martedì 1 luglio 2008

Una civiltà al crepuscolo

La notizia che oggi mi sento di commentare è quella dell’esperienza capitata a Pasquale Tintillini Di Palma, un autista delle linee urbane della Capitale. Il 16 giugno, attorno alle 16,20, un passeggero comincia a sentirsi male. Di Palma impugna il cellulare e chiama il 118 per un’ambulanza. Le condizioni del passeggero tuttavia continuano a peggiorare, perde i sensi. Il solerte conducente allora comunica l’emergenza alla centrale operativa e chiede l’autorizzazione a deviare verso il più vicino ospedale. L’autorizzazione viene subito concessa e il nostro autista riparte verso il Sant’Eugenio. Lungo il tragitto richiama il 118 per annullare la chiamata dell’ambulanza. Giunto davanti al pronto soccorso, Di Palma tira un sospiro di sollievo e corre all’interno per chiedere aiuto. Ma dall’ospedale gli rispondono che loro non sono autorizzati ad uscire fuori per prendere le persone che si sentono male: “deve chiamare un’ambulanza”, gli suggeriscono. Il conducente non crede alle sue orecchie: il mondo sembra crollargli addosso. Torna indietro. Il passeggero giace esanime sul pavimento del bus. Che fare? Non resta che chiamare per la terza volta il 118 e chiedere di nuovo l’ambulanza con i tempi che frattanto s’allungano. Fortuna vuole che un’altra ambulanza con un ferito a bordo arrivi in quel momento: l’autista e i passeggeri del bus si precipitano in strada, segnalano al mezzo di fermarsi e spiegano il problema. C’e un medico a bordo che accetta di scendere per soccorrere il viaggiatore mentre l’ambulanza entra al pronto soccorso per scaricare il ferito, poi esce nuovamente, carica il passeggero e lo porta all’interno dove finalmente può essere consegnato al personale dell’ospedale. La procedura è salva e forse anche la vita – di fatto meno importante – del malcapitato passeggero.

Con questo non vogliamo dire che negli ospedali di Roma siano più disumani che altrove. Capita sentire notizie analoghe giungere anche da altre città. Come quella dell’uomo morto d’infarto sul marciapiede del Mauriziano di Torino, a pochi metri dall’ingresso, perché i medici del pronto soccorso s’erano rifiutati d’intervenire pur sapendo che, per gli infartuati, i primi 20 minuti sono decisivi. Pochi mesi più tardi l’episodio si è ripetuto all’ospedale di Moncalieri. Un anziano di 69 anni avverte un malore mentre è sul pullman e si accascia. L’autista chiama il 118 ma l’ambulanza tarda ad arrivare. Questi allora decide di recarsi a piedi all’ospedale Santa Croce, che dista ottanta metri da lì, per chiedere aiuto ma i medici gli rispondono di non poter uscire dal nosocomio: che si rivolga al 118, cosa, che in realtà, era già stata fatta. Allora, in un ultimo disperato tentativo di salvare la vita al povero anziano, l’autista cerca di raggiungere il pronto soccorso con il pullman ma la strada d’accesso è troppo stretta per il grosso mezzo. Suo malgrado deve desistere, e quando l’ambulanza arriva è ormai troppo tardi: l’uomo è già morto a neppure un centinaio di metri dall’ospedale.

Ce n’è abbastanza per riflettere. Ma vi aggiungerei pure alcune osservazioni che dei lettori si sono scambiate a commento della prima notizia, quella di Roma. La reazione più diffusa è stata la rabbia e lo sdegno; ma c’è pure stato un lettore, probabilmente un medico che presta servizio sulle ambulanze, che ha difeso il comportamento dei colleghi. Ha anche portato ad esempio un episodio successogli mentre era in servizio: un tizio era scivolato sulla rampa esterna del pronto soccorso, facendosi male. Anche in quell’occasione i medici non uscirono per soccorrerlo. Fu allertato il 118 ed egli arrivò con la sua ambulanza per soccorrere il ferito e trasportarlo all’interno del pronto soccorso che da lì distava trenta passi. Sul momento – continua il lettore – egli rimase sorpreso e contrariato dall’accaduto. Poi però, ragionando a mente fredda, ha “capito che probabilmente è giusto che la questione sia organizzata in questo modo (anche perché il Tizio mica stava morendo!)”. “È giusto che sia così, per motivi innanzitutto legali e anche organizzativi interni”. Poi se si constata che questa formula organizzativa presenta delle crepe allora è giusto ripensare le regole “sempre nell’interesse generale dei cittadini che prima di tutto è legato ad una buona organizzazione del servizio e non all’estemporaneità di certi comportamenti alla vecchia maniera, come quello dell’autista… che in buona fede ha combinato un gran casino che non doveva combinare”.

