martedì 27 gennaio 2009

Padri e Retorica

A Barack Obama è piaciuto nel corso di questa campagna elettorale rievocare, e in qualche modo far proprie, le idee e le battaglie di illustri e amati presidenti del passato. Spesso nei suoi discorsi ha chiamato in causa le figure di Kennedy, Roosevelt e Lincoln. Con quest’ultimo, poi, le analogie sono state rimarcate con studiati accostamenti simbolici fino al punto, una volta eletto, di voler ripercorrere lo stesso viaggio in treno da Filadelfia a Washington e di giurare sulla stessa Bibbia.

In effetti le somiglianze tra i due personaggi non mancano, fin dall’annuncio della candidatura di Obama a Springfield, la capitale dell’Illinois, dove Lincoln cominciò la propria carriera politica. Entrambi insistono sull’unità della nazione al di là delle logiche partigiane, sono noti per le loro capacità oratorie e per la tendenza a scrivere i loro discorsi più importanti. Entrambi sono avvocati, non hanno una lunga esperienza parlamentare e sono venuti fuori praticamente dal nulla vincendo le elezioni presidenziali. Entrambi si sono insediati in momenti difficili per il Paese.

Non so tuttavia fino a che punto convenga ad Obama paragonarsi, con tanta studiata attenzione nei particolari, al suo illustre predecessore. Non solo perché, occorre ricordare, l’avventura politica e umana di costui finì sotto le pistolettate di un estremista squilibrato. Ma soprattutto perché l’immagine di Lincoln, eroe purissimo che combatte l’abominevole pratica della schiavitù, è un ritratto fiabesco quasi del tutto ricostruito. La stessa guerra di secessione, accostata nei libri di scuola alla liberazione degli schiavi, si scatenò in realtà per motivazioni molto meno nobili e lo schiavismo vi ebbe una parte quando non marginale sicuramente strumentale.

Vero motivo del contendere, come gli storici sanno bene, fu il divergente modello di sviluppo tra gli stati del nord e quelli del sud. Questi godevano di condizioni climatiche e di un suolo favorevoli alle coltivazioni intensive. Tabacco, riso e poi, soprattutto, cotone, venivano prodotti in quantità ampiamente superiori alle necessità interne ed erano in gran parte esportate all’estero. Gli stati settentrionali, invece, per il clima rigido potevano al massimo dedicarsi ad un’agricoltura di sussistenza. Il loro modello di sviluppo s’indirizzò pertanto verso l’industria, la pesca e il commercio. Tutte attività che richiedevano una serie di infrastrutture, principalmente ferrovie e strade, che favorissero il più possibile il movimento sul territorio. Per la realizzazione di queste opere fu necessario imporre una fiscalità pesante che non piacque agli stati sudisti costretti a pagare per progetti che li riguardavano solo marginalmente. Washington, inoltre, perseguiva una politica protezionistica che favoriva gli stati industriali del nord ma deprimeva le esportazioni cotoniere del sud. Si erano pertanto creati gravi dissidi di natura fiscale e doganale che spinsero alcuni tra gli stati meridionali a non riconoscersi più nell’Unione.

In tutto ciò il discorso sullo schiavismo fu solo un’aggravante, per giunta usato spesso in modo strumentale e insincero dagli stati del nord. Come scriveva Alfredo Signoretti nella sua Storia degli Stati Uniti d’America: “Giovò alla causa nordista la figura adamantina di Abramo Lincoln che abbracciò la causa dell’Unione con un ardore mistico; egli guidò il suo popolo là dove erano i suoi fondamentali interessi storici ma gli infuse lo spirito di combattenti per una crociata umanitaria, ideale, che trascese gli obiettivi nazionali. E questa è una posizione tipica a cui si presta ottimamente la mentalità americana. Il problema non era un problema di diritto i cui termini erano e sono inestricabili; era un problema di forza, e come tale fu risolto”. L’attenzione sulla schiavitù “servì a nascondere, a confondere i termini sostanziali dell’urto”. Se gli stati nordisti “fossero stati sinceramente democratici avrebbero dovuto lasciare andare per loro conto quelli che se ne volevano andare. Essi sfruttarono abilmente l’arma ideologica e umanitaria della schiavitù che forse non opportunamente il Sud aveva impugnato come l’arma legalitaria per ottenere il ristabilimento di una parità ormai tramontata” nel rapporto di forza parlamentare rispetto agli stati settentrionali. Gli stati meridionali difendevano i loro interessi nell’ambito della legge perché la Costituzione americana non impediva agli stati la secessione e al contempo non condannava la schiavitù ma solo, pilatescamente, proibiva l’importazione di nuovi schiavi. Era facile per il Nord levarsi contro la schiavitù perché il suo modello industriale favoriva semmai la promozione sociale richiedendo la formazione di manodopera specializzata. Il modello economico del Sud dipendeva invece dal lavoro a costo infimo di molte braccia, e quella società non poteva permettersi alcun discorso di promozione sociale, né tanto meno di uguaglianza. Le accuse che giungevano dal Nord venivano bollate come ipocrite e rinviate al mittente. I sudisti sostenevano che nessuna legge naturale proibiva la schiavitù, neppure la Bibbia che condannava solo il trattamento disumano. D’altronde che i nordisti guardassero in casa loro, agli orrori dello schiavismo industriale che sfruttava con misere paghe la fatica delle donne e dei fanciulli.

