lunedì 6 aprile 2009

La banalità del male e l’esercizio del potere

Un’amica, di cui non faccio il nome per non esporla a possibili rappresaglie, fa parte di un coordinamento di funzionari che gestisce alcune importanti strutture pubbliche. In virtù della stima che ci lega, lei mi racconta spesso non solo delle cose che si decidono ma soprattutto delle interazioni tra i partecipanti, dei loro tratti di carattere, di un mondo che si prende molto sul serio ma che è in gran parte costruito sull’effimero. Alcune sue argute osservazioni di contesto mi hanno dato modo di riflettere su quello che è il più spinoso degli argomenti esistenziali: il male. In questo caso del male connesso all’esercizio del potere. E di quanto esso sia sempre banale, a fronte dei danni e delle sofferenze che provoca. Si dice della raffinatezza del male e dell’ingenuità del bene. La realtà sembra invece indicare giusto il contrario: Per quanto raffinato possa apparire il male, osservato da vicino, si disvela una degenerazione delle cose buone e nobili. Ecco il male non è mai nobile e osservato da vicino appare in tutta la sua banalità. Della Storia moderna, la letteratura attinge spesso alle atmosfere create dal regime nazista tedesco come esempio paradigmatico dei danni morali, prima ancora che fisici, causati a milioni di persone in qualche modo raggiunte e oppresse da quel regime. Ebbene, lo studio delle biografie dei gerarchi nazisti ha rivelato una realtà inattesa e disarmante: che essi in maggior parte erano uomini mediocri e superficiali. La cronaca e le riflessioni sul processo ad Eichmann, raccolte dalla filosofa Hannah Arendt in un volume che non a caso già nel titolo fa riferimento alla banalità del male, prende atto dell’incapacità di questo criminale di comprendere il significato delle proprie azioni. In sua difesa egli tenne a precisare che, in fondo, si era occupato “soltanto di trasporti”. Eichmann comunque non era uno stupido, infatti la Arendt non pone il male da lui compiuto in relazione con la stupidità bensì con l’incapacità di pensare, e quindi pure di interrogarsi sulle reali conseguenze delle proprie azioni. Ella sostiene che il male procede da un deficit di convivenza, con gli altri ma prima ancora con se stessi, in quel dialogo silenzioso tra io e io che già Socrate chiamava “pensare”. Ed a proposito ancora afferma: «La mia opinione è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come una muffa. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”... solo il bene ha profondità e può essere integrale».

Io condivido solo in parte le conclusioni a cui giunge la Arendt, perché credo nella dimensione demoniaca del male. Il mio paradigma di riferimento è quello classico della dottrina cristiana: il bene procede da Dio e il male dalla ribellione a Dio che fu iniziata dal capo dei cherubini, che si inorgoglì e non accettò più la posizione, pur onorevolissima, di prima delle creature e che da allora divenne Satana (lett. “Avversario”, “Accusatore”) e Diavolo (“Colui che divide”). Pertanto il male fu iniziato ed è portato avanti, finché gliene sarà data l’opportunità, da quest’arcangelo ribelle e dai suoi accoliti che sono gli angeli decaduti ma che sono anche uomini. Una moltitudine sterminata di uomini da quando esiste la specie umana. Tra essi anche menti geniali che hanno usato le loro qualità per soddisfare i loro istinti bestiali e il proprio egoismo. Per il resto condivido le argomentazioni della filosofa ebrea d’origine tedesca. Il male è banale e, sebbene sia pervasivo, non possiede “radicalità”, cioè profondità. Chi è avvezzo al male non ama soffermarsi in compagnia della propria coscienza, non ama il pensiero tridimensionale e finisce per sostituirlo con il pensiero bidimensionale, quello che si ferma alla superficie, che è più un rimuginare, è coazione a ripetere, è prefigurarsi egoistici scenari di gratificazione, ed è al contempo attuazione di quelle che il sociologo della devianza Mazda chiamava “tecniche di neutralizzazione”, ovvero la ricerca di giustificazioni che consentano di convivere senza rimorso con l’agire deviante. Più si è intelligenti e più si è in grado di contorcere gli argomenti per mettere a tacere la coscienza. Anche le grandi menti devianti sono pertanto superficiali perché pensano in 2D. Anch’esse rappresentano il male nella sua banalità ma, riuscendo meglio ad ammantarlo di ragioni solenni, è meno agevole smascherarle.

Quel che più inquieta, però, non sono le menti criminali d’un certo spessore che risultano essere sparute e a cui si riconosce in qualche modo la “vocazione” al ruolo che si sono scelte. Inquieta di più scoprire che gran parte del male al mondo è servito da un oscuro esercito di grigi burocrati. Persone normalissime. I vicini di casa che il giorno prima chiacchieravano sul pianerottolo, e i cui bambini giocavano insieme nel cortile, e che l’indomani si trasformano nei cecchini di Sarajevo perché i rispettivi capi-etnia li chiamano a farlo. Ma anche nel piccolo: il collega d’ufficio che per anni ha condiviso con te le abitudini, gli spazi, le sfuriate del capo e che poi, un bel giorno, viene cooptato dalla “cupola” in un ruolo di comando e lui si adegua alle nuove regole e alle consuetudini, per quanto ciniche, al punto di farsi aguzzino degli antichi colleghi con la giustificazione che il nuovo ruolo glielo impone.