Risponde, a questo lettore, una lettrice che ne contesta il ragionamento sul piano sia della logica organizzativa che umano. Mettiamo – ipotizza la lettrice – che non si trovasse subito disponibile l’ambulanza che avrebbe potuto salvare una vita umana perché impegnata “sulla rampa di un pronto soccorso a soccorrere uno che era solo scivolato ma che i sanitari del pronto soccorso medesimo, distanti da lui solo trenta passi, avevano inspiegabilmente deciso di non soccorrere fino all’arrivo del 118, perché tanto, dalla finestra, avevano visto che non stava mica morendo. Il che è un comportamento da incivili disumani e bastardi, è contrario al giuramento di Ippocrate, costituisce un inutile spreco di denaro a carico del SSN, una indebita sottrazione di risorse per chi avesse dovuto averne realmente bisogno ed è configurabile come reato di omissione di soccorso… Ci lamentiamo degli stupri che avvengono sotto gli occhi dei passanti indifferenti, e poi è questo l’esempio che arriva dai servizi dello Stato? E se lo scivolato e abbandonato fosse stato tuo padre, ragionando a mente fredda, l’avresti vista allo stesso modo?”

Un’altra lettrice si è limitata a riferire la propria esperienza con i sanitari del Sant’Eugenio: “Lì ho trovato solo arroganza, voglia di lavarsi le mani, poca umanità… il paziente è trattato come un pacco o una seccatura…”

Che dire? Gli spunti di riflessione non mancano anche per esprimere in senso rivendicativo la nostra indignazione, per tornare sul discorso infinito della malasanità. Ma non è questa la sede per dibattere, da tale prospettiva, su questo pur giusto argomento. Ci sono sedi più qualificate come le associazioni dei consumatori, i blog di denuncia sociale o persino i telegiornali satirici che si occupano quotidianamente dei cattivi servizi resi alla collettività. Lo scopo del nostro blog è invece quello di cogliere lo spirito del tempo, e quindi di risalire alle motivazioni che stanno dietro ai comportamenti umani in questo preciso contesto storico. Possiamo anche parlare di malasanità, di regolamenti, di organizzazione e di procedure, ma non dovremmo perdere di vista l’obiettivo che ci siamo posti.

Molti di noi hanno messo piede in un pronto soccorso per un’emergenza sanitaria personale o anche occorsa ad una persona cara. E lì ci siamo accorti del carico di lavoro a cui sono sottoposti i vari operatori e della necessità ed utilità di un’organizzazione che si appoggi a procedure ben definite. Facilmente avremo letto su un cartello o su una targa la strana parola “Triage”, un termine francese che indica il metodo di selezione e smistamento dei pazienti, che avviene non in base all’ordine d’arrivo ma sulla gravità delle loro condizioni. Proprio per questo viene assegnato un codice definito con un colore che va dal rosso (per le situazioni più gravi) al verde e persino al bianco per le situazioni improprie che non richiedono un intervento sanitario urgente. Nell’interesse di tutti, e in particolare di chi ha veramente bisogno, non è giusto affidarsi ad un criterio così congegnato? Come pensare allora che da una buona organizzazione possano derivare azioni disumane come quelle che abbiamo pocanzi descritto?

In genere ci si accorge dell’esistenza di regole e di norme quando ci si nasconde dietro ad esse per giustificare atteggiamenti moralmente discutibili. Conosco medici “della mutua” che, per rilasciare una certificazione, fanno pagare 50 euro e più ad anziani soli che vivono con poche centinaia di euro al mese. Quando si contesta loro questo comportamento, appunto, moralmente discutibile, essi si giustificano appellandosi al regolamento del loro Ordine che imporrebbe tassativamente – a rischio di sanzioni – di far pagare sempre le certificazioni rilasciate, secondo un ben preciso tariffario. Come spiegare allora il fatto che il mio medico curante non ha mai chiesto un soldo per rilasciare certificati? E come lui, so, fanno tanti altri.