Che lo schiavismo c’entrasse poco con la guerra di secessione lo dimostra il fatto che ben quattro stati schiavisti erano schierati con il Nord: Kansas, Missouri, Kentucky e Virginia Occidentale. Mentre altri quattro stati, i due Dakota, il Nebraska e l’Oklahoma, quest’ultimo schiavista, si mantennero neutrali. Il comandante dell’esercito confederato, Robert E. Lee, quando la questione della schiavitù cominciò a scottare, liberò i suoi schiavi e scrisse: “La schiavitù è un male morale e politico in qualsiasi società, un male maggiore per i bianchi che per i negri”. Egli non combatté pertanto a difesa dello schiavismo. L’abilità di Abraham Lincoln fu quella di mascherare una sporca guerra di riconquista con la nobile causa abolizionista. Lincoln non amava la schiavitù, la riteneva anacronistica ed espressione di una cattiva politica economica: fu infatti contrario alla sua introduzione nei Territori, cioè negli stati di nuova costituzione poiché la concorrenza della manodopera gratuita avrebbe impedito ai bianchi poveri la possibilità di crearsi una posizione economica. Allo stesso tempo egli aveva criticato le campagne abolizioniste, ritenendole demagogiche e irrealistiche. E in tal senso propose un emendamento nella Costituzione in cui si affermasse che “Il governo federale non interverrebbe mai nelle istituzioni domestiche degli Stati, includendo quella delle persone tenute al servizio”. Lincoln non amava la schiavitù per mere ragioni d’opportunità.

Ciò che a lui stava veramente a cuore era l’unità della nazione; era questo per lui l’ideale supremo, da perseguire anche a costo di mettersi contro la Costituzione. Lo affermò chiaramente: “L’Unione è molto più antica della Costituzione; uno stato non si può mettere fuori dall’Unione di sua spontanea volontà: L’Unione non è rotta e curerò perché le leggi dell’Unione siano fedelmente eseguite”. Tutte le altre cause, compresa la schiavitù, erano solo carte da giocare in un modo o nell’altro in questa partita. «Nel corso dei dibattiti precedenti alla guerra, giornali e oratori politici avevano spesso usato uno slogan tratto dalla Bibbia: “Una casa divisa non può resistere”. Due anni prima di diventare presidente, Lincoln aveva chiarito il suo pensiero in proposito: “Credo che questo governo non potrà restare per sempre mezzo schiavista e mezzo antischiavista. Io non mi aspetto che l’Unione si dissolva; non mi aspetto che la casa crolli; penso però che cesserà di essere divisa. Diverrà una cosa o l’altra”». (Alistair Cooke, America, Fabbri, 1976, p. 203). Ancora più esplicita la sua dichiarazione al giornalista Horace Greeley, del New York Times, in un'intervista dell'agosto 1862: “Il mio obiettivo supremo in questa battaglia è di salvare l'Unione, e non se porre fine o salvare la schiavitù. Se potessi salvare l'Unione senza liberare nessuno schiavo, io lo farei; e se potessi salvarla liberando tutti gli schiavi, io lo farei; e se potessi salvarla liberando alcuni e lasciandone altri soli, io lo farei anche in questo caso. Quello che faccio a riguardo della schiavitù, e della razza di colore, lo faccio perché credo che aiuti a salvare l'Unione”. E così, infatti, egli agì. A lui si dà il merito d’aver liberato gli schiavi con il suo Proclama di Emancipazione in vigore dal 1° gennaio 1863. Ciò però che in genere si omette di definire sono i destinatari di tale Proclama e le ragioni, da Lincoln stesso ammesse, per cui esso fu promulgato. Come argutamente notò lord Palmerston: “Il signor Lincoln si impegnò ad abolire la schiavitù dove non aveva alcun potere di farlo, e la protesse dove poteva distruggerla”.

