sabato 31 maggio 2008

Il patto scellerato sempre in agguato

Quando pensiamo allo stato confessionale per antonomasia la nostra mente corre al Vaticano. Forse, però, almeno per il momento, esso viene superato dall’Arabia Saudita che, non a caso, ha adottato il Corano come Costituzione e possiede la mutawwa: una polizia “morale” che, tramite una sorta di ministro, fa capo direttamente al Re. I 10 mila effettivi di questo insolito corpo hanno come compito “la promozione della virtù e la prevenzione del vizio”. Ne ha di recente fatto le spese Yara, una giovane manager americana di origine giordana sposata a un saudita. Saltata l’energia elettrica nel suo ufficio, si era spostata con un collega siriano nel bar di sotto per parlare di lavoro quando, in seguito ad una “soffiata”, è stata raggiunta e arrestata dalla polizia religiosa con l’accusa di khulwa, cioè di promiscuità. “Finirai bruciata all’inferno”, l’ha ammonita uno shaikh mentre la costringeva a firmare la confessione del suo peccato-reato. Poi è stata spedita in carcere dove è stata spogliata, perquisita, maltrattata e trattenuta per sei ore, e liberata solo per l’intervento del marito precipitatosi in città per salvarla. Essendo la vittima cittadina statunitense, la notizia non è passata inosservata e ha sollevato un coro di critiche. Ma la polizia, che gode di protezioni altolocate, si è difesa piccata: “È una peccatrice e ha infranto la legge: lavorare insieme per uomini e donne non parenti è haram (proibito)”. Ma l’Arabia e in buona compagnia nella difesa della fede. Alcuni giorni fa un bambino pachistano è stato ucciso a bastonate dal suo maestro per non aver memorizzato alcuni versetti del Corano. Per questa grave colpa, Atif, 7 anni, cieco dalla nascita, è stato appeso a testa in giù al ventilatore del soffitto e poi bastonato a morte. “Era troppo fragile”, si è difeso il maestro della madrassa. I casi di violenza sui minori sono all’ordine del giorno nelle scuole religiose del Pakistan. Sorvoliamo sull’impiccagione degli omosessuali in Iran e la lapidazione delle donne, anche solo sospette di adulterio, o sulla loro fustigazione in Indonesia per “abbigliamento islamico improprio”. Habiba Kouider rischia tre anni di carcere per conversione “non autorizzata” al cristianesimo, così come prevede una recente legge algerina del 2006. Le erano state trovate in borsa alcune copie del Vangelo e questo basta per essere passibili d’arresto. E parliamo dell’Algeria, ovvero di uno stato ritenuto moderato. Al contempo il controllo della pubblica moralità può rasentare la comicità involontaria. Le autorità di Sharjah, uno dei sette Emirati Arabi Uniti, hanno decretato la decapitazione dei manichini di tutti i negozi d’abbigliamento del territorio. “I manichini non devono avere testa e l’abbigliamento in vetrina deve rispettare le norme della decenza, secondo i principi della religione” recita la circolare.

Sono alcuni esempi, tutt’altro che esaurienti, di quel che avviene quando la religione pretende di definire ogni minimo dettaglio del vissuto e della quotidianità delle persone, e quando le istituzioni civili si prestano a farle da sponda secolare. I paesi musulmani sono un esempio lampante di tale realtà in quanto dall’Islam (che significa sottomissione) non ci si può attendere altro e in quanto solo in quei pochissimi casi in cui si è proceduto alla separazione sostanziale della sfera religiosa da quella secolare ci si è potuti avvicinare (ma non sempre, e spesso solo nella messinscena delle regole del processo elettorale) all’esercizio della democrazia e al rispetto dei diritti umani. E comunque anche queste realtà eccezionali sono in continuo pericolo di soccombere perché al musulmano praticante non è concesso anteporre le leggi civili a quella divina e tanto meno lo si potrebbe consentire ai miscredenti. Per cui è sempre forte la spinta degli osservanti indisponibili al compromesso a usare la democrazia per consolidare il proprio potere e sostituirla con la shura, un organismo consultivo cui è solo concesso di definire le modalità attuative della sharia, la legge islamica che è una legge sostanzialmente intollerante. La zakat (lett. purificazione) è l’imposta religiosa sulla ricchezza che il buon fedele deve dare annualmente in offerta. Nell’Appendice 3 (adesso diremo di cosa) dedicata alla zakat vengono considerate come legittima destinazione di questi fondi anche le spese militari e la lotta contro la miscredenza. Non è uno dei soliti bollettini di Al-qaeda ma le note al Corano più diffuso in Italia e distribuito in gran parte delle moschee italiane che fanno capo all’Ucoii, ritenuto organismo musulmano moderato, naturale interlocutore delle istituzioni. Nel dna dell’Islam vi è tanta intolleranza che si esprime all’esterno con l’appello alla guerra santa, nelle sue forme più varie e opportune, e all’interno con un implacabile controllo sociale.