Non so se i regolamenti che disciplinano le procedure delle unità di pronto soccorso vietino espressamente di soccorrere chi si trova fuori dalla struttura ma nelle immediate adiacenze. Leggevo che il procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello aveva aperto un’inchiesta sui due casi avvenuti nel Torinese, ed uno dei punti che intendeva chiarire era proprio se esiste un regolamento che vieti ai medici in servizio di intervenire fuori dall’ospedale. D’altra parte l’allora assessore regionale alla sanità, Mario Valpreda, aveva assicurato che una sua circolare “impone ai medici di pronto soccorso di intervenire in casi urgenti anche nell’area intorno all’ospedale”.

Non di rado ci si attacca all’osservanza letterale della norma per poterne trasgredire lo spirito. Questo rispetto scrupoloso solo formale, che il mio professore di Diritto definiva “santificazione della norma”, non ha a cuore la soluzione del problema ma è perseguita per cautelarsi da eventuali responsabilità di tipo disciplinare, civile, penale, ecc. Il bello è che chi lavora in questo modo può anche convincersi di compiere il proprio dovere e di essere eticamente irreprensibile. Poi magari, nel caso del medico, agisce con arroganza e poca umanità, tratta il paziente come un pacco o una seccatura e, se può, se ne lava volentieri le mani; e non fatica neppure a trovare delle giustificazioni plausibili al proprio operato.

D’altronde si suppone che un regolamento che riguarda la salute e la vita della gente non sia concepito per metterle a repentaglio. Semmai va detto che le norme vengono stabilite per prevenire abusi e omissioni o, comunque, per porvi rimedio. È anche vero che se i comportamenti devianti sono troppi e generalizzati anche le norme finiscono per diventare tante, rigide e opprimenti. Certo oggi c’è pure la tendenza a razionalizzare e prevedere tutto; modernità fa rima con uniformità e sistema di qualità, pensati per migliorare l’efficacia e l’efficienza delle organizzazioni sia che producano beni sia che offrano servizi. E questo porta al moltiplicarsi di norme e procedure rigide. Basti pensare alla soffocante burocrazia di Bruxelles che scodella regolamenti e direttive che si ingeriscono in tutte le attività dei cittadini. Ormai è proibito persino servirsi della zuccheriera al bar e fra poco sarà fuorilegge anche sostituire una lampadina in casa. Un’organizzazione che risponde a questa logica, anche se volta alla sicurezza delle persone, di fatto non pone le loro esigenze al primo posto: è asettica, spersonalizzante, soffocante. Così la solidarietà dell’autista romano viene stigmatizzata e retrocessa a “estemporaneità di certi comportamenti alla vecchia maniera”. Una organizzazione esasperata non è necessariamente la risposta che ci si aspetta da chi governa la cosa pubblica. Basti considerare la crescente insofferenza con cui la gente guarda alla burocrazia di Bruxelles che, appunto, codifica le nostre azioni fino all’esasperazione.

Nell’un caso o nell’altro, tuttavia, va preso atto che le regole e i protocolli organizzativi non sono costruzioni astratte ma si edificano sui comportamenti e sullo spirito del corpo sociale. Come dire che, sia che servano a contenere le nostre intemperanze sia che esprimano la nostra anima collettiva, essi sono di fatto quello che ci meritiamo. Se certi comportamenti c’indignano, vediamoli come la spia di qualcosa che non funziona nel nostro corpo sociale. Il dottore che non soccorre, che deruba i vecchietti, che nulla ferma pur di far carriera, che guarda il mondo dall’alto in basso, non è un alieno, è uno di noi a cui sono stati concessi più strumenti per esprimersi e che segue un trend generale.