Sta qui la banalità del male: nel fatto che esso non costituisce un’alternativa di valori, rispetto al bene, ma si configura in una loro assenza, in un vuoto, in una mancanza di sentimenti, di umanità, ecc. In definitiva, in un nulla. È appropriato paragonarlo ad una muffa che tutto invade, e con le sue ife avvolge e soffoca dapprima il cervello impedendogli di pensare in autonomia, di esercitare cioè l’unica attività in grado di contrastare la tirannia degli istinti. Primo tra tutti l’istinto ad ubbidire. La coazione all’obbedienza è radicata nella natura dell’uomo in quanto animale sociale, ne costituisce una delle risposte più primitive ed ha origine dai suoi bisogni primari. Per sopravvivere come individuo, ma anche come specie, l’uomo si colloca all’interno di una struttura di tipo gerarchico e si pone al servizio del più forte, se necessario offrendo servigi poco nobili e meschini sino allo “strisciamento”. L’evoluzione del contesto storico non muta i termini della relazione: l’obbedienza è la gratificazione che si rende al Capobranco, al Padrone o al Datore di lavoro, ovvero al detentore diretto o indiretto di risorse a cui l’Obbediente ambisce per crearsi una sensazione di sicurezza, che concretizza in successive aspettative di ricompensa (cibo, salario, protezione, promozione sociale, ecc.). Per natura e per convenienza l’uomo non può prescindere dalla disciplina e dall’obbedienza. Fanno eccezione il caratteriale, l’idiota e il pazzo (per limiti strutturali) oppure chi ha maturato una coscienza etica così forte da preferire di ubbidire sempre ad essa, costi quel che costi. Purtroppo il Disobbediente etico costituisce una vera rarità; infatti, o è un “caratteriale” anch'egli, nel senso che strutturalmente non può derogare dai suoi principi di riferimento, o altrimenti la sua attitudine non si costruisce semplicemente con le discussioni e con i componimenti scolastici sul tema della pace e del rispetto del prossimo. Egli deve contrastare pulsioni biologicamente determinate, deve imparare a tenere a bada la natura attraverso la cultura, e ciò può avvenire solo attraverso un’azione intensa, continua e soffertissima e, come il cristiano ben sa, non soltanto attingendo alle proprie forze. D’altronde lo disse Gesù: molti sono i chiamati ma pochi gli eletti.

Nel 1961, a pochi mesi dall’inizio del processo ad Eichmann, lo psicologo sociale Stanley Milgram condusse un esperimento per tentare di rispondere alla domanda: “È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?”. Perché questa era la costante giustificazione che i criminali nazisti fornivano alle corti che li giudicavano: “Ci siamo limitati ad eseguire degli ordini”. Ciò che Milgram intendeva verificare era fino a che punto un’autorità ritenuta legittima può spingere una persona a superare i propri limiti morali, in nome di un “bene” superiore. Il suo test per lo studio dell’obbedienza consisteva nel far sedere un volontario, detto insegnante, ad una consolle con 30 interruttori a levetta in grado di provocare una scossa di intensità crescente, da 15 a 450 volt, ad un secondo soggetto indicato come allievo che veniva legato ad una sorta di sedia elettrica con l’applicazione di un elettrodo al polso. Le levette erano contrassegnate per gruppi di 4 con diciture quali “scossa lieve”, “scossa intensa”, “scossa molto intensa”, “attenzione: scossa molto pericolosa”. All’insegnante era fatta percepire la scossa relativa alla terza levetta (45 v) in modo che potesse constatare personalmente che non vi erano finzioni. Il suo compito consisteva nel leggere all’allievo una serie di parole in coppia che questi doveva associare correttamente. Ad ogni risposta errata il volontario veniva invitato dallo sperimentatore a somministrare una scossa “di rinforzo” all’allievo, aumentando l’intensità della scossa ad ogni suo errore. In realtà l’allievo era complice degli sperimentatori e non percepiva alcuna scossa, ma doveva fingere delle reazioni mimando un disagio e dolore crescente man mano che aumentava l’intensità delle scosse finché, raggiunti i 320 volt, non emetteva più alcun lamento. Compito dello sperimentatore era quello d’incalzare l’insegnante con esortazioni quali “l'esperimento richiede che lei continui”, “è assolutamente indispensabile che lei continui”, “non ha altra scelta, deve proseguire”. Il campione dei 40 “insegnanti”, fu scelto di proposito tra persone di sesso maschile, emotivamente stabili, di varia estrazione sociale e di età compresa tra i 20 e i 50 anni, disposte a collaborare dietro ricompensa. Un sorteggio truccato assegnava sempre il ruolo di allievo al collaboratore e quello di insegnante, ovviamente, al soggetto ignaro.

Il risultato dell’esperimento fu stupefacente e superò ogni aspettativa degli sperimentatori. Nonostante il disagio e le suppliche dell’allievo, la maggior parte degli insegnanti (il 65 per cento) proseguiva fino alla scossa più intensa, anche quando l’allievo non emetteva più alcun lamento. Inoltre il 79 per cento dei volontari superò la fase dei 150 volt in corrispondenza della quale il falso allievo supplicava di smettere e chiedeva di rinunciare. L’esperimento di Milgram ha pienamente dimostrato che l’obbedienza ad una autorità ritenuta legittima, in presenza di norme sociali contrastanti (da una parte quelle che stigmatizzano l’uso della forza e della violenza e dall’altra quelle che prevedono una reazione aggressiva a certe sollecitazioni), spinge il più delle volte una persona a superare i propri limiti morali. E dal momento che questa accetta la definizione della situazione proposta dall’autorità, finisce col ridefinire un’azione distruttiva, non solo come ragionevole ma anche come oggettivamente necessaria.