Ciò nonostante nelle note del suddetto Corano, e precisamente nel commento alla sura V,14, possiamo leggere quanto segue: «Le divisioni che lacerano il mondo cristiano sono un castigo voluto da Allah per i cristiani in questa vita. Per quanto riguarda i cattolici, non si può non registrare la perdita del loro stesso diritto canonico tradizionale (che viene continuamente "adeguato ai tempi"), dei loro riti, dell'autorità dei loro ministri, della legittimazione stessa della Chiesa che, costretta tra un rinnovamento che ha ormai solo riferimenti di tipo sociale e un conservatorismo sterile e arroccato su posizioni retrive, cerca di testimoniare la sua influenza sugli uomini ricorrendo al prestigio mediatico del suo capo carismatico».

D’impulso, la nostra prima reazione è: Ma senti da quale pulpito viene la predica! Soprattutto per quel "conservatorismo sterile e arroccato su posizioni retrive" che detto da un Islam risaputamente progressista e aperto alle esigenze di una società in continua evoluzione non può non suonare come involontariamente esilarante. Tuttavia, anche da un pulpito scarsamente accreditato, tra i tanti spropositi, può venire un’affermazione fondata. Pensiamoci un po’. I conservatorismi arroccati portano inevitabilmente a forme, più o meno dissimulate, d’intolleranza; a cominciare da quella religiosa. Noi gente di cultura cristiana siamo intolleranti? Per contrasto, la grossolanità dell’intolleranza musulmana tende a coprire questo dato. Proviamo a chiedere di costruire, non dico una cattedrale, ma una semplice cappella, non dico alla Mecca, a Medina o a Riyad ma nella cosmopolita Gedda o anche nel deserto dell’Arabia Saudita: se il richiedente non fosse coperto dall’immunità diplomatica sarebbe subito arrestato. Di contro, dal 1995 fa sfoggio di sé proprio a Roma, la capitale della cristianità, la più grande Moschea d’Europa. Progettata dall’architetto Paolo Portoghesi, sorge su un terreno di 30.000 m² e può ospitare migliaia di fedeli. Da chi è stata voluta e finanziata questa splendida “cattedrale” dei musulmani? Dal re Feysal dell’Arabia Saudita, Custode delle Due Sante Moschee. Bella coerenza davvero. C’è un articolo di Magdi Allam, dal titolo “La grande persecuzione dei cristiani nel mondo arabo” che è davvero illuminante. Questi che costituivano il 95% della popolazione della sponda poi musulmana del Mediterraneo, sono attualmente precipitati al 6% e, di questo passo, tra 10 anni, si ridurranno al 3%. Dalla prima guerra mondiale ad oggi sono stati costretti ad emigrare in 10 milioni. La “liberazione” dell’Iraq, voluta da Bush, ha di fatto liberato il paese dai cristiani. Per le persecuzioni e le vessazioni, cioè per l’intolleranza, dei musulmani locali questi sono passati da un milione e mezzo a circa 25 mila, e presto non ce ne saranno più perché tutti scappati o ammazzati.

Ma la domanda rimane: noi gente di cultura cristiana siamo intolleranti? Diciamocelo pure e non serve nasconderselo. Dell’atteggiamento accogliente ma intollerante degli americani abbiamo già detto. Ma non è che noi europei abbiamo molto più da essere fieri. Secondo un rapporto pubblicato lo scorso anno da “Human Rights First” non solo il fenomeno da noi esiste ma è in aumento. Sono in crescita gli atti di violenza motivati da intolleranza religiosa, razziale e sessuale, i cosiddetti “crimini dell’odio”. Sono soprattutto i paesi dell’est a destare maggiore preoccupazione, non a caso quelli meno addestrati al confronto democratico. Ma non è che nell’Europa occidentale le cose vadano molto meglio. È vero, supportiamo meno dei nostri cugini orientali i nostri atteggiamenti intolleranti con le dottrine razziste dell’Ottocento, ma ci abbandoniamo anche noi ai nostri bravi crimini dell’odio. In Russia c’è stata una proliferazione di crimini contro le minoranze etniche e religiose, e comunque contro le minoranze tout court. È nota la vicenda dei radicali europei che, in occasione del (quanto si vuole discutibile) Gay pride, volevano consegnare al sindaco di Mosca una lettera firmata da 50 parlamentari europei e italiani. Mentre distribuivano un volantino con il testo della lettera, un gruppo di naziskin – con la benedizione di un vescovo ortodosso lì presente – ha cominciato a picchiare i partecipanti all’iniziativa. La polizia, intervenuta con neppure molta sollecitudine, anziché difendere le persone aggredite ha provveduto ad arrestare i radicali. In Germania i crimini commessi dagli estremisti non trovano l’appoggio così esplicito della pubblica opinione ma in un anno sono comunque aumentati del 20%. Sono pure in crescita gli atti di violenza antisemita; dalla Russia alla Francia sono sempre più sotto tiro gli ebrei e i simboli della religione israelita, cimiteri compresi. Sono invece in diminuzione i crimini contro i musulmani e i loro simboli dopo il picco che seguì gli attentati alla metropolitana di Londra; ma sono ancora numerosi. Di tutto questo forse il dato più significativo è il fatto che solo pochi governi hanno istituito sistemi di monitoraggio del fenomeno, a testimonianza della sostanziale indifferenza che esso suscita.