Il 41° rapporto del Censis, pubblicato alla fine dello scorso anno, traccia un quadro desolante sulle condizioni sociali del nostro Paese. Qualcosa s’è rotto nel profondo della società italiana che è diventata più egoista e individualista, afferma il prof. De Rita, ove per libertà s’intende unicamente la disponibilità di se stesso. “Una società mucillagine dove tutte le componenti stanno insieme perché accostate, non perché siano integrate”. Una società che ha perso le passioni, e che ha solo impulsi; che fa dell’aggressività la modalità espressiva quotidiana, come gli stadi e le famiglie insegnano. In casa aumentano le violenze e le separazioni. Una vera “degenerazione antropologica”. Le pulsioni frammentate vincono sulle passioni unificanti. De Rita, citando Melanie Klein, individua la crisi “nella regressione individualistica di tutti i valori di riferimento – laici e religiosi, dalla libertà al lavoro all’etica pubblica – un tempo interpretati collettivamente”. Mentre il Paese si disperde in una “mucillagine di elementi individuali e di ritagli personali tenuti insieme da un sociale di bassa lega, e senza alcuna funzione di coesione da parte delle istituzioni”, la società italiana sta diventando una “poltiglia di massa”, sfilacciata, inconcludente e senza sguardo al futuro. La sensazione diffusa è quella “di una deriva verso il peggio in tutti i campi della vita individuale e collettiva, dalla politica allo smaltimento dei rifiuti”. L’Italia non è ancora un paese povero ma è più ingiusto e disilluso. Esistono delle realtà produttive e vitali che però non si generalizzano in “uno sviluppo di popolo”. La crescita promossa dalle minoranze attive “non riesce a percolare”. “Non abbiamo più fiducia nello sviluppo di popolo che ha dato vita al boom economico degli anni ’50, all’industrializzazione di massa degli anni ’70, alla lotta al terrorismo”. Il nostro è un “boom silenzioso che non fa sviluppo, non fa legame, non fa progetto, non fa speranza”.

Opportuno il riferimento al boom economico degli anni ’50. Quel “miracolo economico” fu possibile grazie al basso costo del lavoro. L’alto tasso di disoccupazione e il potere fiacco dei sindacati contribuirono a contenere le richieste di aumenti salariali. Ma vi era un’altra ragione che concorse a non far schizzare in alto il costo del lavoro non solo dei salariati. Il Paese era appena uscito da un conflitto disastroso, da una grande calamità. Gli uomini sanno dare il meglio di sé in tempo di calamità. Basti pensare ai disastri naturali, come i terremoti o le alluvioni, quanta gente mobilitano; mobilitano gli speculatori e i profittatori, è inevitabile, ma accorrono anche tante persone che condividendo il disagio con le vittime offrono gratuitamente il loro soccorso. Gli anni del dopoguerra e della ricostruzione furono anni in cui diffuso era lo spirito di solidarietà e di comunità.

Oggi ci troviamo invece in fase di “regressione individualistica” che è giusto il contrario della solidarietà. Ognuno pensa per sé e per lui le parole quali popolo, cultura, scuola, istituzioni non significano più nulla, osserva il presidente del Censis. Per cui quando i “partiti del popolo”, quali quelli guidati da Veltroni o da Berlusconi, propongono progetti di “sviluppo collettivo in cui ci stiamo tutti” le loro proposte appaiono prive di senso. Berlusconi è più ascoltato quando lancia messaggi di rassicurazione agli individualisti; quando dice: “Sono come voi. Seguitemi, votatemi, e vi arricchirete come io mi sono arricchito”.

In un sagace articolo, pubblicato a gennaio su La Stampa, Lietta Tornabuoni si chiede come mai in un tempo di salari scandalosamente bassi i ristoranti costosi sono sempre pieni, i negozi alla moda vendono come niente borsette da 1500 euro, le agenzie di viaggi e i saloni d’auto di lusso fanno affari d’oro, le boutique di alimentari pregiati “dove il gorgonzola costa più dell’oro” continuano a vendere senza cali ostriche, caviale, salmone, champagne e simili, e le file più lunghe per i saldi si fanno in via Condotti a Roma e in via Montenapoleone a Milano. Come si spiega questo volume d’affari in tempi di congiuntura? “Si spiega forse con il fatto che tra ricchi e poveri esiste ora una terza (o quarta, o sesta) classe sociale: i ladri. Compresi truffatori, imbroglioni, profittatori, autori di furti di Stato eccetera. Non sono pochi: le cronache di arresti repentini ce ne fanno scoprire a centinaia. Non sono raffinati: la ricchezza illegale non servirà certo loro per comprare inarrivabili disegni di Michelangelo, ma per far proprie le cose della fisicità, mangiare, bere, vestire, guidare, viaggiare, apparire, pavoneggiarsi”.