Da allora sono cambiate molte cose. Dopo i processi ai criminali nazisti, sono stati istituiti i Tribunali internazionali per i crimini contro l’umanità; si è discusso sui limiti tra metodi leciti di interrogatorio e sulla messa al bando della tortura; le immagini dal carcere di Abu Ghraib hanno fatto il giro del mondo; c’è dibattito e maggiore consapevolezza dei diritti civili e individuali. In molti hanno sostenuto che ripetendo al giorno d’oggi l’esperimento di Milgram, i soggetti messi alla prova sarebbero meno passivi e meno pronti ad un’obbedienza acritica. Ma i fatti smentiscono questo ottimismo sulla natura umana passivamente influenzata da una cultura più attenta al rispetto della persona umana. Alcuni anni fa lo stesso esperimento di Milgram, con qualche aggiustamento per corrispondere ai mutati standard etici, è stato ripetuto dallo psicologo californiano Jerry Burger, e il risultato è stato desolatamente analogo al prototipo originale: il 70 per cento dei volontari ha continuato a infliggere scosse elettriche (così essi credevano) anche quando la “vittima” aveva comunicato loro che provava dolore. Ci sono cose che non cambiano mai, tra queste la ridotta capacità di esercitare il senso critico in situazioni in cui un’autorità ritenuta legittima ordina di fare qualcosa in contrasto con le proprie convinzioni. A parole ci si può dire d’accordo sull’inviolabilità dei diritti umani e sul rispetto dell’altro, ma quando scatta il richiamo primordiale del capobranco, s’inserisce una sorta di pilota automatico governato da pulsioni ancestrali e non c’è “apprendimento sociale” che tenga.

Numerose sono le ricerche che hanno utilizzato il paradigma di Milgram. Tra queste trovo utile soffermarmi sul cosiddetto Esperimento carcerario di Stanford, condotto nel 1971 presso la Stanford University dallo psicologo Philip Zimbardo e dal suo team. Scopo dell’esperimento era quello di studiare il comportamento umano in un contesto sociale in cui gl’individui sono definiti soltanto dal gruppo di appartenenza. Nel seminterrato dell’Istituto di psicologia di quell’Università fu riprodotto in modo fedele l’ambiente di un carcere per lasciarvi interagire due gruppi di volontari con il ruolo rispettivamente di guardie e prigionieri. Tra i 75 studenti universitari che avevano risposto a un annuncio apparso su un quotidiano locale, che chiedeva volontari maschi per una ricerca remunerata, ne furono selezionati 24, di ceto medio, fra i più equilibrati, maturi e meno attratti da comportamenti devianti. Assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie, furono fatti abbigliare con il dovuto realismo: ai primi furono fornite ampie divise numerate, sia davanti che dietro, e un berretto di nylon; fu applicata una catena alla caviglia e venne loro chiesto di attenersi ad una rigida serie di regole. Le guardie indossavano uniformi color kaki e occhiali da sole riflettenti che impedivano ai prigionieri di guardarle negli occhi e leggere le loro emozioni; erano inoltre dotate di manganello, fischietto e manette, e fu loro concessa ampia discrezionalità sui metodi da seguire per mantenere la disciplina e farsi rispettare. L’abbigliamento di entrambi i gruppi era finalizzato a far smarrire ai volontari l’identità personale a favore di quella del gruppo di riferimento.

I risultati andarono molto al di là delle previsioni degli sperimentatori. Essi si rivelarono tanto drammatici che l’esperimento, la cui durata prevista era di due settimane, dovette essere interrotto dopo solo sei giorni per il forte impatto che la situazione ebbe sugli studenti che vi presero parte. In breve tempo si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all’interno delle celle inveendo contro le guardie. Queste, dopo un momento di perplessità, si diedero da fare per riportarli sotto il proprio controllo, intimorendoli, umiliandoli e cercando in tutte le maniere, riuscendoci, di spezzare il legame di solidarietà che inizialmente si era sviluppato fra di loro; discriminandoli nella somministrazione di sanzioni e gratificazioni, e rendendoli reciprocamente sospettosi. Le guardie costrinsero i prigionieri a faticosi e umilianti esercizi, a rispondere all’appello con il numero assegnato, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare, a dormire sul pavimento. A fatica fu sventato un tentativo di evasione di massa da parte dei detenuti. Al quinto giorno i prigionieri presentavano segni evidenti di depressione e stress, di disgregazione individuale e collettiva: il loro comportamento era divenuto docile e passivo, il rapporto con la realtà seriamente compromesso. Come affermò lo stesso Zimbardo “i prigionieri erano a pezzi, sia come gruppo sia a livello individuale. Non c’era più alcuna unità ma solo un mucchio di individui somiglianti a prigionieri di guerra o a pazienti di un ospedale psichiatrico. Le guardie avevano il controllo totale della situazione e potevano contare sulla cieca obbedienza di ciascun prigioniero”. D’altra parte queste erano entrate rapidissimamente nel ruolo, iniziando ad agire in modo sempre più vessatorio e sadico. Persino gli sperimentatori ebbero difficoltà a tener le distanze da quella che doveva essere solo una finzione sperimentale. Gli eventi stavano sfuggendo di mano al punto che si ritenne necessario interrompere l’esperimento, con gran sollievo dei carcerati e, si badi bene, con un malcelato disappunto da parte delle guardie.

“Cosa succede se si mette della brava gente in un posto "cattivo"? Riuscirà il bene a vincere sul male o, piuttosto, trionferà il male?”, si chiese Zimbardo. L’esperimento non diede adito a dubbi: il male tende a prendere il sopravvento sul bene. Come si spiega questa tensione verso la cattiveria? La Rivelazione biblica la spiega con il dominio del peccato. “Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno, chi lo conoscerà?” (Ger 17:9). L’apostolo Paolo prende atto di questo dominio e indica l’unica soluzione in Cristo: “Eccomi dunque, con la mente, pronto a servire la legge di Dio, mentre, di fatto, servo la legge del peccato. Me infelice! La mia condizione di uomo peccatore mi trascina verso la morte: chi mi libererà? Rendo grazie a Dio che mi libera per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (Rom 7:24,25). Il cristiano naturalmente si riconosce in questa constatazione, però può anche chiedersi quali siano i meccanismi biologici che determinano i comportamenti o, comunque, li influenzano pesantemente persino quando i riferimenti morali individuali sono positivi. Sia l’esperimento di Milgram che quello di Zimbardo indicano che l’esercizio del potere interferisce pesantemente sul comportamento etico di chi questo potere al contempo lo subisce e lo agisce. Chi assume una funzione di controllo sugli altri attribuitagli da una istituzione che egli riconosce legittima, è indotto ad assumere le norme e le regole di questa istituzione come unico valore a cui il comportamento deve adeguarsi. Adeguandosi a queste norme egli perde autonomia comportamentale (stato eteronomico) e subisce un processo di deindividuazione che induce una perdita di responsabilità personale, ovvero una ridotta considerazione delle conseguenze delle proprie azioni, e indebolisce i controlli basati sul senso di colpa, la vergogna, la paura, così come pure i controlli che inibiscono l’attuazione di comportamenti aggressivi/distruttivi. Pertanto la deindividuazione comporta una diminuita consapevolezza di sé e al contempo un’accresciuta identificazione e sensibilità agli scopi e alle azioni intraprese dal gruppo con cui ci si identifica: l’individuo cioè pensa che le proprie azioni siano parte di quelle compiute dal gruppo.