Vi è poi la forma d’intolleranza di cui dicevamo in apertura: quella della religione quando pretende di definire ogni minimo dettaglio del vissuto e della quotidianità delle persone. È forse la forma più subdola e opprimente d’intolleranza; subdola perché non immediatamente percepibile, se non dalla vittima, in quanto trova il consenso di larga parte dell’opinione pubblica; più opprimente perché rivolta a tutti, a cominciare dai propri fedeli di cui coarta le coscienze. Per i paesi islamici questo è più evidente perché lì la legislazione civile si adegua spesso supinamente ai dettami di quella religiosa, perché le regole ci appaiono assurde e soffocanti, perché le sanzioni ci risultano, oltre che spesso ingiustificabili, comunque crudeli e spropositate.

Tale tipo d’intolleranza nei paesi cristiani si presenta con meno evidenza, per una serie di motivi. Innanzi tutto per i condizionamenti culturali che si acquisiscono già nell’infanzia. Se non presenta difficoltà giudicare con obiettività (o anche con pregiudizio) le incongruenze che emergono dalle altrui culture risulta molto più difficile rilevare le incongruenze del proprio sistema di riferimento che condiziona al punto da limitare la capacità di giudizio persino dei più colti e intelligenti. Anzi – come afferma la psicologa dell’età evolutiva Alice Miller – l’intelligenza può aiutare a compiere innumerevoli giri viziosi quando sia necessario adattarsi al proprio sistema di riferimento.

Anche quando riusciamo ad avvertire le incongruenze, esse sono meno distanti dal nostro sistema dei valori, il controllo sociale è meno soffocante, la normativa civile è molto meno disponibile a ratificare passivamente quella religiosa, e quindi le sanzioni minacciate finiscono spesso, grazie a Dio, per limitarsi all’ambito ecclesiale o ultraterreno.

Ma ciò non significa che anche così le ingerenze della religione non facciano danni o che non spingano per imporsi in maniera più pervasiva. La Chiesa esiste da troppi secoli per non sapere quando è il momento di minacciare e quando lo è di rassicurare, quando è caso d’intromettersi in politica e quando lo è di limitarsi alla proclamazione del Vangelo, quando è tempo di agire allo scoperto e quando lo è di muoversi celatamente. È vero che i sistemi democratici prevedono delle forme di controllo per garantirsi dallo strapotere che alcuni organi dello Stato potrebbero esercitare sugli altri e per difendersi da ingerenze esterne, ma la prima vera garanzia di uno Stato è nella qualità dei suoi uomini e, in genere, dei suoi cittadini. Sennò qualsiasi garanzia può essere aggirata. Mi ha colpito la definizione che Sergio Castellitto, membro della giuria, ha dato dei due film gemelli premiati a Cannes, Il Divo e Gomorra: “Hanno in comune un grande tema, ovvero cosa si nasconde dietro la faccia urbana, civile, occidentale, di una democrazia. È facile parlare di una dittatura, di un Paese in via di sviluppo; ma altra cosa è affrontare il volto controverso di una realtà europea in cui la verità supera perfino ciò che si racconta”.

Chiudendo il seminario promosso dalla Fondazione Italianieuropei, Massimo D’Alema ha parlato di “Religione e democrazia in Europa e negli Stati Uniti”. Partendo da un presupposto ormai da molti condiviso, identificando cioè nel fallimento delle grandi ideologie del ‘900 una delle ragioni del ritrovato peso pubblico della fede nelle società “smarrite, imbarbarite, disumanizzate”, egli, riferendosi in particolare alla situazione italiana, paventa il pericolo di un’alleanza strumentale tra la destra politica e la Chiesa. La prima utilizzando la religione come cemento e collettore d’un voto identitario, la seconda offrendo una sponda al potere “per ottenere in cambio la tutela giuridica di principi e valori, come aborto o fecondazione, perché diventino leggi imposte a tutti colpendo la laicità dello Stato”. L’ex premier non mette in discussione l’apporto dei cattolici alla vita pubblica, che attraverso la DC avevano comunque garantito la separazione dei poteri e il confronto democratico. Ciò che egli teme è il rischio del fondamentalismo, “il sogno regressivo di una società monoreligiosa” che finirebbe per mettere in discussione le garanzie di libertà e pluralismo che sono a fondamento delle democrazie. Il nodo di fondo è sempre quello: il patto scellerato tra il potere politico e quello religioso, oggi evidente – come dicevamo – nelle società islamiche, un tempo altrettanto soffocante nelle società cristiane e sempre a rischio di riproporsi. Esplicito il monito conclusivo del relatore: “La tentazione del potere è demoniaca e sempre, nella storia della Chiesa, è stata all’origine di misfatti, di cui Giovanni Paolo II ha dovuto chiedere perdono”. Il monito di un “laico” che io da Cristiano devo condividere pienamente, poiché “dove c’è lo Spirito c’è libertà” (2Cor 3,17), e un cristianesimo che non si adopera per la libertà si contraddice assolutamente.

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