martedì 18 marzo 2008

Guerra e fattori climatici

I ricercatori del Georgia Institute of Technology in un loro recente studio hanno dimostrato che v’è una connessione tra i cambiamenti climatici e l’insorgere di conflitti bellici. Assumendo come periodo d’osservazione gli ultimi 500 anni, essi hanno preso in considerazione alcune variabili oggettive quali il prezzo del cibo, il livello della popolazione, i dati sul clima e, ovviamente, il numero dei conflitti. Come s’attendevano, hanno trovato una relazione diretta e consequenziale tra i dati confrontati. Infatti questi confermano che i cambiamenti climatici causano una riduzione del raccolto e un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari. La minore disponibilità di cibo accentua le disuguaglianze tra ceti e popoli e genera fame. E la fame a sua volta porta a tensioni sociali che facilmente sfociano in conflitti violenti. Quindi la crisi climatica e la carestia si rivelerebbero causa, oltre che diretta, anche indiretta di morte. Nel periodo preso in considerazione, l’aumento di conflittualità si verificava con l’irrigidimento del clima; ma i ricercatori suppongono che conseguenze analoghe si producano con il surriscaldamento climatico. Infatti anche la siccità – che segue all’innalzamento delle temperature – provoca la riduzione delle risorse naturali e spinge all’uso della violenza per impadronirsene.

Sebbene si tenda a non porre attenzione al nesso che lega la storia dei conflitti umani con il clima, non sono mancate le riflessioni in tal senso. C’è persino chi s’è presa la briga di risalire indietro fino alla preistoria del primo neolitico che fu un periodo di sommovimento climatico prima ancora che culturale (gli agricoltori che si sostituirono ai cacciatori/raccoglitori). Ma è già interessante fare collegamenti con le testimonianze documentabili in età storica. Pensiamo alle crisi avvenute nell’età del bronzo. Nel 1948 l’archeologo francese Claude Schaeffer notò che tutte le città del Vicino Oriente da lui studiate avevano patito una battuta d’arresto nel loro sviluppo attorno agli anni 2300, 1500 e 1200 a.C. Anche i libri di scuola testimoniano che questi furono anni d’invasioni, di guerre, di tramonti di civiltà.

Attorno al 2300 popolazioni di stirpe camito-semitica – provenienti dalle penisole arabica e sinaitica - irruppero nel Vicino Oriente civilizzato e ne cambiarono il volto. Gli Accadi conquistarono le città sumere, gli Amorrei occuparono la Mesopotamia occidentale a sud della Siria, i Cananei si stanziarono nel territorio che da loro prenderà il nome. Cosa spinse queste genti fuori dalle loro terre d’origine?

Le correnti d’aria fredda che oggi dall’Atlantico portano le piogge sull’Europa occidentale, durante il periodo glaciale si erano spostate verso sud, facendo dell’Africa settentrionale, del Sinai, della penisola arabica e di tutto il Medio Oriente una fertile distesa di boschi e di pascoli. La testimonianza più impressionante di quel periodo ci viene dalle famose pitture rupestri del Tassili sahariano che raffigurano giraffe, ippopotami, bufali, coccodrilli ed altri animali consimili a testimonianza di quanto diverso dovesse presentarsi quell’habitat rispetto alle distese desolate di pietre e di sabbia del giorno d’oggi.

Fu proprio l’inaridimento di quei fertili territori e la loro trasformazione in deserti arsi e inospitali che spinse buona parte dei loro abitanti ad uscirne per cercare una nuova dimora. Inevitabile fu il confronto con le popolazioni autoctone già provate dal cambiamento climatico che interessava pure le zone temperate. In Egitto l’abbassarsi del livello del Nilo segnò la fine della manodopera a buon mercato e l’era della costruzione delle grandi piramidi. Il Medio Oriente soffrì la più grave siccità degli ultimi 10 mila anni. Città popolose come Tell Leilan, in Siria, situate su terreni fertilissimi si trasformarono in distese di sabbia flagellate dai venti e rimasero disabitate per alcuni secoli, o non si ripresero mai più come le cinque città della valle del Mar Morto, “una valle tutta irrigata come il giardino del Signore, come la terra d’Egitto” (Gn 13,10), e d’improvviso ridotta ad una conca desolata e riarsa.

Ma tutto il bacino del Mediterraneo fu interessato da questo sconvolgimento climatico e dal sommovimento demografico: genti indoeuropee, costrette ad emigrare, scesero in Asia Minore e nella penisola Ellenica fondendosi o sovrapponendosi alle popolazioni locali. Le testimonianze archeologiche ci mostrano distruzioni e incendi in molti centri che avevano raggiunto un buon livello di sviluppo.

Una nuova ondata d’invasioni indoeuropee si ebbe attorno al 1500 a.C. Un periodo anch’esso d’instabilità climatica e geologica. Esso vide la scomparsa della civiltà minoica e l’invasione cassita della Mesopotamia. Sempre in quegli anni gli Arii, un importante gruppo indoeuropeo proveniente dall’altopiano iranico, invase l’India settentrionale ponendo fine all’evoluta civiltà dell’Indo. Anche qui i fattori climatici risultarono determinanti, per spiegare non solo l’abbandono della terra d’origine da parte degli Arii, ma anche la vulnerabilità dei Vallindi prostrati da una lunga siccità che aveva portato all’inaridimento del fiume Ghaggar-Hakra e alla desertificazione di un vasto territorio agricolo.