L’esperimento carcerario di Stanford offre parecchi spunti di riflessione riferiti ad entrambi i gruppi, per non dire pure del gruppo dei ricercatori che, come dicevamo, ebbero difficoltà a tener le distanze da quella che doveva essere solo una finzione sperimentale e in certi momenti agirono anch’essi come se la prigione finta fosse vera. È interessante notare come il gruppo dei prigionieri, dopo un’iniziale resistenza, finì per perdere la stima di sé e per accettare docilmente e supinamente il ruolo dei suoi aguzzini, facilitandone l’azione di controllo. È istruttiva una considerazione che a proposito di questo atteggiamento fa lo stesso Zimbardo: “Nella prigione allestita negli scantinati, i prigionieri hanno rinunciato alle loro libertà basilari in seguito al controllo coercitivo delle guardie. Tuttavia, a parte il laboratorio, anche nella vita reale molte persone volontariamente rinunciano alla propria libertà di parola, di azione e di associazione anche senza che vi siano delle pressioni esterne che impongano di farlo. Ciò dipende dall’interiorizzazione che esse hanno fatto di questi carcerieri così esigenti, che sono diventati parte del proprio sé; le guardie che limitano le opportunità verso la spontaneità, la libertà, la gioia di vivere. Paradossalmente, queste stesse persone hanno interiorizzato anche l’immagine del prigioniero passivo che, seppure in modo riluttante, si mostra acquiescente nei confronti di queste restrizioni che si è auto-imposto in tutte le proprie azioni. Ogni azione che richiama l’attenzione degli altri spaventa queste persone che temono di sentirsi potenzialmente umiliate, di provare sentimenti di vergogna, di essere rifiutate dagli altri, per cui tutto questo va evitato. In risposta al carceriere interno, la persona si fa prigioniera e si tira indietro dalla vita, nascondendosi dentro una corazza, scegliendo la sicurezza della silenziosa prigione della timidezza. Elaborando questa metafora, a partire dall’esperimento della Stanford University, ho pensato alla timidezza come una fobia sociale che rompe i legami dei rapporti interpersonali facendo degli altri una minaccia, anziché un’opportunità”. Scriveva Nathaniel Hawthorne: “Quale altra prigione è così oscura come il proprio cuore! Quale carceriere è così inesorabile come il proprio sé?”. Talvolta noi siamo i primi aguzzini di noi stessi, e in qualche modo apparecchiamo la strada ai nostri aguzzini esterni.

D’altra parte, tornando al nostro esperimento, è pure interessante osservare la facilità con cui le guardie entrarono nella parte dimostrando di assecondare una tensione istintuale. Erano così soddisfatte del loro ruolo, afferma Zimbardo, che “di queste ultime nessuna si ritirò mentre lo studio era ancora in corso, si presentò mai in ritardo, si assentò per malattia, andò via in anticipo o chiese un pagamento extra per il lavoro fuori orario”, e, come abbiamo detto, provarono tutte disappunto quando l’esperimento finì.

Sempre dall’atteggiamento delle guardie, si evince almeno una nota consolatoria che conforta sul fatto che l’agire umano non è del tutto biologicamente determinato. O, quanto meno, che non tutti gli istinti sono negativi. Sebbene si dimostrassero tutte soddisfatte del loro ruolo, Zimbardo notò delle differenze di comportamento. Afferma egli: “C’erano tre tipologie di guardie. Le prime erano quelle, severe ma corrette, che seguivano scrupolosamente le regole della prigione. Le seconde erano rappresentate dai cosiddetti "bravi ragazzi", da quelli cioè che concedevano pochi favori ma che al tempo stesso non punivano mai i prigionieri. Infine, un terzo delle guardie era costituito da coloro i quali si mostravano ostili, autoritari e "creativi" nella scelta delle forme di umiliazione da infliggere ai prigionieri. Sembrava che godessero appieno del potere loro concesso, sebbene nessuno dei test di personalità precedentemente somministrati fosse stato in grado di predire un tale atteggiamento”.

Questa difficoltà a determinare l’attitudine al sadismo o, quantomeno, all’eteronomia emerse pure dai test di personalità somministrati ai volontari dell’esperimento di Milgram, quello delle scosse elettriche, per intenderci. Anche in quel caso risultò impossibile sapere a priori chi sarebbe andato avanti sino alla levetta dei 450 volt e chi si sarebbe fermato prima. Sembra che non vi sia alcun segnale preventivo e nemmeno le valutazioni psicometriche si correlerebbero in modo significativo con la capacità di esercitare il senso critico in situazioni in cui un’autorità ritenuta legittima ordina di fare qualcosa in contrasto con le proprie convinzioni. E questa constatazione, invece, fa paura perché chiunque tra le persone che ci circondano, anche chi attualmente ci è benigno e solidale, se investito dell’orwelliana autorità, potrebbe trasformarsi nel nostro implacabile aguzzino, riuscendo pure a dormire sonni tranquilli.