In tempi di regressione individualistica e di mancanza di senso della collettività l’unico valore che conta è il proprio immediato tornaconto. S’insegna che la morale non c’entra con gli affari e che l’unica legge che conta è quella del mercato. Qualsiasi prezzo è accettabile finché qualcuno compra. Così si regolano i bottegai, gli artigiani e i liberi professionisti; e tra i lavoratori dipendenti quelli organizzati in categorie forti. Ma questa sfrenata avidità si paga. Ricordiamo tutti il film di Dino Risi I Mostri. Quell’episodio dal titolo: L’educazione sentimentale. Lì un padre (interpretato da Ugo Tognazzi) educa e inizia alla vita sociale il figlio ricorrendo ad esempi ed insegnamenti ispirati a un’assoluta disonestà e alla più totale mancanza di rispetto per gli altri. Il figlio imparerà così bene la lezione da uccidere il genitore per derubarlo. Ricordo il mio barbiere che, approfittando dell’ingresso dell’euro, subito raddoppiò la tariffa; ed ebbe anche la faccia tosta di lamentarsi con noi clienti della disonestà di tanti che avevano aumentato i prezzi senza alcuna giustificazione. I furbi incontreranno sempre qualcuno più furbo sulla loro strada. “Saranno allo stesso tempo imbroglioni e imbrogliati” (2Tm 3,13), prevede l’apostolo Paolo. Ma la pagheranno anche perché chi avvelena l’acqua del proprio pozzo finisce avvelenato. Se un sistema cade in balia delle furberie di molti, prima si destabilizza e poi crolla. Lo vediamo già adesso con l’impoverimento della classe media che vive di lavoro dipendente. Ma lo vediamo anche con lo smantellamento dello stato sociale perché i suoi costi sono diventati insostenibili. Lo stesso servizio sanitario ha raggiunto un livello di spesa difficilmente tollerabile non perché una volta ci si ammalasse di meno ma perché tutto oggi costa molto caro (o, meglio, perché gli attori coinvolti pretendono compensi ingiustificabili). Sono brutti segnali, questi. E quando un sistema crolla non ce n’è per nessuno. Anche il cancro muore dopo essersi nutrito dell’organismo che ha parassitato, ma non per questo si pone il problema. È il tipico quadro delle società in declino, al contempo disperate e gaudenti.

Se in un’attività lavorativa di relazione manca la componente solidaristica, allora perché essa possa essere sopportabile bisogna alzare il livello delle altre componenti, soprattutto di quella economica e spesso a dismisura. Un detto popolare afferma che non c’è denaro a sufficienza per pagare il lavoro degl’indolenti. Lo stesso potrebbe dirsi per il lavoro degli egoisti. Il che significa che la loro prestazione non solo costa molto ma che anche si riduce all’indispensabile, cioè al minimo contrattuale. L’egoista si assume a malapena le responsabilità dovute, figuriamoci quelle non dovute. Questo vale in tutti i campi ed essendo una realtà generalizzata la troviamo del tutto “normale”; non ci aspettiamo nulla di diverso che la mediazione del solo profitto nel rapporto con il negoziante, l’idraulico, il notaio. Ci sorprende e ci disturba quando anche il medico si comporta allo stesso modo, perché diamo come intrinseca in questa professione una componente solidaristica. E infatti per molti è davvero così. Ma per molti altri non lo è. Allora quando un medico non solidale, motivato esclusivamente dal guadagno, dall’ambizione (sua o dei genitori) o, chessò, dal sex appeal, lascia morire un infartuato sulla soglia del pronto soccorso noi ci indigniamo. In realtà un medico non solidale è ancor prima un uomo non solidale, come ce ne sono tanti, forse la larghissima maggioranza, come indica il trend evidenziato dal rapporto del Censis. E allora è con questa società che dobbiamo prendercela, cominciando da noi stessi a fare esame di coscienza. È calzante quel commento sul film di Dino Risi: “I Mostri siamo noi. Uomini, donne e bambini qualunque che conducono un’esistenza che non pretende in alcun modo di essere speciale, né esclusiva”.