Infatti spesso si dimentica di dire che questo commovente documento riguardava solo gli stati del sud su cui Washington non aveva giurisdizione, e specificamente solo le aree della Confederazione non ancora controllate dall’Unione; non riguardava gli schiavi dei territori occupati e degli stati unionisti soggetti alla giurisdizione di Washington, e quindi di Lincoln, che pertanto non furono liberati. Che senso aveva questa mossa, di fatto inconcludente ai fini dell’emancipazione effettiva degli schiavi? Un gesto propagandistico? Certo, fu anche questo: perché offriva all’opinione pubblica del nord una nuova e nobile motivazione per continuare a combattere. Ma il Proclama era ancor più sottilmente finalizzato al supremo obiettivo di salvare l’unità della nazione. Nel testo stesso si legge che esso veniva adottato “come misura bellica conveniente e necessaria per annientare la sopraddetta ribellione”, cioè la secessione degli stati confederati. Esso minacciava gli stati “ribelli”, a meno di una resa incondizionata, di liberare tutti i loro schiavi. Il che significa che se essi si fossero arresi avrebbero potuto mantenere la schiavitù. Una prova ulteriore che della schiavitù in sé a Lincoln importava ben poco. Il proclama inoltre sarebbe servito anche in caso di ostinazione dei confederati; perché autorizzava l’esercito dell’Unione ad arruolare gli schiavi del nemico, man mano che li liberava, per farli combattere contro i loro ex padroni. “L’uso delle truppe di colore – osservò lo stesso Lincoln – costituisce il colpo più pesante finora sferrato alla Ribellione”. E ancora: il Proclama ebbe l’effetto di dissuadere diverse nazioni europee, soprattutto Francia e Inghilterra, dal riconoscere la Confederazione e dal fornirle apertamente un sostegno. Molti dirigenti europei infatti non nascondevano la loro simpatia per i sudisti ma tutti i partiti erano decisamente antischiavisti, e dopo la presa di posizione dell’Unione nessun Governo avrebbe potuto appoggiare la Confederazione senza inimicarsi la propria opinione pubblica. Con il Proclama Lincoln otteneva tutti questi risultati senza dover dare una soluzione definitiva al problema. Un vero capolavoro d’ipocrisia che tirava in ballo una cosa per conseguirne un’altra.

L’atteggiamento blandamente e strumentalmente antischiavista di Lincoln si spiega con il fatto che egli, come buona parte dei suoi concittadini, era razzista. La cultura dell’americano medio era quella sviluppata nel mito del “self made man”, mito violento e appunto razzista, che esalta le abilità di uomini e gruppi, a discapito del principio che l’uomo è degno di rispetto per il solo fatto d’essere uomo. E proprio perché figlio del suo tempo, Lincoln non nascondeva affatto le sue idee razziste; anzi, le usava per spiegare le motivazioni delle sue convinzioni antischiaviste che non scaturivano da sentimenti egualitari. Al contrario egli considerava lo schiavismo causa di promiscuità tra bianchi e neri, e, favorendo il concubinaggio, della deprecabile produzione di mulatti. Per lui era quindi opportuno tenere separati i due gruppi etnici, possibilmente deportando tutti i neri ad Haiti o in Africa. Il suo era pertanto un antischiavismo segregazionista. Nel corso della campagna elettorale del 1848 egli affermò: "Devo dire che non sono, e non sono mai stato, favorevole a promuovere in alcun modo l'uguaglianza sociale e politica tra la razza bianca e quella nera; devo aggiungere che non sono mai stato favorevole a concedere il voto ai negri o a fare di loro dei giurati, né ad abilitarli a coprire cariche pubbliche, o a permetter loro matrimoni coi bianchi; riaffermo che esiste una troppo spiccata differenza tra la razza bianca e quella negra, e che questa diversità impedirà per sempre alle due razze di vivere insieme in termini di uguaglianza sociale e politica... finché la convivenza sarà necessaria, dovrà pur mantenersi un rapporto da superiore ad inferiore, e io, come ogni altra persona ragionevole, sono ovviamente a favore del ruolo dominante della razza bianca." Nel 1857 rincarava la dose con queste parole: “Esiste un naturale disgusto da parte di quasi tutti i bianchi all'idea di una mescolanza indiscriminata della razza bianca e di quella negra. Da parte mia, protesto contro quel tipo di logica bastarda secondo la quale dal fatto che io, ad esempio, non voglia avere come schiava una donna negra, si deduce che debba necessariamente poterla volere come moglie... Io non ho bisogno né dell'una né dell'altra... Sotto molti aspetti essa non è infatti uguale a me. Per me, la separazione delle razze costituisce l'unico sistema per evitarne la mescolanza”.