Peraltro la difficoltà a conservare il proprio senso critico in un contesto di eteronomia non è necessariamente indice di una personalità negativa, autocentrata e opportunista. Anche l’individuo più generoso ed animato delle migliori intenzioni, se non ha la forza di riferirsi sempre e comunque al proprio codice morale, può farsi tramite di grandi ingiustizie. Ciò avviene spesso quando si è stati educati ad avere un’acritica fiducia nei confronti dell’autorità. Pertanto quando giunge un ordine in contrasto con il nostro sistema di valori, anziché ignorarlo, potremmo commentarlo così: “Mah, che situazione strana, eppure se mi dicono di agire in questo modo sapranno bene quel che fanno!”. Tale atteggiamento, benché non censurabile nelle intenzioni, è comunque molto pericoloso nei risultati. Perché facendo leva su valori quali il senso del dovere e il rispetto verso chi ne sa più di noi si riesce a far commettere agli individui azioni violente e ingiuste senza che essi stessi le percepiscano come tali, e sentendosene perciò deresponsabilizzati. Qui, più che di banalità del male, qualcuno ha parlato di perversione del bene.

Tuttavia le personalità negative, autocentrate e opportuniste sono tante. Quando l’autorità costituita attribuisce loro il ruolo di vittima, certamente non gradiscono. Ma se tale autorità offre loro l’opportunità di poter aspirare al ruolo di carnefice non fa che incontrare le loro aspirazioni, con l’ulteriore vantaggio di sollevarle dal peso del senso di colpa perché la responsabilità del loro agire può farsi ricadere sulla stessa autorità che si pone al vertice della catena di comando. Anzi è la stessa istituzione che provvede a disporre l’organizzazione del “lavoro” in modo da poter semplificare il compito degli aguzzini al proprio soldo. L’istituzione conosce e si adopera per rimuovere gli ostacoli psicologici che potrebbero ostacolare la sua azione e il conseguimento dei suoi obiettivi. Vi è un’apposita branca della psicologia, quella del lavoro, che studia queste dinamiche. L’esperimento di Milgram, quello degli insegnanti che dovevano somministrare le scosse elettriche agli allievi, è pure entrato nel merito di tali dinamiche mettendo in luce alcune determinanti fisiche dell’obbedienza. Esso infatti ha posto l’obbedienza all’autorità in relazione con due fattori: la distanza tra insegnante e allievo e la distanza tra insegnante (che in realtà era il soggetto sperimentale) e sperimentatore. Furono infatti testati quattro livelli di distanza tra insegnante e allievo: nel primo l'insegnante non poteva osservare né ascoltare i lamenti della vittima; nel secondo poteva ascoltare ma non osservare la vittima; nel terzo poteva ascoltare e osservare la vittima; nel quarto, per infliggere la punizione, doveva afferrare il braccio della vittima e spingerlo su una piastra. Nel primo livello di distanza, il 65% dei soggetti andò avanti sino alla scossa più forte; nel secondo livello il 62,5%; nel terzo livello il 40%; nel quarto livello il 30%. Un’altra variabile manipolata fu la vicinanza fisica dello sperimentatore all’insegnante. In questo caso i livelli furono due. Nel primo livello lo sperimentatore sedeva a un metro di distanza per tutto il tempo dell’esperimento; nel secondo livello lo sperimentatore, dopo le istruzioni iniziali, si recava in un’altra stanza e impartiva le istruzioni da un citofono. Nel primo livello i soggetti obbedienti furono il 65% e in media impartirono una scossa massima di 360 volt; nel secondo livello i soggetti obbedienti si ridussero al 20,5% e impartirono una scossa massima di 265 volt. L’effetto dell’autorità pertanto risulta maggiore se chi la incarna è fisicamente vicino a chi deve ubbidire; al contrario cala quando, anziché da solo, il volontario è in gruppo, l’unione fa la forza e consente anche ai più timidi di ribellarsi; invece aumenta se il soggetto entra volontariamente nel territorio in cui lo sperimentatore esercita la sua autorità, producendo sentimenti di obbligo che vincolano il soggetto al proprio ruolo. Inoltre, l’effetto dell’autorità aumenta sensibilmente quando il volontario è lontano dalla vittima, perché si fa più fatica a fare del male se questa bisogna toccarla direttamente. La distanza fisica comporta e garantisce anche distanza emozionale. Non è un caso se in tutte le pratiche discriminatorie di successo è vietato mescolarsi con i discriminati. Al contempo l’isolamento della vittima non deve essere inteso solamente in termini fisici ma anche in relazione alla complicità che si instaura tra sperimentatore e insegnante, infatti la loro vicinanza fisica crea un gruppo caratterizzato da obblighi e solidarietà reciproche che li separa dalla vittima.

E qui si va a inciampare nel solito dilemma che ha da sempre attanagliato le scienze sociali riguardo all’origine, intesa pure come focolaio, del male. Il morbo sta nell’individuo che infetta il corpo sociale, o è questo che rovina gli individui? Marx non aveva dubbi: “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. La sua ricetta era semplice benché radicale: modificando la struttura sociale (ovvero la sfera dei rapporti di produzione e delle forze produttive) si incideva pure sulla sovrastruttura, cioè sulle realtà culturali, etiche, religiose, giuridiche e politiche della società che sarebbero sempre determinate dalla struttura economica. Solo quando le relazioni tra gli uomini sarebbero state modificate si sarebbero pure modificate le loro coscienze. L’esperimento dei regimi comunisti ha miseramente dimostrato che quell’analisi non reggeva. D’altra parte l’imminente bancarotta dei sistemi capitalisti, dichiaratamente imperniati sul bieco tornaconto dei singoli, non fa che confermare l’analisi sostenuta migliaia di anni fa dalla Rivelazione biblica: è il cuore degli uomini che è insanabilmente maligno. La società non è che la somma e lo specchio di questa condizione degli individui che la compongono.

