo”» (At 1,6-7). Scopo della profezia non è quello di soddisfare la curiosità bensì quello di sostenere la fede. E tutte le informazioni che giovano in tal senso sono garantite. Gesù affermò che il Tempio sarebbe stato distrutto nel corso di quella generazione e così avvenne davvero: nel 70 d.C. per mano del generale romano Tito, di lì a poco imperatore. La struttura, terminata appena sei anni prima, era così imponente che – racconta Giuseppe Flavio – lo stesso Tito esclamò: “Davvero… abbiamo fatto la guerra insieme con Dio e fu Dio che da questa fortezza tirò abbasso i giudei! Poiché mani d’uomini o macchine che cosa possono contro queste torri?” (Guerre Giudaiche, VI, 409). Quanto alla sua venuta finale, Gesù dette solo degli elementi di contesto per riconoscerne il tempo ed anche per invitare ad affrettarlo. Non che tali elementi siano specifici ed esclusivi di quel periodo: il raffreddamento degli affetti naturali o le guerre o i terremoti si sono sempre verificati. Egli stesso invita a non deformare l’analisi della realtà con gli occhi del desiderio (“…ma non sarà ancora la fine… Ma tutto questo sarà come quando cominciano i dolori del parto” Mt 24,6-8). Tuttavia tutti insieme, così generalizzati, intensi a tal punto come iniziamo ad osservarli oggi lascia sospettare che quello scenario non sia poi così remoto, in un futuro che sicuramente non ci toccherà. Insomma, è come se Gesù nel suo pensiero riunisse due grandi crisi, una prossima che stava per riguardare Israele ed una lontana che avrebbe riguardato il mondo intero, e ne ponesse a confronto le situazioni comuni per fornire elementi di conforto e di orientamento ai suoi discepoli di oggi come d’allora. Ne viene fuori uno scenario che potremmo riassumere in questa progressione: l’annunzio dell’Evangelo a tutto il mondo (Mt 24,14), l’aperta opposizione ai principi amorevoli della legge di Dio (v. 12), una grande sofferenza generalizzata (v. 29 p.p.), segni nel mondo fisico e nel cosmo (v. 29 s.p.; Lc 21,11). Su una di queste variabili possiamo sicuramente influire: "Intanto il messaggio del regno di Dio sarà annunziato in tutto il mondo; tutti i popoli dovranno sentirlo. E allora verrà la fine” (v. 14). Il cristiano in attesa del gran giorno non si limita a recitare: “Venga il tuo regno!”. Ma è colui che si sforza di realizzare nella propria vita i principi di tale regno e di farsene testimone. Lascia un commento (Pubblicato su Toscanaoggi Forum il 4 febbraio 2007)
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