La “missione” di salvare l’Unione costò un prezzo altissimo. Dopo la seconda guerra mondiale neppure la Germania era devastata quanto il sud al termine della guerra civile. Fu il primo conflitto moderno, che introdusse molte novità nel campo della tattica: la guerra di trincea, le incursioni notturne, l’impiego del filo spinato, le bombe a mano, le mitragliatrici, i lanciafiamme, le mine, le navi e i treni corazzati, i siluri. Esso ispirò i manuali di tutte le accademie militari del mondo occidentale sino alla seconda guerra mondiale. Si stima che costò in termini di risorse economiche, attualizzando, 69 miliardi di dollari. In termini di vite umane superò abbondantemente la somma dei morti americani nella prima e nella seconda guerra mondiale: vi persero la vita per ferite o per malattie 620 mila soldati, 360 mila unionisti e 260 mila confederati. Aggiungendovi le vittime civili si arriva al milione di morti. Per distruzione di uomini e di beni superò tutte le campagne napoleoniche, compresa quella di Russia.

La determinazione con cui i confederati si batterono non si spiega con la sola difesa dell’economia schiavista. “La schiavitù da sola non sarebbe stata capace di tenere uniti proprietari terrieri e cacciatori di frontiera, commercianti e agricoltori di montagna, bianchi poveri e persino soldati dalla pelle nera. I sudisti provavano un sentimento sconosciuto ai nordisti: quello di appartenere a una patria comune” (A. Cooke, op.cit. p. 206). «Per il Sud più che la schiavitù era in gioco il principio di autonomia degli stati i quali erano entrati liberamente nell’Unione e liberamente potevano uscirne. Non c’erano dubbi in proposito per gli uomini del sud; lo spirito e la lettera della Costituzione non obbligavano uno stato ad essere membro della Confederazione contro la sua volontà. Il predecessore di Lincoln, Buchanan, vedendo addensarsi la bufera, diceva: “Lasciate che le sorelle erranti se ne vadano tranquillamente”» (A. Signoretti, op.cit. p. 67). Ma Lincoln non lasciò andare le sorelle erranti. La secessione non coincideva con l’idea del legame indissolubile che per lui costituiva l’Unione, e non coincideva con gli interessi economici e industriali del nord.

Valse la pena, tutto il sangue versato? Forse sarebbe valsa se la vera causa dello scontro fosse stata l’emancipazione degli schiavi, perché mai alcun prezzo è troppo alto quando la posta in gioco è quella di restituire agli uomini libertà e dignità. Ma non fu questa la vera causa del conflitto, e la gente di colore, anche dopo l’emancipazione, rimase sottomessa, discriminata e sfruttata. E non poteva essere diversamente in un contesto culturale dove democrazia e disuguaglianza poterono coesistere tranquillamente per oltre un secolo ancora, fino alla stagione delle lotte per i diritti civili di cui fu apostolo Martin Luther King.

Ma Lincoln non fu l’apostolo dell’uguaglianza e della libertà. Egli fu un politico estremamente abile e astuto, razzista quanto l’elettorato che lo aveva espresso, antischiavista quanto poteva tornargli utile nella missione di salvare l’Unione. Per sua stessa ammissione. Non fu un gangster al potere come Hitler o Pol Pot. Non fu un tiranno, e permise la più ampia libertà di critica contro la sua amministrazione sia al Congresso che sulla stampa e nei comizi pubblici. Licenziò gl’incompetenti e affidò gl’incarichi direttivi a persone capaci, senza riguardo al colore politico, alle amicizie o al grado. Fu sicuramente un politico di razza e fu magnanimo con i nemici sconfitti che egli considerava solo avversari. Così magnanimo che, se non fosse stato fermato dal suo assassino, avrebbe probabilmente rivisto, rallentandolo, il suo programma di emancipazione degli schiavi. Egli era convinto che lo schiavismo fosse un anacronismo destinato ad estinguersi da solo, probabilmente entro il 1900, se solo ci si fosse limitati a circoscriverlo alla sua area storica. Non va dimenticato che il 13° emendamento, a cui pure egli stava lavorando, quello sull’emancipazione degli schiavi su tutto il territorio dell’Unione, venne approvato solo dopo la sua morte.