Gli scienziati sociali, tuttavia, continuano ad accarezzare questa romantica visione del “buon selvaggio” rousseano, cioè dell’uomo in natura buono, corrotto dalla società “civile” e acculturata, generatrice di vizi e di mollezze. Philip Zimbardo non sfugge a questa sirena, però la sua analisi è in gran parte condivisibile poiché è anche vero che una società corrotta non può che influire negativamente sugli individui che la compongono, anche su quelli non particolarmente portati al male ma che facilmente possono restare condizionati dalle sue regole e dai suoi valori. Egli ha chiamato quest’influsso che trasforma persone normali in persone malvagie Effetto Lucifero e ha raccolto la sua analisi, che si ispira al suo esperimento carcerario, in un libro che porta lo stesso titolo. Ascoltiamo la sua riflessione in proposito: “Il mio nuovo libro mi ha dato l’opportunità di mettere in relazione il male, come io avevo avuto modo di osservarlo e che avevo contribuito a creare nello studio della Stanford Prison, con gli altri mali presenti nel mondo, come il genocidio, la tortura, gli abusi sui prigionieri della prigione di Abu Ghraib da parte dei soldati americani, ed il male nelle aziende dove la brama trasforma delle persone intelligenti ed ambiziose, come accaduto alla Enron, ed altri disastri. La mia opinione è che molte di queste azioni malvagie vengano perpetrate da persone assolutamente normali da tutti i punti di vista, non portate al male o con problemi patologici. Credo che dovremmo prestare maggiore attenzione al potere di alcune forze che dipendono dalle situazioni sociali e alle forze del sistema che crea queste situazioni, quando vogliamo comprendere le cause del male e sviluppare mezzi per combatterlo e prevenirlo. È più frequente che sia un cattivo contesto a corrompere delle persone rette piuttosto che delle mele marce inserite in un ambiente sano. … Non è abbastanza focalizzare l’attenzione solo su chi compie il male, ma anche sulle condizioni del sistema che supporta e mantiene l’abitudine al male. Intendo dire anche i valori legati alla cultura, alla legalità, alla politica, alla storia, che legittimano le persone che si comportano in modo malvagio”.

Ci troviamo di fronte al più grande circolo vizioso che la storia umana abbia partorito. Gli uomini, più o meno tendenti al male, costruiscono una società mediamente a loro immagine, la quale, a sua volta, con le sue regole contorte e compromissorie esercita un’implacabile influenza sugli individui che la compongono. Implacabile perché essendo questa sempre costruita secondo un modello gerarchico non può che esercitare un forte controllo sui suoi componenti, sempre più forte man mano che si scende nella scala gerarchica. Soprattutto le regole inerenti all’esercizio del potere sono spesso quelle che meglio rispecchiano la natura dell’uomo. Vengono date come inevitabili e come il male minore (dura lex, sed lex), come strumento razionale per il buon funzionamento della macchina istituzionale, ma di fatto proteggono una rete di relazioni costruite sull’arbitrio e sul privilegio. Certo, parte dell’umanità oggi vive in democrazia. Un tempo era anche peggio. Come recita l’adagio? “Se il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente”. Ma anche la migliore società democratica è ben lontana dalla perfezione. Ben lo comprese negli anni trenta Reinhold Niebuhr quando criticò l’illusoria dottrina americana del Destino Manifesto. “Bello sarebbe un mondo in cui l’uomo morale è generatore di una società egualmente morale – scrisse nel suo saggio Uomo Morale e Società Immorale – ma il sogno è irrealizzabile e per ciò stesso pericoloso”. La realtà della politica è indissolubilmente legata all’umanità corrotta che la esprime e che è incapace di fare un giusto uso della libertà. Pertanto ogni posizione che conduce ad una approvazione incondizionata del potere è, a suo avviso, irrealistica. E non potrebbe essere diversamente, perché gli uomini morali sono minoranza ed essi stessi contraddittori. Le istituzioni civili immacolate non sono pertanto di questo mondo.

C’è poi da dire che le società occidentali stanno vivendo una strana contraddizione: sebbene da anni sia andata sviluppandosi una sempre maggiore attenzione ai diritti della persona, sensibilità e rispetto per le istanze dei diversi, il rifiuto della violenza per dirimere le contese, della schiavitù, della tortura, della pena capitale, ecc., al contempo tuttavia assistiamo ad una semplificazione del sistema dei valori, con il predominio di quelli legati alla competizione sociale (denaro, prestigio, potere, affermazione narcisistica); e questa semplificazione porta grave danno alla vita delle persone, perché ogni riduzione del sistema dei valori – afferma lo psicopedagogista Mario Pollo – determina una riduzione delle loro possibilità di realizzazione individuale e sociale. Questa contraddizione fa sì che mentre ci illudiamo di aprire i nostri orizzonti di civiltà siamo in realtà avviati verso il declino.