E che dire della crisi del 1200 a.C.? Chi non ricorda le famose invasioni dei Popoli del Mare che cambiarono fisionomia al Mediterraneo orientale? Sotto il loro urto caddero imperi come l’ittita, città come Ugarit, i regni micenei, e per poco non venne travolto lo stesso Egitto. Da cosa fuggivano queste genti, tanto da renderle così aggressive e determinate? Ce lo rivelano gli stessi documenti ugaritici ed egiziani: da una grande carestia che portò a un collasso economico l’area egeo-anatolica. Pertanto cause fisiche che si tradussero in movimenti di popoli e in guerre.

Supponevamo che la Pax Romana fosse sostenuta in modo determinante da una pax climatica? Infatti tra i secoli IV a.C. e IV d.C. si ebbe un lungo periodo caratterizzato da temperature miti e piogge regolari. L’ecotono mediterraneo si spinse fino al Baltico e al Mare del Nord, e l’Impero poté estendere i suoi granai dall’Egitto alla Britannia. Di contro, quando l’ecotono si ritrasse e il clima atlantico si spostò verso Sud fino alle coste africane, iniziò la carestia. Gli storici del tempo scrivono della terra divenuta sterile e dell’abbandono delle campagne. I barbari, anch’essi alla fame, calarono a Sud ed ebbero buon gioco di un Impero morente per la sua crisi certamente politica, culturale, morale e militare ma indiscutibilmente amplificata dal cambiamento climatico e di conseguenza economico e demografico.

Nel 900 d.C. l’ecotono mediterraneo si spostò nuovamente verso il Nord, ristabilendo quelle condizioni che avevano favorito lo sviluppo e la stabilità dell’Impero Romano. Fu il cosiddetto Optimum Medievale che, dopo i secoli bui dell’Alto Medioevo, pose le condizioni per una rinascita dell’Europa. La produzione cerealicola migliorò e si estese a più alte latitudini. In Inghilterra riapparve la coltivazione della vite. La maggiore disponibilità di cibo determinò un forte incremento demografico che, a sua volta, innescò un generalizzato sviluppo economico, sociale e politico. Fu l’età delle cattedrali gotiche e delle società comunali, indispensabile premessa sia ai vari movimenti di riforma religiosa sia all’Umanesimo e al Rinascimento.

Improvvisamente, intorno al 1300, il clima si fece umido e freddo. I raccolti marcirono e la terra divenne improduttiva. Milioni di persone morirono a causa della carestia e delle epidemie. Fu l’inizio di quella che prese il nome di PEG (Piccola Era Glaciale) e che, con andamento irregolare poiché caratterizzata da cambiamenti repentini e bruschi, durò fino al 1860. È, in gran parte, il periodo preso in considerazione dal Georgia Institute of Technology nella ricerca di cui dicevamo in apertura, caratterizzato da rivolte, sommosse, rivoluzioni e tante guerre, anche molto lunghe.

Dal 1860 ci troviamo in una condizione climatica del tutto nuova; non nel senso che nel passato non ci sia stato un clima simile all’attuale, ma nel senso che noi uomini abbiamo aggiunto nel sistema delle variabili che hanno modificato sensibilmente il corso naturale degli eventi. Con la seconda rivoluzione industriale, che è partita non a caso nella seconda metà dell’800, e con la rivoluzione verde, che si è diffusa nel secondo dopoguerra del ‘900, l’umanità da un lato si è resa meno dipendente dalle variazioni climatiche e dall’altro le ha addirittura influenzate. I progressi della medicina e la maggiore disponibilità di cibo, anche per i paesi meno sviluppati, hanno ridotto la mortalità per patologia e per inedia portando la popolazione mondiale dal miliardo del 1830 ai 6,5 miliardi del giorno d’oggi. Al contempo queste rivoluzioni tecnologiche si alimentano prevalentemente di combustibili fossili, che producono gas serra e che sono responsabili in prospettiva di uno sconvolgimento climatico di cui già adesso si scorgono le prime avvisaglie nell’irregolarità e nella diminuzione complessiva delle precipitazioni. Inoltre i fertilizzanti, i diserbanti e i pesticidi, utilizzati in agricoltura e indispensabili alla coltivazione intensiva, alla lunga devitalizzano il suolo e ne provocano la desertificazione. Quanto ai combustibili fossili assistiamo all’impennarsi vertiginoso dei prezzi dovuto all’accresciuto fabbisogno dei paesi emergenti a fronte di un esaurimento delle disponibilità. Malauguratamente i giacimenti più consistenti si trovano nell’area politicamente più instabile del pianeta, che è il Medio Oriente, oltre che climaticamente non certo tra le più favorite. Tutto questo non fa che rendere più inquietante la correlazione tra clima e guerra.


Certo, in teoria, le società moderne avrebbero più strumenti per affrontare questi problemi. Ma paradossalmente è proprio la complessità delle nostre società che rende più complicate e lente le risposte ai problemi emergenti. Siamo più attrezzati, possiamo assorbire meglio i colpi rispetto alle comunità primitive ma abbiamo scarsa lungimiranza e volontà di trovare soluzioni per il lungo periodo. I nostri governi sono incapaci di riflettere e attuare politiche altruistiche che vadano verso un mondo vivibile per i nostri figli. Con uno sforzo serio e ben coordinato potremmo emanciparci dall’uso dei combustibili fossili. Le tecnologie ci sono già per trarre energia dal sole, dal vento e dalle onde del mare; ma non lo facciamo perché l’inerzia e le resistenze sono tante. Ci dicono che sono costose e di serio impatto ambientale. Così continuiamo a importare petrolio che si avvia verso i 150 dollari al barile e diamo il nostro bravo contributo al disastro ambientale prossimo venturo che, in sopraggiunta, esasperando una situazione già di per sé tesa e precaria, avrà buone probabilità d’innescare un conflitto generalizzato e di portata inimmaginabile. Le crisi climatiche del passato insegnano.


Per Approfondire: Clima e morale

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