Eppure il suo nome rimase legato al suo sovrastimato Proclama di Emancipazione. Attorno a lui crebbe il mito, a dispetto delle sue dichiarazioni e dei suoi atti palesi. A ciò contribuì certamente la fine tragica che lo colpì. In fondo il sudista Booth, uccidendolo, gli rese un favore, perché lo fermò nell’attimo in cui massima era la sua gloria e prima che potesse occuparsi (forse meglio di chi gli successe) dei gravi problemi indotti dalla guerra. Così la sua popolarità, che non fu mai molta in vita, crebbe a dismisura dopo la morte fino a superare quella di Washington e di Jefferson. Ho potuto constatarlo personalmente. Di fronte alla sua effige marmorea, che si trova all’interno della Casa Bianca, espressi un commento poco lusinghiero e una mia cugina americana ne fu profondamente indignata. In quel momento, se avesse potuto, mi avrebbe fulminato. Noi italiani, per millenni tenuti separati dalla politica della Chiesa, terra di conquista di tedeschi, francesi e spagnoli, angariati dai Borbone, dai Savoia e da Mussolini, vessati da governicchi che raramente hanno espresso veri statisti, tutti presi a confondere gl’interessi pubblici con quelli privati e a favorire gli amici degli amici, non possiamo comprendere il patriottismo degli americani. Anch’esso tuttavia è costruito su miti sopravvalutati. Quando uomini esaltano altri uomini non può che essere così. Condivido perfettamente il pensiero, che qui riporto, dello storico Paolo Deotto: “E' bello, e soprattutto tranquillizzante per la coscienza, pensare che gli avvenimenti storici siano determinati da grandi ideali. L'eroe purissimo che combatte per una santa causa e la vince (o, meglio ancora, la causa vince ma lui muore, pronunciando però un attimo prima di morire alcune frasi memorabili), è una figura fiabesca così bella che diventa facile credere che esista o sia mai esistita. Senza fare la figura dei cinici sfrenati, vorremmo notare come i Grandi Ideali difficilmente siano la causa dei grandi rivolgimenti politici, delle guerre, e di tutte le altre amenità che costellano la vicenda umana. E questo per un semplice motivo: chi realmente persegue i Grandi Ideali, se questi sono realmente Grandi, in genere non aspira al Potere, non raggiunge quelle posizioni di dominio che permettono di incidere sulla vita degli uomini e sulla politica. Nulla vogliamo togliere alla forza morale degli Ideali e di chi onestamente vive per essi; ma la forza morale è determinante solo sull'onda lunga dei decenni, se non dei secoli, e con modalità che non sono mai quelle della violenza che tanto caratterizza la storia umana”.

Ci vada cauto, pertanto, Obama con i parallelismi storici. Non solo perché nessun periodo contemporaneo può essere una replica del passato, ma perché gli uomini sono modelli imperfetti che inevitabilmente nascondono scheletri negli armadi. I modelli servono, ma a patto di non identificarvisi troppo. Così come aiuta riconoscersi in una comunità, possibilmente sana, ma senza scadere nella retorica patriottarda. Occorre conservare un sano realismo. È ancora presto per esprimersi sulle motivazioni profonde che hanno spinto il neopresidente a imbarcarsi in quest’avventura. Ha tuttavia bisogno di tutti i nostri auguri perché, anche concedendogli la buonafede, molte saranno le lusinghe e gli ostacoli che incontrerà sul suo cammino. L’entusiasmo della folla (mista a lacrime di commozione) durante la cerimonia d’insediamento è più che comprensibile. Le cose non vanno bene. Gli egoismi, l’intolleranza, la congiuntura economica, appaiono stringere sempre più non solo gli americani ma l’intera umanità in una morsa che non preannuncia nulla di buono. Non a caso la cerimonia è stata seguita con attenzione in mondovisione. La gente chiede per sé pace e giustizia, ma, purtroppo, è meno incline a concederla agli altri. Obama ha riconosciuto che le più gravi piaghe sociali sono prodotte dall’egoismo, dall’individualismo e dall’indifferenza verso il prossimo, in altre parole dal deficit morale. Non sono cioè semplici problemi tecnici superabili con una buona legge o un piano programmatico; sono ancor prima problemi morali radicati nella natura umana che possono trovare soluzione in un cambiamento non solo politico ma anche nei cuori e nel modo di pensare. Certo, la politica, che per sua funzione è limitata agli interventi esterni, può e deve assecondare questo processo; ma per trasformare i cuori ci vuole anche altro. Più che mai oggi non è tempo di retorica ma di preghiera.

Per approfondire: Dio approva la schiavitù?

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