Da sempre l’uomo deve fare i conti con la duplice dimensione del sistema dei valori: la dimensione “ideale”, che fa riferimento ai sistemi etici, religiosi e filosofici, e la dimensione “pratica”, di cui si parla di meno, che ha attinenza ai valori concreti del gruppo sociale e a cui ci si riferisce per individuare ciò che è utile e buono nella vita quotidiana. Le due dimensioni, sebbene interdipendenti, appartengono a piani diversi e inclinano la prima verso il versante cognitivo e la seconda verso quello emotivo-affettivo. Potremmo dire che la dimensione “pratica” dei valori è la concretizzazione imperfetta della dimensione “ideale”; e ciò si verifica sia per la difficoltà che si incontra sul piano concreto di applicare in tutta la loro purezza i valori ideali, sia per il persistere o l’affacciarsi di valori che appartengono ad altri sistemi. A causa di questa duplice dimensione valoriale gli individui che vogliono pienamente inserirsi nel contesto sociale sono chiamati a compiere dei compromessi. L’alternativa sarebbe quella di vivere ai margini della società umana, che non era certo quella auspicata da Cristo per i suoi seguaci (sebbene “essi non appartengano più al mondo”, Egli chiede al Padre: “Io non ti prego di toglierli dal mondo, ma di proteggerli dal Maligno” Gv 17:14,15). L’individuo è condizionato dallo stato di necessità e quindi dai vincoli che la società imperfetta gl’impone; egli non è pertanto libero di conformare pienamente le sue azioni ai valori in cui crede, ma può solo cercare di tendervi, e così facendo contribuisce nel suo piccolo a rendere meno imperfetta la società (cfr. a proposito il mio articolo Simone Weil e il primato della libertà). Man mano però che i due piani, quello ideale e quello pratico, si distanziano, i compromessi richiesti si fanno sempre più grandi finché il divario tra i due piani è tale da riferirsi a vere e proprie alternative etiche. È vero che la forza del cristianesimo è consistita di norma non nella contrapposizione frontale tra la propria etica e quella della società da conquistare bensì nello svuotamento di questa nella sostanza, se non ancora nella forma, con l’introduzione delle categorie cristiane; è però anche vero che un’eccessiva consuetudine con le categorie “pagane” ha finito per alterare la stessa dimensione “ideale” del sistema di valori cristiano, facendo sì che si venisse a perdere in tal caso la tensione verso il miglioramento della realtà esistente. Un sensibile divario tra valori ideali e valori pratici costituisce comunque sempre un problema perché, con la spinta al conformismo, si producono, in alternativa, due situazioni entrambe aberranti. Quando l’Obbediente mantiene in partenza i suoi riferimenti ideali, la richiesta di adattamento da parte della società è tale da comportare il ripudio di se stessi, il ripensamento dei propri riferimenti etici, per configurarsi in un vero processo di depensamento, di appiattimento acritico sull’ideologia dell’autorità costituita. Un misero percorso che spegne il desiderio di sognare e costringe a continui cedimenti e a inevitabili meschinità. Oppure può verificarsi che l’Obbediente condivida coscientemente l’ideologia aberrante del corpo sociale e si senta, pertanto, pienamente realizzato in questo percorso comunque distruttivo.

Perché effettivamente verso il proprio annichilimento si stanno avviando le nostre società. Non siamo più in grado di trasmettere ai nostri figli modelli esistenziali che trascendano meri principi di utilità e di ricerca del benessere materiale. Non indichiamo più neppure soluzioni di compromesso, di ricerca di un equilibrio tra ciò che si deve fare per vivere il meglio possibile, e la fedeltà ai valori, che soli possono produrre il senso o il non senso della vita e del mondo che si abita. E così essi non possono “maturare la consapevolezza – come constata Mario Pollo nel suo saggio La via per educare ai valori – che l’uomo che non tesse il suo progetto di vita sull’ordito dei valori, di fatto rinuncia allo sviluppo delle sue potenzialità umane e a trovare se stesso; o, perlomeno, rinuncia a governare la propria vita lasciandola alla deriva prodotta dalle circostanze e dalle manipolazioni altrui”. Non possono comprendere “che l’uomo senza valori è in balia degli eventi della vita e delle condizioni politiche, sociali ed economiche in cui essa si svolge, oltre che delle tensioni e degli impulsi biologici e psicologici che provengono dall’interno della sua persona”. Invece cosa osservano i nostri ragazzi? Una umanità al suo crepuscolo che i valori li calpesta, che profana la natura e spegne ogni tremito di luce spirituale. Un’umanità sfrontata che non si vergogna, anzi si vanta d’aver creato una civiltà spietata che genera pena e offesa: è questa l’eredità che lasciamo ai nostri giovani e che spinge spesso questi ad alienanti o esasperate soluzioni. Nella misura in cui contribuiamo a render spietata la nostra civiltà siamo colpevoli della pena e dell’offesa che arrechiamo ai più deboli e ai più fragili.

Eppure molti pensano di trovare la loro massima realizzazione in questo sistema ingiusto e oppressivo. Come la Becky Sharp, ne La Fiera delle Vanità, sono decisi e pronti a tutto pur di conquistarsi un posto al sole nel novero di chi conta. E non sanno “che tutto il loro affannarsi è inutile. È un correre dietro al vento” (Qoelet 1:14). Persino la loro immediata gratificazione è a rischio. Perché i furbi incontreranno sempre qualcuno più furbo sulla loro strada. “Saranno allo stesso tempo imbroglioni e imbrogliati” (2Tm 3,13). E comunque, se un sistema cade in balia delle furberie di molti, prima si destabilizza e poi crolla, e a quel punto non ce n’è per nessuno. Per cui, sebbene noi associamo la furbizia alla capacità di pensare in modo strategico, in fin dei conti, dobbiamo concludere che il furbo, inteso come colui che con scaltrezza o sfrontatezza arreca danno agli altri per un proprio tornaconto, non è in realtà in grado di interrogarsi sulle reali conseguenze delle proprie azioni, quindi è incapace di vero pensiero strategico.

Ma vorrei concludere con una nota positiva. Visto che abbiamo aperto riferendoci ai grigi burocrati nazisti diretti eteronomicamente, a un Eichmann che in fondo si occupava “soltanto di trasporti”, vorrei accennare a un altro burocrate che nel suo agire non smise mai, a proprio rischio, di riferirsi al suo sistema di valori. Parlo del commissario di pubblica sicurezza Paolo Salvatore (v. foto) che diresse il più grande campo di concentramento italiano, quello calabrese di Ferramonti di Tarsia. Egli antepose sempre l’umanità e la tolleranza all’antisemitismo del regime e agli assurdi ordini ricevuti, chiedendo ai reclusi, quasi tutti ebrei stranieri, come unica condizione, di evitare qualsiasi forma di rivolta o insubordinazione, al fine di mantenere sempre una parvenza esteriore di ordine e disciplina, e che per questo, pochi mesi prima dell’arrivo degli inglesi, pagò di persona con la rimozione e il trasferimento a Sondrio. Significativa, per cogliere il clima creatosi in quella realtà, la testimonianza di Alice Redlich, ebrea austriaca qui internata con il figlio il 2 ottobre 1941: “In uno dei primi giorni a Ferramonti c’era mio figlio che giocava fuori dalla baracca, e vidi girare una macchina che prendeva i bambini. Io mi terrorizzai e chiesi agli altri cosa stesse accadendo. Tutti mi guardavano come se fossi matta e mi spiegarono che era il direttore che portava i bambini a passeggio. Dopo un’ora tornarono tutti contenti: erano usciti a prendere un gelato. Una sera, durante uno spettacolo, qualcuno stava parodiando Hitler; all’improvviso arrivò il maresciallo: tutti ci spaventammo. Invece lui era lì solo per ridere e divertirsi con noi.” Il maresciallo Gaetano Marrari comandava la polizia del campo, anch’egli persona molto umana, che, a pochi giorni dall’arrivo degli inglesi, si rese protagonista di un episodio eroico a protezione degli internati. Una colonna nazista della divisione corazzata Hermann Goering, in risalita verso il nord, si fermò all’ingresso del campo probabilmente per rendersi conto della situazione e prelevare qualche prigioniero come ostaggio; ma il maresciallo Marrari, simulando la presenza di numerosi lebbrosi e colerici tra di loro, convinse i nazisti a non entrare nel campo e ad allontanarsi portando via solo della nafta. Grazie alla generosità e all’accortezza di uomini che seppero superare leggi razziali e fanatismi, un luogo concepito per affliggere delle persone finì per proteggerle. Un esempio di altruismo e compassione che si staglia luminoso nell’orrore nazifascista.

“Non meritò di nascere chi visse sol per sé”, scriveva il Metastasio. Il potere è uno strumento pericoloso, da maneggiare con grande cautela. È facile che sfugga di mano e da servizio si trasformi in tirannia e occasione di personale tornaconto, e questo, ovviamente, si verifica più facilmente quando siamo centrati su noi stessi, quando non riusciamo a immedesimarci nell’altro, e il bisogno, il dolore altrui non ci coinvolge, non è importante. È semmai una seccatura da scongiurare, da eliminare, talvolta fisicamente. E più questo potere aberrante è al vertice e più lunga è la catena di comando che prende ordini e si adopera per compiacerlo. Gli uomini come scelgono i loro capi? Tra le attitudini al comando, comprendono l’empatia, la lealtà, l’altruismo e lo spirito di sacrificio? A quale modello si ispirano? La più grande personalità egemone di tutti i tempi, peraltro tutt’ora vivente, non dimentichiamolo, è Lucifero, l’autore della prima e della più grande rivolta, che sottrasse al bene un terzo degli angeli e la maggior parte degli uomini. Era la creatura più amata e ammirata, oggi è la più temuta e disprezzata. I suoi stessi angeli, pur temendolo, più non lo stimano. “Siamo stati stupidi ad andare dietro al capo”, ha confessato il demone a mons. Gemma durante un esorcismo (cfr. il mio articolo Le lacrime di Serena). A questo modello s’ispira anche il potere degli uomini che è essenzialmente competitivo, basato sulla lotta e quindi sulla forza. E con queste premesse non c’è posto per un comportamento corretto e morale. Per il Principe di Macchiavelli le doti etiche sono mere illusioni nella lotta politica, e se per convenienza talvolta occorre mostrare pietà, fedeltà e umanità è più utile simularle che osservarle veramente. Va da sé che dove non c’è verità non c’è amore. Poco importa: è molto più utile per il Principe essere temuto che amato, sostiene Macchiavelli. Quel che però gli uomini non considerano è la biunivocità del rapporto tra verità e amore. Che invece notò molto bene Feuerbach: “Dove non c’è amore non c’è verità, e soltanto vale qualcosa colui che ama. Non esser nulla e non amar nulla è perfettamente identico”. Infatti la banalità del male, è anzitutto vuoto d’amore, incapacità d’amare; e proprio per questo, in un contesto sociale carente di sentimenti positivi e con una tendenza al conformismo biologicamente determinata, il male è estremamente contagioso. Nessuno ne è immune. E quando non viene opportunamente contrastato, è facile che si creino situazioni esasperate ad ogni livello: dalla famiglia, al condominio, all’ambiente di lavoro, sino alla comunità nazionale e internazionale. Finché non fu approntato l’ordigno nucleare, queste situazioni dominate da un male diffuso e virulento trovavano regolazione nel conflitto armato e generalizzato. Oggi si è più titubanti perché si ha presente il rischio, ma la riduzione dei sistemi di valore e la disintegrazione della coesione sociale tende con forza in quella direzione. La sottovalutazione della natura umana e delle dinamiche relazionali, così come avvenne nella ex Jugoslavia, non fa pensare che basterebbe il sopraggiungere di una sola variabile che convogli la violenza accumulata su un solo obiettivo quale può essere il diverso etnico, culturale, politico o religioso per scatenare l’ennesima caccia alle streghe. Ci conforta il pensiero che non tutti sono disponibili a lasciarsi annullare in questo processo. Grazie al Cielo (è davvero il caso di dire) vi sono qua e là degli uomini come Paolo Salvatore che, a dispetto degli ordini ricevuti, portano fuori i bambini a prendere il gelato, quando la maggioranza dei colleghi, come il famigerato Karl Fritzsch di Auschwizt, nell’appropriato contesto i bambini li farebbe uscire dal camino de-pensando di far la cosa giusta.

... son morto ch' ero bambino,
passato per il camino e adesso sono nel vento

ad Auschwitz...
F. Guccini



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